Critica al Wilsonismo – Gli Stati Uniti “dopo” Wilson : Dalla “tregua” alla Seconda Guerra Mondiale

Critica al Wilsonismo – Gli Stati Uniti “dopo” Wilson : Dalla “tregua” alla Seconda Guerra Mondiale

Indice : Dopo la presidenza WilsonL’avvento di Franklin Delano Roosevelt – La politica estera di Roosevelt – Il “Nuovo Ordine Mondiale” – Le Nazioni Unite – “Uncle Joe” – Da Roosevelt a Truman

[sta_anchor id=”dopo-la-presidenza-wilson” unsan=”Dopo la presidenza Wilson”]Gli “interregni”[/sta_anchor] dopo la presidenza Wilson (1921-1933)

“Call it the selfishness of nationality if you will.
I think it’s an inspiration to patriotic devotion to safeguard America first, to stabilize America first, to prosper America first, to think of America first, to exalt America first, to live for and revere America first.
Let the internationalist dream, and the Bolshevist destroy.
God pity him for whom no [minstrel raptures dwell.]
In the spirit of the Republic we proclaim Americanism and acclaim America.
(Senatore Warren G. Harding, “Americanism”, discorso rivolto alla Ohio Society Of New York al Waldorf Hotel, 20 Gennaio 1920)

1920, il primo decennio del Ventesimo Secolo è alle spalle anche se con qualche scoria.
Stavano per avere inizio quelli che sarebbero passati alla Storia come i “Roaring Twenties”, gli Anni Ruggenti in cui l’Occidente abbandonò i timori e terrori degli anni precedenti per sprigionare una temporanea trasgressione da una parte (negli Stati Uniti d’America verranno ricordati anche come i tempi del Proibizionismo) ed un energico slancio di vitalità, delle persone come delle economie, dall’altra (con l’entrata di nuovi prodotti di consumo come la radio, l’esplosione del cinema come attrazione e come business e la trasformazione fordista delle industrie).

Negli Stati Uniti d’America, dopo la presidenza di Thomas Woodrow Wilson e la sua morte, la politica tornò “principalmente” a curarsi degli interessi e degli affari legati all’Oceano Atlantico: la Prima Guerra Mondiale era da poco giunta al termine e Washington si era già fatta carico di ingenti sacrifici per prevalere, assieme all’Intesa, in quel sanguinoso conflitto. Tra le aule del Congresso il sentimento (ed il risentimento) della politica statunitense era pertanto volto a che questi sacrifici non proseguissero oltre.

Come già evidenziato (qui il rimando alla seconda parte di questo approfondimento) la fronda isolazionista del Partito Repubblicano, capitanata da Henry Cabot Lodge, aveva prevalso nella fase conclusiva dell’amministrazione Wilson: essa infatti contribuì in modo determinante affinchè il Congresso (il Senato divenne teatro dello scontro decisivo) bloccasse le grandi battaglie che caratterizzarono l’amministrazione wilsonista, ovvero la ratifica dei trattati che uscirono dalla Conferenza di Pace di Versailles e la nascita della Società delle Nazioni).

È “possibile” immaginare come allora la notizia della morte di Wilson possa essere stata accolta con giubilo non soltanto dai membri del Partito Repubblicano, ma anche dalla maggioranza della popolazione statunitense: anch’essa infatti, con le dovute proporzioni, era stata messa a dura prova dagli anni della Guerra.

Furono quasi centodiciottomila le persone che, tra soldati e civili, non fecero più ritorno a casa dal fronte; un numero comunque importante per una Nazione che combattè soltanto nell’ultimo anno del conflitto mondiale. Inoltre le politiche belliche sostenute dagli Stati Uniti d’America in termini di incentivi e sostegno a determinati settori produttivi (come quello agricolo, incentivato alla produzione di beni alimentari per il sostentamento delle truppe statunitensi al fronte) avrebbero avuto serie ripercussioni economiche e occupazionali negli anni successivi, risultando alcuni dei fattori che avrebbero aumentato il potere distruttivo scaturito dal crollo della Borsa di Wall Street (con ripercussioni per l’intera economia mondiale) nel nefasto “Black Tuesday” del 29 Ottobre 1929.

All’interno di questo scenario panoramico dell’immediata fase post-wilsonista, la politica statunitense osservò l’avvicendamento di tre Presidenti provenienti dalle file del Partito Repubblicano: Warren G. Harding (1865-1923) fu il primo, ma dopo poco più di due anni alla Casa Bianca (dal 1921 al 1923) venne stroncato da un infarto causato da una polmonite e morì non ancora cinquatottenne. La morte inaspettata di Harding portò il Vice-Presidente Calvin Coolidge (1872-1933) a prenderne il posto, rimanendo alla guida degli Stati Uniti d’America per sei anni dal 1923 al 1929. Non ricandidatosi per un terzo mandato nonostante gli sforzi e le richieste dei Repubblicani, Coolidge preferì ritirarsi dalla vita politica e trascorrere gli ultimi anni a Northampton, Massachusetts tra la stesura delle proprie memorie e la collaborazione per alcune testate locali. Prima di morire d’infarto a sessant’anni il 5 Gennaio 1933, Coolidge ebbe il tempo di vedere il crollo di Wall Street e i segnali dell’inizio della Grande Depressione, quella stessa Grande Depressione che avrebbe travolto il terzo Presidente Herbert Hoover (1874-1964).

Ex-Segretario al Commercio durante entrambe le amministrazioni Harding e Coolidge, Hoover rimase in carica per un solo mandato (dal 1929 al 1933) subendo una sonora sconfitta nelle elezioni di mid-term del 1932 in cui prevalsero i Democratici.
In seguito all’esperienza presidenziale, Hoover divenne un alfiere della lotta al comunismo (che in quegli anni avrebbe visto emergere figure quali quella del Direttore dell’FBI John Edgar Hoover e del Senatore Joseph McCarthy) e fu consigliere del Presidente Harry Truman. Morì a New York il 20 Ottobre 1964 all’età di novant’anni, come ultimo membro delle amministrazioni Harding e Coolidge allora ancora in vita e con il grande fardello della pessima gestione del crollo di Wall Street e della Grande Depressione (in seguito la sua posizione venne riabilitata dall’opinione pubblica del Paese, anche se il dibattito storico e accademico attorno alla sua figura sia ancora in atto negli Stati Uniti). 

Dal punto di vista politico né Harding né Hoover (a differenza di Coolidge) riuscirono a rinnovare il proprio mandato a guida degli Stati Uniti d’America e possono essere inseriti nella lista di quelle figure presidenziali che la popolazione statunitense ricorda con minor piacere (Hoover in particolar modo). Maggiormente attivi sul fronte della politica interna, con risultati sfortunatamente dannosi, è possibile affermare come in termini di politica estera, anche se con alcune eccezioni di grande rilevanza, i tre Presidenti non ebbero un grande peso rispetto ai loro predecessori.

Durante l’amministrazione Harding si può ricordare anzitutto la Conferenza Navale di Washington durante la quale, dal 12 Novembre 1921 al 6 Febbraio 1922, gli statunitensi strinsero accordi al di fuori dei vincoli della Società delle Nazioni con altre nove nazioni europee e asiatiche circa la situazione nell’area del Pacifico, la fine della corsa agli armamenti e il riequilibrio delle flotte, tra navi e portaerei, secondo specifici criteri proporzionali come evidenziati all’interno del trattato, con tabelle schematiche, e ai sensi degli Articoli 4 e 7 qui citati.

“Article IV
The total capital ship replacement tonnage of each of the Contracting Powers shall not exceed in standard displacement, for the United States 525,000 tons (533,400 metric tons) ; for the British Empire 525,000 tons (533,400 metric tons); for France 175,000 tons (177,800 metric tons); for Italy 175,000 tons (177,800 metric tons); for Japan 315,000 tons (320,040 metric tons).
Article VII
The total tonnage for aircraft carriers of each of the Contracting Powers shall not exceed in standard displacement, for the United States 135,000 tons (137,160 metric tons); for the British Empire 135,000 tons (137,160 metric tons) ; for France 60,000 tons (60,960 metric tons); for Italy 60,000 tons (60,960 metric tons); for Japan 81,000 tons (82,296 metric tons).

(Articoli 4 e 7 della Prima Parte del Washington Naval Treaty, 6 Febbraio 1922)

Per un’ulteriore disamina delle scelte politiche compiute da Warren Harding mentre era in vita, va sottolineata la totale rottura con il proprio precedessore Wilson e il piano di ristabilire la situazione antecedente al conflitto (quella che nel gergo legalistico-procedurale verrebbe definita “ex quo ante”) da parte degli Stati Uniti e del popolo statunitense.
Un progetto reso esplicito, nella retorica come in seguito nella pratica, sin da quando era ancora un senatore per lo Stato dell’Ohio nel pieno della propria campagna presidenziale.

In seguito all’esortazione all’“America First” (uno slogan che non appartiene a Donald Trump), Harding pronunciò parole ancor più incisive per rendere il concetto più chiaro. Il 14 Maggio 1920 a Boston, in un’altra tappa della campagna presidenziale, Harding si rivolse ai cittadini in un discorso nel quale coniò l’espressione “return to normalcy” (una forma corretta seppur allora desueta) con l’augurio e l’esortazione al ritorno alla normalità e al modo di vivere statunitense prima dell’impiego nella guerra.

“America’s present need is not heroics, but healing; not nostrums, but normalcy; not revolution, but restoration; not agitation, but adjustment; not surgery, but serenity; not the dramatic, but the dispassionate; not experiment, but equipoise; not submergence in internationality but sustainment in triumphant nationality.”
(Senatore Warren G. Harding, Discorso al Home Market Club di Boston, 14 Maggio 1920)

Una volta divenuto Presidente, cominciò a mettere in pratica tali propositi con la nomina di uno staff a trazione repubblicana dove alcuni elementi erano molto ostili alle precedenti politiche wilsoniste: oltre al già menzionato Coolidge va ad esempio citato il Segretario di Stato Charles Evans Hughes , lo stesso che era stato sconfitto da Wilson nelle elezioni presidenziali del 1916. Oltre ai sopramenzionati vanno citati anche il Segretario al Tesoro Andrew William Mellon, che avrebbe mantenuto l’incarico consecutivamente durante le tre diverse amministrazioni presidenziali, e il Segretario all’Agricoltura Henry Cantwell Wallace (padre di Henry Agard Wallace, un elemento di spicco nella politica statunitense del secondo dopoguerra).

Un discorso più esteso va invece fatto in riferimento a chi prese il posto di Harding dopo la sua morte ovvero Calvin Coolidge, il Presidente più “fortunato” del terzetto preso in analisi. Durante il suo sessennio alla Casa Bianca infatti si possono citare almeno tre eventi di grande importanza sotto molteplici punti di vista i cui effetti si sarebbero propagati anche a livello internazionale. Tra il 1923 ed il 1924, sotto la presidenza Coolidge, il Vice-Presidente Charles Dawes (1865-1951) pianificò una soluzione al complicato problema che coinvolgeva la Francia e la Repubblica di Weimar sul pagamento rateale delle riparazioni di guerra sancite dal Trattato di Versailles.

In quegli anni infatti la debole Repubblica stava attraversando un periodo di grande instabilità politica per fattori interni ai quali poi si associarono anche le ingerenze esterne a stampo franco-belga: la difficoltà nel pagare le rate dello spaventoso debito di guerra tedesco stabilite con i vincitori del primo conflitto mondiale (a cui si dovevano aggiungere gli interessi sul debito pari al 6%) avevano infatti portato i tedeschi a divenire insolventi nei confronti delle potenze dell’Intesa e a chiedere una dilazione. La risposta del Presidente francese Raymond Poincaré (1860-1934) fu l’occupazione militare dei territori e dei giacimenti carboniferi della Ruhr (11 Gennaio 1923). Gli scontri che avvennero durante e in seguito all’occupazione franco-belga dei territori della Ruhr portarono contemporaneamente la Repubblica di Weimar ad esortare la popolazione alla “resistenza passiva” contro le truppe d’occupazione, che sarebbe stata pagata dalla popolazione tedesca con arresti, fucilazioni di massa ad opera delle truppe francesi e il peggioramento della situazione economica già aggravata dalla galoppante iperinflazione.

Soltanto nel 1923 il Reichskanzler Gustav Stresemann (1878-1929) sarebbe riuscito a porre termine a questa forma di rivolta accordandosi con la Francia per lo sblocco della controversia franco-tedesca con la creazione di una nuova valuta temporanea, il Rentenmark. È in questo scenario che entrò in gioco il progetto di Dawes, passato alla storia come “Piano Dawes” (Agosto 1924). Frutto di un lavoro congiunto di una commissione internazionale presieduta dallo stesso Dawes con il sostegno di esperti dei Paesi vincitori del conflitto, il piano economico consisteva in una triangolazione che avrebbe coinvolto gli Stati Uniti d’America, la Repubblica di Weimar e gli alleati dell’Intesa, creditori nei confronti dei tedeschi ma anche debitori nei confronti degli statunitensi.

Charles Gates Dawes, ritratto dalla Harris & Ewing Collection della “Library Of Congress”

Il risultato del Piano Dawes permise alla Repubblica di Weimar di riprendere con il pagamento delle rate per i debiti di guerra tornando dal Rentenmark al Reichsmark (valuta basata sul sistema aureo) e contribuì, allo stesso tempo, alla propria lenta ripresa economica. Inoltre gli alleati (principalmente la Francia e l’Impero Britannico) vedevano soddisfatto il pagamento rateale da parte dei tedeschi e a loro volta contribuivano a restituire la rata dei loro debiti nei confronti degli Stati Uniti d’America (come osservato nel precedente approfondimento, i due Paesi avevano contratto debiti per oltre otto miliardi di dollari con le banche statunitensi per finanziarsi durante la Guerra). Infine, gli Stati Uniti d’America si imposero nel sistema  economico e finanziario globale visto che il dollaro sostituì la sterlina britannica come valuta di scambio e il sistema bancario statunitense tanto commerciale quanto speculativo presero il sopravvento nel Vecchio Continente garantendo un flusso di denaro che contribuì al benessere statunitense di quegli anni (per le fasce benestanti, si intende) – la J.P.Morgan guidò un consorzio di banche coordinato dal Dipartimento del Tesoro di Mellon a garanzia della buona riuscita del piano economico di Dawes, rilasciando alla Repubblica di Weimar un prestito obbligazionario di duecento milioni di dollari.

Un piano dunque grazie al quale “vinsero” tutti (incluso Dawes, Premio Nobel per la Pace nel 1925) e con cui le economie occidentali, come detto, cominciarono a riprendersi ognuna con la propria velocità.

Il Presidente Aristide Briand parla durante la firma del Patto Briand-Kellogg (Parigi, 27 Agosto 1928). Alla sua destra il Ministro degli Esteri belga Paul Hymans ed il Ministro degli Esteri tedesco Gustav Stresemann. A sinistra, Frank B.Kellogg per gli Stati Uniti ed il Segretario di Stato dell’Impero Britannico Lord Cushendun.
Fonte : GaHetNa/Wikimedia Commons

Negli anni successivi, il secondo evento che vide attivamente coinvolti Coolidge e gli Stati Uniti d’America fu la stipula a Parigi, nel 1928, del c.d. Patto Briand-Kellogg (entrato poi in vigore il 24 Luglio 1929). Il documento, inizialmente volto a coinvolgere le sole controparti francesi e statunitensi (il Presidente Aristide Briand ed il Segretario di Stato Frank Billings Kellogg) in un accordo difensivo in chiave anti-tedesca, si tramutò per merito di Kellogg (anch’egli vinse il Premio Nobel per la Pace nel 1929) in un trattato multilaterale (furono coinvolti sessantadue paesi) che pose le basi del moderno diritto internazionale.

In sintesi, il documento enunciava una semplice ma sostanziale dichiarazione di fondo: la rinuncia alla guerra come strumento di risoluzione delle controversie tra Stati come sancito nei primi due dei tre articoli del documento.

” ARTICLE I
The High Contracting Parties solemnly declare in the names of their respective peoples that they condemn recourse to war for the solution of international controversies, and renounce it, as an instrument of national policy in their relations with one another.

ARTICLE II

The High Contracting Parties agree that the settlement or solution of all disputes or conflicts of whatever nature or of whatever origin they may be, which may arise among them, shall never be sought except by pacific means.”
(Articoli 1 e 2 del Patto Briand-Kellogg, Parigi, 27 Agosto 1928)

Il terzo ed ultimo evento di rilievo in termini di politica estera fu anch’esso di natura economica e nella teoria era volto a rafforzare alcuni degli effetti benefici del “piano Dawes”. Nella pratica infatti il “piano Young” (pianificato nell’Agosto 1929 dall’industriale Owen Daniel Young in sostituzione del precedente accordo del 1924) ebbe la sfortuna di essere stato ideato a pochi mesi dal crollo della Borsa di Wall Street e adottato nel 1930 ovvero quando oramai la Grande Depressione aveva avuto inizio.

Il piano economico ridefiniva l’ammontare del debito che la Repubblica di Weimar, che dal 1926 era rientrata all’interno del sistema internazionale, ancora doveva alle potenze vincitrici per diluirlo nel corso di cinquantotto anni con un controllo meno opprimente sulla vita dei cittadini di Weimar. Il Black Tuesday del 29 Ottobre 1929 rese di fatto inutile il piano Young: il crollo di Wall Street scatenò infatti un effetto a catena di proporzioni catastrofiche a livello globale travolgendo l’economia statunitense e tra le varie economie mondiali (inclusa l’Italia), conseguentemente, “anche” quelle tedesche e austriache le quali, grazie ai piani Dawes e Young, dipendevano dall’afflusso di denaro proveniente dagli Stati Uniti. La diminuzione portò all’insolvenza e al fallimento di numerosi istituti bancari e a sua volta il fallimento causò la chiusura di centinaia di migliaia di aziende, licenziamenti in massa, l’aumento vertiginoso della povertà nelle famiglie e sei milioni di disoccupati (dato del 1932) come “regalo”. Tutti elementi che nella debolissima e instabile politica weimariana degli Anni Venti non solo lasciarono un enorme campo aperto all’avanzata dei movimenti estremisti rispetto alla classe governativa in quegli anni, ma diedero enorme spinta in special modo all’NSDAP del quarantenne leader, austriaco di nascita, Adolf Hitler.

Cosa succedeva contemporaneamente negli Stati Uniti d’America? Certamente “nulla che fosse di competenza” di Calvin Coolidge: le elezioni presidenziali del 6 Novembre 1928 avevano segnato un nuovo capitolo per il Paese nel nome del candidato repubblicano Herbert Hoover. In uno dei suoi ultimi discorsi in qualità di Presidente, Coolidge provò a riassumere così il proprio mandato alla Casa Bianca:

“Perhaps one of the most important accomplishments of my administration has been minding my own business“.
(Calvin Coolidge, conferenza stampa del Marzo 1929) 

La scelta di dire addio alla politica nonostante in molti all’interno del Partito Repubblicano, Hoover compreso, gli avessero fatto proposte irrinunciabili per accettare la nomina per un terzo mandato venne riconosciuta dalla Storia come una scelta saggia e profetica rispetto al caos che avrebbe dovuto affrontare il suo successore: Coolidge lasciò in eredità un Paese prospero su fondamenta molto fragili, spazzate via come nulla dal terremoto finanziario del 1929.

Effetti collaterali del cosiddetto “laissez-faire”, “caratteristica” del liberalismo economico per la quale lo Stato lascia spazio alle attività private distaccandosi in modo netto dalle stesse. Un non intervento per la gioia di Adam Smith e John Stuart Mill nonchè degli speculatori e, dulcis in fundo, dell’economia fatta dai consumi ” a margine” (elemento fondante degli Anni Ruggenti, nei quali gli statunitensi agiati o borghesi avevano la possibilità di acquistare beni – e lo fecero – indebitandosi). L’unione quindi tra scelte economiche liberali, la presenza di un’enorme bolla speculativa e le scorie della Prima Guerra Mondiale rappresentate dai debiti e dalle riparazioni di guerra delle economie mondiali crearono la combinazione letale che portò alla Grande Depressione. Coolidge, volente o nolente, “lasciò e passò la patata bollente” ad Hoover, i cui quattro anni furono tra i più drammatici e disastrosi per la storia contemporanea statunitense.

Il tutto avveniva mentre a New York il quarantasettenne cugino (alla lontana) di Theodore Roosevelt, Franklin Delano Roosevelt (1882-1945), veniva eletto Governatore dello Stato con spirito indomito e grande abnegazione seppur provato dall’avanzare della poliomielite. Un membro di un’illustre famiglia newyorkese dalla già provata tradizione politica (con Theodore, appunto), legato al Partito Democratico e che già poteva vantare una carriera invidiabile (fu Senatore e quindi Segretario Aggiunto della Marina durante la presidenza di Thomas Woodrow Wilson). E proprio il legame, diretto o indiretto, con Wilson negli anni l’avrebbe portato a prendere il testimone dei valori e dei progetti wilsonisti divenendo così il nuovo campione del Wilsonismo.

Un fatto in sè paradossale, se si pensa all’illustre parente!

Il neo Governatore Roosevelt con il predecessore Al Smith (1930) .



[sta_anchor id=”l-avvento-di-franklin-droosevelt” unsan=”L avvento di Franklin D.Roosevelt”]Dalle hoovervilles[/sta_anchor] all’avvento di Franklin Delano Roosevelt

“That man has offered me unsolicited advice for six years, all of it bad!
(Calvin Coolidge su Herbert Hoover, suo Segretario al Commercio, 1927)

Nei quattro anni che caratterizzarono il mandato presidenziale di Herbert Hoover (dal 1929 al 1933), gli Stati Uniti d’America si trovarono ad affrontare la più grande crisi economica della loro Storia, una crisi che si sarebbe poi tramutata in sociale (tra il 1932 ed il 1933 si raggiunsero i livelli più alti di disoccupazione, arrivando a raggiungere il 25% di cittadini statunitensi senza lavoro).

Nelle proprie memorie, da lui scritte una volta lasciata la Casa Bianca e raccolte in The Memoirs of Herbert Hoover – The Great Depression 1929-1941 (1951), l’ex Presidente ricercò le cause scatenanti della crisi in Europa (“il centro della tempesta”) scrivendo:

“In the large sense the primary cause of the Great Depression was the war of 1914-1918. Without the war there would have been no depression of such dimensions. There might have been a normal cyclical recession; but, with the usual timing, even that readjustment probably would not have taken place at that particular period, nor would it have been a “Great Depression.”
(Herbert Hoover, The Memoirs of Herbert Hoover – The Great Depression 1929-1941 , 1952, The Macmillan Company, New York)

Come precedentemente analizzato, l’impatto della Prima Guerra Mondiale nell’economia statunitense in primo luogo e quella dei paesi belligeranti in seguito fu uno dei fattori scatenanti del crollo di Wall Street e dell’inizio della Grande Depressione. Gli accordi stabiliti dal Trattato di Versailles vincolavano direttamente o indirettamente le economie dei paesi del Vecchio Continente agli Stati Uniti d’America, la “nuova piazza” per gli affari al posto dell’indebolito Impero Britannico. Il riferimento riporta nuovamente alla “profezia” che Thomas Woodrow Wilson pronunciò al “Colonnello” House nel 1917: i debiti e le riparazioni di guerra furono la chiave di volta per l’assetto delle relazioni internazionali del primo dopoguerra, anche in assenza dello stesso Wilson.

Tuttavia non si può omettere l’approccio non-interventista delle presidenze Harding, Coolidge e Hoover nei confronti del mercato durante gli anni Venti, a favore della libera concorrenza ed attività dei privati al punto di sfociare nell’attività speculativa. In quegli anni, come detto, la prosperità del Paese era alla portata della sola fascia medio-alta della sua popolazione, laddove poi la stessa borghesia a stelle e strisce si ritrovava in molti casi a dover richiedere prestiti per finanziare le proprie attività o acquistare beni “a margine” (con denaro preso in prestito). La parte più povera della Nazione, negli anni antecedenti al 1929, si ritrovava ad essere più povera di prima (il settore agricolo e quello manifatturiero furono quelli maggiormente danneggiati dalle politiche del lassez-faire) e il divario tra ricchi e poveri si fece più ampio. Dopo il 1929, Hoover cercò di porre argine alla tempesta che stava mettendo il Paese (e il mondo) in ginocchio in modo inefficace, tardivo e colpevole. Lo stesso Hoover, nelle proprie memorie, riportò con fare accusatorio le parole dell’anziano collaboratore, il Segretario al Tesoro Andrew William Mellon, per trovare una soluzione alla crisi economica.

“First was the “leave it alone liquidationists” headed by Secretary of the Treasury Mellon, who felt that government must keep its hands off and let the slump liquidate itself.
Mr. Mellon had only one formula: “Liquidate labor, liquidate stocks, liquidate the farmers, liquidate real estate.”
He insisted that, when the people get an inflation brainstorm, the only way to get it out of their blood is to let it collapse. He held that even a panic was not altogether a bad thing. He said: “It will purge the rottenness out of the system. High costs of living and high living will come down. People will work harder, live a more moral life. Values will be adjusted, and enterprising people will pick up the wrecks from less competent people.”
(Herbert Hoover , The Memoirs of Herbert Hoover – The Great Depression 1929-1941)

Una nota di giallo: non esiste una controprova, diversa dalle memorie di Herbert Hoover, che possa attestare come il Segretario Mellon abbia realmente pronunciato queste parole e pertanto il dibatto accademico e storiografico non esclude la possibilità che possa essere stato un tentativo, da parte di Hoover, di affibbiare le responsabilità della Grande Depressione ad altri membri del suo staff.

Resta comunque il fatto che Hoover provò in seguito ad abbandonare le politiche liberali dei suoi predecessori nonchè collaboratori per fare in modo che lo Stato intervenisse a riguardo. Ma era già troppo tardi: il tentativo di trovare accordi con i grandi gruppi industriali automobilistici, del ferro e dell’acciaio affinché non licenziassero i dipendenti e aumentassero loro i salari in cambio della tranquillità con le organizzazioni sindacati vennero in seguito disattesi dagli industriali creando un ulteriore effetto a catena (scioperi, salari ridotti, licenziamenti). L’aumento vertiginoso dei prezzi dei beni di consumo e l’aumento delle masse disoccupate e in ristrettezze economiche contribuirono al resto: di lì a poco nacquero le prime hoovervilles, baraccopoli fatiscenti realizzate con mezzi di fortuna all’interno di piccole o grandi città. Nelle hoovervilles trovarono ritrovo centinaia di migliaia di uomini e donne senzatetto, molti di loro con annesse famiglie a carico, e i “fortunati” che si trovarono ad abitarvici si dovettero affidare alle opere di beneficenza oltre a cercare di sopravvivere giorno dopo giorno in condizioni assai precarie al punto che numerose furono le morti per fame e stenti. Una situazione che sarebbe perdurata anche durante l’amministrazione Roosevelt.

Contemporaneamente, ai problemi “nazionali” si associavano quelli delle altre economie internazionali con la Repubblica di Weimar in cima alla lista. La Grande Depressione causò una crisi ancor più spaventosa di quella precedente dovuta all’iperinflazione del Goldmark. Appurate le conseguenze di tale crisi (l’avanzata tanto dei comunisti quando dei nazionalsocialisti tedeschi), sotto la presidenza Hoover venne stabilita una moratoria di diciotto mesi per i debiti intergovernativi (1931) ma ciò non fece altro che complicare ulteriormente le cose per i risvolti che coinvolsero l’Impero Britannico, il quale abbandonò il quell’anno il sistema aureo e svalutò la propria moneta per potersi riprendere. Nel 1932, la Conferenza di Losanna stabilì la rinuncia alle riparazioni belliche da parte di tutte le potenze alleate dell’Intesa. Una decisione che l’anno successivo permise al neo-Cancelliere tedesco Adolf Hitler di interrompere e cancellare tutti i debiti pendenti della Germania.

Gli ultimi atti, in termini di politica estera, del Presidente Hoover riguardarono l’America Latina ancora alle prese con la “guerra delle banane” e le relazioni con l’Impero Giapponese: durante il mandato di Hoover infatti ebbe luogo l’invasione della Manciuria ad opera del Giappone (19 Settembre 1931-27 Febbraio 1932). L’azione militare giapponese si risolse con un successo e venne instaurato il governo fantoccio del Manciukuò (con la scelta di Pu Yi, l’Ultimo Imperatore cinese, come sua “guida”). Il fatto causò grande scalpore all’interno della comunità internazionale e all’interno delle sopraccitate dinamiche nell’area del Pacifico, il Presidente e i suoi collaboratori si trovarono esitanti o in disaccordo su come agire nei confronti tanto dei giapponesi quanto dei cinesi.
Il piano d’azione che venne ideato, conosciuto come Dottrina Stimson o Hoover-Stimson, aveva nel Patto Briand-Kellogg il suo fondamento giuridico e pertanto poneva gli statunitensi nella posizione di non prendere le difese di alcuna delle Nazioni in guerra pur non riconoscendo lo status dei territori conquistati dal Giappone in Manciuria poiché conquistati in violazione del patto stesso. Questa dottrina messa in pratica dagli statunitensi ottenne risultati alquanto miseri ed avrebbe causato strascichi negli anni a venire. La Società delle Nazioni, con il Rapporto Lytton (2 Ottobre 1932), condannò fermamente l’invasione giapponese della Manciuria ma Tokyo, per tutta risposta, abbandonò l’organizzazione internazionale l’anno successivo.

Con gli esiti poco utili delle azioni politico-diplomatiche con l’Impero Giapponese giunse infine la corsa per le elezioni di mid-term (8 Novembre 1932) dove un esitante ed impacciato Herbert Hoover, ulteriormente danneggiato nella popolarità a causa repressione di una manifestazione di reduci della Prima Guerra Mondiale da parte dell’Esercito (su richiesta di Hoover venne coinvolto attivamente il Capo di Stato Maggiore Douglas MacArthur che in seguito sarebbe stato nominato Governatore delle Filippine), venne sonoramente sconfitto dal candidato del Partito Democratico: Franklin Delano Roosevelt.

Nel 1934 il suo portavoce alla Casa Bianca Theodore Goldsmith Joslin pubblicò le conversazioni che ebbe con il Presidente Hoover nell’opera Hoover Off The Record e in riferimento alla sconfitta presidenziale contro Roosevelt, l’ex Presidente ebbe modo di dire:

“The election was an event in which, so far as the personal side is concerned, the victory was to him who lost and the defeat to him who won.
I can say that never in the last 15 years have I had the peace of mind that I have since the election. I have almost a feeling of elation.”
(Herbert Hoover come riportato in Theodore G. Joslin, Hoover Off The Record, 1934)


[sta_anchor id=”la-politica-estera-di-roosevelt” unsan=”La politica estera di Roosevelt”]La politica estera di Roosevelt[/sta_anchor] prima e dopo Pearl Harbor

Una volta divenuto Presidente, Franklin Delano Roosevelt si impegnò da subito, già dai primi cento giorni alla Casa Bianca, per risanare l’economia disastrata del Paese grazie al New Deal. Il programma di riforme economiche e sociali nonchè di aiuti e incentivi, nonostante l’opposizione dei Repubblicani, di alcuni elementi interni al Partito e della stessa Corte Suprema (che dichiarò incostituzionale la prima serie di provvedimenti), contribuì alla graduale ripresa della Nazione in termini di risanamento economico e di crescita occupazionale.

Negli anni in cui gli Stati Uniti d’America si ripresero dagli effetti della crisi del ’29, Roosevelt guardò con profonda attenzione gli eventi che si stavano verificando nel Vecchio Continente, tra l’Asse italo-tedesco sempre più in avvicinamento e le politiche dell’Unione Sovietica. Anche dinnanzi agli albori delle aggressioni dell’Italia (la Guerra d’Etiopia) e della Germania (le politiche volte al riarmo del Reich, l’Anschluss riunificatore con l’Austria e l’espansione nei territori germanofoni sostenuta dall’appeasement europeo), Roosevelt fece propri i precetti di Wilson e, sorretto dai propri principi morali, riuscì con caparbietà e tenacia a guidare gradualmente l’opinione pubblica statunitense dalla propria parte grazie alle sue doti carismatiche. Gli Stati Uniti d’America stavano riprendendo il cammino wilsonista.

Fin da subito Roosevelt mutuò l’approccio del proprio Paese nei confronti dell’America Latina, implementando la c.d. “Good Neighbor policy” (4 Marzo 1933):

“In the field of world policy I would dedicate this Nation to the policy of the good neighbor– the neighbor who resolutely respects himself and, because he does so, respects the rights of others—the neighbor who respects his obligations and respects the sanctity of his agreements in and with a world of neighbors.
This declaration represents my purpose; but it represents more than a purpose, for it stands for a practice. To a measurable degree it has succeeded; the whole world now knows that the United States cherishes no predatory ambitions. We are strong; but less powerful Nations know that they need not fear our strength. We seek no conquest; we stand for peace.”
(Franklin Delano Roosevelt, Address at Chautauqua, New York, 14 Agosto 1936
N.B. Per la lettura integrale del discorso si rimanda alla visione di questo link)

La questione coloniale e le “ingerenze” nei confronti di Stati sovrani (quest’ultime a mero livello teorico, sfortunatamente) stettero molto a cuore a Roosevelt. Sulle colonie in particolar modo sarebbero sorte importanti divergenze con la Gran Bretagna e la Francia, allora leader ufficiosi della Società delle Nazioni e a capo di vasti Imperi coloniali. Il motivo, per Washington, era semplice: erano pratiche oramai da abolire, anche perchè in contrasto con il principio di autodeterminazione dei popoli.

Tuttavia anche gli Stati Uniti, verso la fine della Seconda Guerra Mondiale, erano ancora in possesso di una colonia: le Filippine. Per questo Roosevelt si impegnò a tramutare quel possedimento “conquistato dal cugino Theodore” in un Commonwealth con uno status di autonomia, il primo passo verso la conquista dell’indipendenza che si sarebbe concretizzata, anche durante l’occupazione giapponese nel pieno della Seconda Guerra Mondiale, il 4 Luglio 1946. Fu anche per questo che le notizie della campagna italiana in Etiopia del 1935 (che inizialmente aveva il sostegno indiretto di Francia e Regno Unito con la stipula segreta del Patto Hoare-Laval che venne successivamente ritirato a seguito ad uno scoop giornalistico) scossero molto gli Stati Uniti d’America si cautelarono stipulando un Atto di Neutralità (dal 1935 al 1939 ne avrebbero stipulati altri tre con l’Italia e la Germania hitleriana) e contribuendo al bando delle armi italiane. Iniziative di poco conto perchè la Società delle Nazioni, con le sanzioni italiane, perse definitivamente il suo ruolo ed il suo peso nel contesto internazionale con l’abbandono dell’Italia e della Germania, oltre all’assenza del Giappone e dell’Unione Sovietica.

A riguardo lo storico britannico Alan John Percivale Taylor (1906-1990) non usò mezzi termini nel criticare in modo spietato l’operato tardivo ed errato da parte della Società delle Nazioni. Nell’opera The Origins Of The Second World War del 1961 scrisse:

“The real death of the League was in December 1935 [..]. What killed the League was the publication of the Hoare-Laval Plan [..]”.
(A.J.P. Taylor , The Origins Of The Second World War)

Sempre più ostile alle potenze dell’Asse, Roosevelt dedicò le sue energie per contrastare la loro avanzata. Con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, nella quale Washington non era ancora stata coinvolta, nel furore della devastante blitzkrieg (guerra-lampo) tedesca, Roosevelt firmò la Lend-Lease Act, legge che dal 1942 al 1945 mise a disposizione mezzi militari e fondi ai paesi coinvolti nella guerra contro le potenze dell’Asse.
Inoltre, ebbe modo di tenere quello che sarebbe passato alla storia come il Four Freedoms Speech (6 gennaio 1941), nel quale Roosevelt pose le basi per la successiva stipula della Carta Atlantica e, più importante, per la nascita di una Organizzazione per le Nazioni Unite:

“In the future days, which we seek to make secure, we look forward to a world founded upon four essential human freedoms. The first is freedom of speech and expression [..] The second is freedom of every person to worship God in his own way [..] The third is freedom from want, which, translated into world terms, means economic understandings which will secure to every nation a healthy peacetime life for its inhabitants [..] The fourth is freedom from fear, which [..] means a world-wide reduction of armaments to such a point and in such a thorough fashion that no nation will be in a position to commit an act of physical aggression against any neighbor — anywhere in the world.”
(Franklin Delano Roosevelt, Four Freedoms Speech, 6 Gennaio 1941
N.B Nel video ivi allegato un estratto del messaggio presidenziale pronunciato da Roosevelt


L’attacco giapponese a Pearl Harbor del 7 Dicembre 1941 e la successiva dichiarazione di guerra tedesca nei confronti degli Stati Uniti fecero entrare gli Stati Uniti d’America  per la seconda volta in pochi anni in un conflitto mondiale. Al fianco delle forze Alleate, contribuirono enormemente alla vittoria finale e dinnanzi all’unico avversario indomito dell’Asse, quegli stessi Giapponesi che li avevano colpiti violentemente con gli aerei kamikaze, gli statunitensi ricorsero alla bomba atomica ad Hiroshima e a Nagasaki per poter ottenere la loro resa.



[sta_anchor id=”il-nuovo-ordine-mondiale” unsan=”Il Nuovo Ordine Mondiale”]Il “Nuovo Ordine Mondiale”[/sta_anchor] – Teheran, Yalta e (in seguito) Potsdam

Negli ultimi anni del conflitto, con le truppe dell’Asse (poi unicamente tedesche) in ritirata su più fronti, gli Alleati cominciarono a pianificare il nuovo ordine mondiale che sarebbe sorto dalle ceneri della guerra. Anche in questo frangente la politica statunitense Wilsonista ebbe un ruolo di primo piano: l’opposizione ideologica che si formò infatti tra i piani di Roosevelt (e successivamente di Truman) e quelli di Josif Stalin fu il fattore scatenante che diede inizio alla Guerra Fredda.

Uno scontro, quello tra l’ideale democratico wilsonista ed il comunismo sovietico, nel quale fu del tutto vano ed inutile l’intervento del Primo Ministro britannico Winston Churchill (1874-1965), rappresentante di una nazione oramai relegata a un ruolo di secondo piano rispetto agli Stati Uniti e all’Unione Sovietica, che di lì a poco avrebbero diviso il mondo in due blocchi distinti.

Laddove Churchill era infatti disposto ad intavolare trattative con Stalin (nell’Ottobre 1944 cercò di proporre al leader georgiano una divisione dell’Europa orientale, dei Balcani e della Grecia in sfere d’influenza anglo-americane e sovietiche calcolate in termini percentuali, ma alla fine l’esercito sovietico occupò quasi la totalità dei territori “spartiti” in quegli accordi), Roosevelt continuò a proporre ed imporre che si creasse un sistema lontano da questioni di natura geo-politica ma su principi morali volti alla sicurezza collettiva ereditata da Wilson.

Gli Stati Uniti, inoltre, nutrivano sospetti nei confronti di Churchill e sul timore che egli volesse ritagliare uno spazio per l’Impero Britannico in un contesto storico in cui, per gli americani come il Sottosegretario di Stato Sumner Welles, “l’età dell’Imperialismo era giunta al termine”.

La Conferenza di Yalta (4-11 Febbraio 1945)

Negli anni conclusivi della WWII si delinearono tre possibili soluzioni tra loro profondamente contrastanti, ed oggetto di lunghe trattative, sul riassetto mondiale post conflitto mondiale.
Tra le conferenze di Teheran (1943), Yalta (febbraio 1945) e Potsdam (luglio-agosto 1945), Winston Churchill ipotizzò di ristabilire in Europa il balance of power allo scopo di contrastare, congiuntamente agli Stati Uniti d’America, la minaccia sovietica. Dal lato sovietico invece Stalin agì, da seguace della Realpolitik, con il solo scopo di espandere il più possibile l’influenza comunista dell’Unione Sovietica tra l’Europa orientale e l’Asia sia per tutelarsi da una possibile minaccia tedesca, che per affermare la propria supremazia rispetto agli Stati Uniti.

Radicalmente distante dai piani imperialisti europei e quelli “realisti” dei Sovietici, Roosevelt fu invece perentorio nel difendere il progetto Wilsonista di ridefinire l’ordine mondiale sulla base di principi umanitari e del diritto internazionale, questa volta sulla base di una nuova organizzazione internazionale strutturata in maniera tale che non si ripetessero gli errori della precedente Società delle Nazioni ma soprattutto sulla tutela del suddetto ordine ad opera dei cosiddetti “Quattro Poliziotti” (Stati Uniti, Regno Unito, URSS e Cina) che avrebbero dovuto salvaguardare e mantenere la pace contro possibili e future aggressioni.



[sta_anchor id=”le-nazioni-unite” unsan=”Le Nazioni Unite”]L’Organizzazione delle Nazioni Unite[/sta_anchor] – La prosecuzione del “sogno” Wilsonista

“WE THE PEOPLES OF THE UNITED NATIONS DETERMINED
to save succeeding generations from the scourge of war, which twice in our lifetime has brought untold sorrow to mankind, and
to regain faith in fundamental human rights, in the dignity and worth of the human person, in the equal rights of men and women and of nations large and small, and
to establish conditions under which justice and respect for the obligations arising from treaties and other sources of international law can be maintained, and
to promote social progress and better standards of life in larger freedom,
AND FOR THESE ENDS
to practice tolerance and live together in peace with one another as good neighbours, and
to unite our strength to maintain international peace and security, and
to ensure, by the acceptance of principles and the institution of methods, that armed force shall not be used, save in the common interest, and
to employ international machinery for the promotion of the economic and social advancement of all peoples,
HAVE RESOLVED TO COMBINE OUR EFFORTS TO ACCOMPLISH THESE AIMS
Accordingly, our respective Governments, through representatives assembled in the city of San Francisco, who have exhibited their full powers found to be in good and due form, have agreed to the present Charter of the United Nations and do hereby establish an international organization to be known as the United Nations.” (preambolo della Carta dell’Organizzazione delle Nazioni Unite firmata a San Francisco)

Il 24 ottobre 1945, con l’entrata in vigore del suo Statuto, nacque ufficialmente l’Organizzazione delle Nazioni Unite (qui un filmato di repertorio della US National Archives), che prendeva il posto della precedente Società delle Nazioni (sarebbe stata sciolta nel 1946).
Essa riprendeva i valori della Carta Atlantica stipulata il 14 Agosto 1941 e, al pari della stessa, era permeata sui principi dei Quattordici Punti di Wilson.
Inizialmente la sua membership riguardò e coinvolse gli Alleati e tutti quei paesi liberi che avessero fatto richiesta per entrarne a far parte.
Ne furono escluse pertanto le nazioni sconfitte dell’Asse, che sarebbero entrate nell’ONU solamente in seguito : nel 1955 venne infatti accolta l’Italia, seguita l’anno successivo dal Giappone e quindi, nel 1973, dalle due Germanie, riunite in un solo soggetto internazionale nel 1990.

L’Organizzazione fu il frutto del lavoro congiunto tra Franklin Delano Roosevelt e Winston Churchill iniziato con la Carta Atlantica e portato avanti nei successivi quattro anni con ulteriori conferenze che servirono all’organizzazione della sua struttura con la nascita di alcuni organi e commissioni interne.
Un lavoro che Roosevelt non ebbe modo di vedere con i propri occhi : venne tradito infatti da un’emorragia cerebrale e da una salute già cagionevole per via della poliomielite ed ulteriormente debilitata, negli ultimi anni della sua vita, dai lunghi ed estenuanti viaggi che Franklin Delano Roosevelt intraprese per incontrare gli Alleati britannici e sovietici. Si spense nella sua tenuta (ribattezzata Little White House) vicina alle fonti termali di Warm Springs, in Georgia il 12 Aprile 1945.

Fu quindi Harry Truman a portare a compimento il sogno wilsonista di Roosevelt e a fare gli onori di casa durante la Conferenza di San Francisco (25 Aprile-26 Giugno 1945) , a seguito della quale nacque lo Statuto dell’Organizzazione delle Nazioni (composto da centoundici articoli suddivisi in vari capitoli).

La sala dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
Fonte : Patrick Gruban/Flickr

La neonata Organizzazione venne strutturata sotto una forma assembleare (l’Assemblea Generale) sottostante al giudizio del Consiglio di Sicurezza (ufficialmente operativo dal 17 gennaio 1945) composto dai cinque stati vincitori del secondo conflitto mondiale, con lo status di stati permanenti, ed altri stati non permanenti (attualmente sono dieci).
Venne stabilito inoltre che i cinque paesi permanenti (USA, URSS/Russia, Francia, Regno Unito e la Repubblica di Cina, sostituita nel 1971 dalla Repubblica Popolare Cinese) avrebbero avuto la facoltà di porre il proprio diritto di veto nell’ambito della votazione di  determinate risoluzioni.

A quasi settantatré anni dalla sua nascita il potere di veto del Consiglio di Sicurezza continua ad essere un argomento di importantissimo rilievo : questo perché è stata e continua ad essere una delle cause, se non la causa principale, dell’ostruzionismo e dell’opposizione insita all’interno delle Nazioni Unite da parte dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza.
Un fatto la cui conseguenza fu la situazione di impotenza ed immobilismo nei momenti significativi dell’attività delle Nazioni Unite (cronologicamente dall’aggressione cinese in Tibet, quelle sovietiche in Ungheria e Cecoslovacchia, l’apartheid in Sudafrica, il conflitto israelo-palestinese fino alla guerra in Siria).

L’ostruzionismo fu una caratteristica che si lega, ieri come oggi, specialmente agli Stati Uniti e all’Unione Sovietica/Russia, che ne fecero uso ed abuso nel pieno della Guerra Fredda: si è calcolato che, dalla nascita dell’ONU, il diritto di veto sia stato usato complessivamente in oltre 241 occasioni (qui una tabella grafica aggiornata al 2017).
Vi sono anche altri organi d’informazione e studi che nel 2011 stimavano oltre 263 casi di documenti bloccati dal veto.

Verosimile o meno che sia il conto, il diritto di veto continua ad essere usato (nel Febbraio di quest’anno l’ultimo utilizzo, da parte della Russia, sulle sanzioni allo Yemen) e quindi il numero potrebbe essere destinato a salire ancora.



[sta_anchor id=”uncle-joe” unsan=”Uncle Joe”]”Uncle Joe”[/sta_anchor], ovvero l’ingenua ed errata valutazione statunitense dell’Unione Sovietica

Il potere del Wilsonismo si potè constatare anche nell’ambito delle dirette relazioni tra i tre leader delle potenze Alleate, specialmente tra Roosevelt e Stalin, laddove il presidente americano cercò di intavolare relazioni vìs a vìs con il dittatore sovietico, escludendo Churchill da suddetti incontri, al punto di arrivare a chiamarlo Uncle Joe.

“To use an American and somewhat ungrammatical colloquialism, I may say that I “got along fine” with Marshal Stalin. He is a man who combines a tremendous, relentless determination with a stalwart good humour. I believe he is truly representative of the heart and soul of Russia [..]”
(Franklin Delano Roosevelt, Fireside Chat, 24 Dicembre 1943
N.B. Per la lettura integrale del discorso si rimanda alla visione di questo link)

Queste furono le parole che Roosevelt pronunciò in un messaggio radio della vigilia di Natale del 1943 riguardo alla Conferenza di Teheran (28 novembre-1 dicembre 1943) riferendosi ai lavori svolti con Stalin (e Churchill). Come si può spiegare un atteggiamento del genere, quasi colloquiale dinnanzi alla guida indiscussa dell’Unione Sovietica, un dittatore tanto glaciale nelle relazioni internazionali, tanto calcolatore nelle proprie macchinazioni politiche e tanto implacabile nella politica estera (come anche nelle faccende che coinvolsero Mosca) quale Josif Stalin?

Roosevelt, riporta Kissinger nella propria analisi all’interno di Diplomacy, “diede sfogo alla mentalità di un popolo più legato all’insita bontà d’animo dell’essere umano rispetto alle analisi geopolitiche e che preferiva vedere Stalin come un amico paterno anziché un dittatore totalitario”. Roosevelt, probabilmente e personalmente anche alla luce degli sviluppi della Storia, commise un’ingenuità frutto di un modo di pensare così stolido e legato a dei moralismi piuttosto che ad una vera morale che permise a Stalin di ottenere una vittoria nelle richieste da questi poste nel corso delle trattative tra le forze Alleate che portarono all’assetto mondiale della Guerra Fredda.



[sta_anchor id=”da-roosevelt-a-truman” unsan=”Da Roosevelt a Truman”]L’epilogo[/sta_anchor] e l’avvento di Harry Truman

“We have to get tough with Russians, they don’t know how to behave.
They are only 25 years old. We are over 100 and the British are centuries older.
We have got to teach them how to behave.

(Harry Truman, Aprile 1945)

L’errata valutazione della reale portata della minaccia sovietica fu una grave responsabilità nei decenni seguenti nell’ambito della politica estera statunitense.
Il fardello della colpa, dovuta alla forte pressione di una visione ideologica eternamente in contraddizione con sé stessa che delineò in modo drastico e irriconciliabile il prosieguo del secondo dopoguerra tanto nel carismatico Roosevelt (in quanto allievo di Wilson) quanto soprattutto in colui che l’avrebbe sostituito alla sua morte, ovvero il Vice-Presidente Harry Truman (1884-1972), si cominciò a generare proprio dagli incontri diplomatici tra i presidenti e i primi ministri delle nazioni che stavano vincendo la guerra contro l’Asse nazi-fascista.

Proprio con Truman presidente, tralaltro, si arrivò all’ulteriore deterioramento delle relazioni.
Di più, si giunse al vero, proprio ed appurato scontro dialettico (ma anche di spionaggio, dal momento che in quegli anni gli Stati Uniti avevano creato la bomba atomica) tra le due ideologie sintetizzabile e sintetizzato in una lotta tra il bene ed il male.

La Dottrina Truman (1947), che diede inizio alla politica del containment* , ne fu una riprova: per gli Stati Uniti infatti, lo scontro si era spostato a quel punto sul piano morale, tra i valori di pace e libertà delle democrazie e la loro soppressione nei regimi comunisti. Nel pieno rispetto degli ideali di Wilson quindi, soltanto un deciso cambio “morale” dell’Unione Sovietica o, direttamente, la sua conversione agli ideali democratici avrebbero potuto far avvicinare l’URSS e gli statunitensi.

Fino a quel momento, sarebbe stato compito degli Stati Uniti “supportare e difendere i popoli liberi dai tentativi di soggiogamento di minoranze armate o dovuti a pressioni dall’esterno”, e le prime concrete risposte si ebbero nel Piano Marshall (3 aprile 1948) e nella NATO (4 aprile 1949) con cui l’Europa venne sostenuta economicamente, per la sua ripresa, quindi militarmente e politicamente nell’ambito di una unione d’intenti con gli americani per la difesa mondiale.

Indirettamente, Truman si era riferito all’Unione Sovietica e negli anni agì di conseguenza nonostante le critiche interne. Il consolidamento e l’arroccamento delle due posizioni contrastanti tuttavia fu, alla fine, controproducente per gli Stati Uniti in quanto persero il vantaggio tecnologico del monopolio nucleare, nell’incertezza interna tra chi richiedeva una maggior incisività (anche in termini concreti) del Paese nel contrastare l’Unione Sovietica e chi intendeva condannare gli eccessi e le esagerazioni di suddetta politica.

Durante la presidenza Truman la politica del containment avrebbe avuto un primo banco di prova in un nuovo teatro bellico dopo gli anni della Seconda Guerra Mondiale, ovvero la guerra di Corea (25 Giugno 1950 – 27 Luglio 1953).
Ma ancor più importante, in conclusione , fu la figura di George Kennan (1904-2005), ovvero il padre della dottrina del containment anti-sovietico in collaborazione con il presidente Truman: nel 1947 la rivista Foreign Affairs pubblicò l’articolo The Sources Of Soviet Conduct, nel quale Keenan, allora vice-capo della delegazione diplomatica statunitense a Mosca, presentò un rapporto dettagliato nel quale profetizzò la fine dell’Unione Sovietica a causa dell’implosione del comunismo stesso.

“But the possibility remains [..] that Soviet power [..] bears within it the seeds of its own decay, and that the sprouting of these seeds is well advanced”
(George Kennan, The Sources of Soviet Conduct pubblicato su Foreign Affairs, Luglio 1947)


Guglielmo Vinci 
per Policlic.it

*Containment = Dottrina politica del contenimento.
Teorizzata da Harry Truman in collaborazione con George Keenan, venne messa in atto dagli Stati Uniti d’America dal 1945 al 1969 (dalla Presidenza Truman a quella di Lyndon B. Johnson) allo scopo di contenere la minaccia rappresentata dall’Unione Sovietica e dall’espansione della stessa verso quelle aree o Nazioni sotto la possibile influenza di Mosca.

 

 

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