Istruzioni per l’istruzione : che importanza danno i partiti al tema dell’istruzione e dell’università?

Istruzioni per l’istruzione : che importanza danno i partiti al tema dell’istruzione e dell’università?

Statua di fronte al Boys Club di Atlanta (fonte: Roger Salz/Flickr)

Fondamenta del welfare contemporaneo e chiave di volta per la formazione dei cittadini di un paese, l’istruzione sembra tuttavia non avere un posto in prima fila in questa campagna elettorale, piena di proclami e pochi proposte concretamente realizzabili.

Da cosa partire per avere un quadro generale di riferimento? Sicuramente prendendo contezza della popolazione interessata. Gli studenti delle scuole italiane sono 7.037.030, le sedi scolastiche sono 57.831, di cui 44.896 statali e 12.395 paritarie. Gli universitari invece sono, nell’anno accademico 2016/2017, 1.654.680 (qui e qui i dati). 

I programmi non sono ovviamente tutti uguali, soprattutto in merito a lunghezza e articolazione. Il più breve e meno dettagliato risulta essere quello della coalizione di centro-destra, legato probabilmente alla difficoltà che i leader hanno avuto nel coalizzarsi e limitando il programma a quasi mere dichiarazioni di principio, senza spiegare troppo dettagliatamente in che modo quelle azioni verrebbero attuate. Il partito di governo uscente, il PD, ha puntando tutto sulla continuità, optando quindi per un prolungamento naturale delle direttive di questa esperienza di governo. Chi invece si è sbizzarrito di più nell’analisi della situazione attuale e nella progettazione di eventuali soluzioni ai problemi sono sicuramente il partito capeggiato da Pietro Grasso (Liberi e Uguali) e il Movimento 5 stelle. Entrambi, oltre ai punti programmatici sintetici hanno dedicato degli approfondimenti a quasi tutti i temi e quindi anche a istruzione ed università, presi separatamente. Per non fare confusione e per praticità sarà utile proseguire in maniera trasversale, seguendo alcune linee tematiche per entrambe.

Partiamo dalla scuola. Quasi tutti i partiti parlano di “Buona Scuola”, la recente riforma voluta dal governo Renzi. Non tutti però ne parlano allo stesso modo. Il PD punta sul completamento del percorso intrapreso, con un rafforzamento dell’alternanza scuola lavoro con la novità delle “aree di priorità educativa”, strumento da utilizzare in quei territori dove permane un preoccupante livello di povertà educativa e un alto tasso abbandono scolastico. Il centro-destra appare invece ambiguo, limitandosi a dire che qualora vinca le elezioni abolirà le anomalie della “buona scuola”, senza specificare quali siano queste anomalie, come intende abolirle e con che cosa le sostituirà. 

Sia LeU che il M5S sono infine piuttosto critici nei confronti della buona scuola in generale e l’alternanza scuola-lavoro in particolare. Se Liberi e Uguali è per l’abolizione della buona scuola, il M5S lo è in realtà indirettamente, dato che propone la cancellazione dei suoi provvedimenti più importanti. In merito all’alternanza invece, questa secondo i partiti non deve essere obbligatoria e deve uniformarsi il più possibile al corso di studi. Il M5S aggiunge qualcosa di più, considerando le esperienze lavorative durante il ciclo di studi strettamente legate al territorio con percorsi formativi chiamati “Azioni di apprendimento nel Territorio.

Una postilla che riguarda il M5S è il tema del rapporto pubblico-privato. Con un chiaro riferimento all’art. 33 della nostra costituzione secondo cui l’istruzione privata può sussistere ma senza oneri per lo stato. Cosa che invece succede grazie (si fa per dire) alla Legge Berlinguer del 10 marzo del 2000, che apre a questa possibilità. Il M5S propone quindi di ridurre gli esborsi per le paritarie, aumentando i fondi per l’istruzione pubblica. Attenzione però: questo non è figlio di nessun tipo di ideologia, ci tengono a sottolinearlo.

Unico elemento comune a tutti i partiti è il fantomatico impegno nel miglioramento dell’edilizia scolastica, e il fatto che i finanziamenti debbano essere sempre maggiori. Il che non vale solo per le scuole, ma anche per l’università.

Questo mi consente di passare ai programmi per l’istruzione superiore, trampolino di lancio riconosciuto per lo sviluppo economico ma che da noi sembra troppo complicato da far crescere, nonostante i risultati non di poco conto che tanti ricercatori riescono ad ottenere, tra penuria di fondi e precarietà cronica. Il tema ruota principalmente intorno ai fondi stanziati per le politiche universitarie: direttamente agli atenei per le loro attività e come incentivo e sostegno agli studenti, attraverso diverse forme di welfare.

Partiamo dalla no-tax area e dai fondi per le borse di studio nella programmazione del welfare studentesco. Coerentemente con la brevità del programma nulla dice il centro-destra in merito, in ossequio alla scarsa importanza che per ragioni ideologiche e di priorità questa coalizione ha dato al tema, mentre le altre tre compagini si soffermano in maniera un po’ più dettagliata sul tema. Il partito democratico invece prosegue sulla strada dell’esenzione dai pagamenti delle tasse per i redditi fino a 13.000 euro, aggiungendo come sia necessario proseguire sul potenziamento delle risorse destinate al diritto allo studio con l’istituzione dei LEA. I LEA –Livelli Essenziali di Assistenza, servizi sanitari che dovrebbero essere garantiti a tutti i cittadini al netto della competenza regionale in merito – verrebbero potenziati anche per tutti gli studenti d’Italia, questi ultimi purtroppo alla mercé di discrezioni regionali in merito al diritto allo studio (dimensione che penalizza gli studenti del meridione soprattutto). Peculiarità del programma targato PD è la proposta dell’Erasmus della cultura, attraverso il quale gli studenti di tutti i paesi posso svolgere dei periodi all’estero all’interno di musei e istituzioni culturali, per una maggiore condivisione delle peculiarità artistiche e storiche di ogni paese.

Il M5S non si discosta molto in realtà dall’impostazione del partito democratico, con l’allargamento della platea di beneficiari della no-tax area e maggiori finanziamenti destinati al settore per i quali, così come per tante altre voci, non viene specificata la provenienza. Sono tuttavia gli unici ad avere come punto di riferimento il piano HORIZON 2020 dell’Unione Europea, sottolineando come siamo ancora lontani dalla soglia del 40% dei laureati tra la popolazione e la necessità di raggiungere, se non anche superare, quella soglia.

Elemento di raccordo con il programma di LeU è l’importanza dell’università diffusa: gli atenei non possono ridursi solo ad alcuni poli di eccellenza nazionale, ma c’è bisogno di una rete vasta (già esistente) da potenziare, al fine di garantire le stesse possibilità di crescita culturale su tutto il territorio. Ma quello che – seppur in maniera forse un po’ azzardata – ha destato clamore e ha avuto il merito di portare l’università in primo piano nel dibattito elettorale (almeno per qualche giorno) è l’abolizione della contribuzione universitaria per tutti, rendendo quindi l’università un servizio totalmente pubblico. La domanda che sorge spontanea è: da dove vengono presi i soldi per coprire il miliardo e mezzo circa che verrebbe a mancare in un’università purtroppo già sottofinanziata? Si fa riferimento ad un aumento dell’Irpef per le fasce di reddito più alte per coprire quella mancanza. Quanto è fattibile e quali scenari si prospettano? Per un analisi più economica della questione rimandiamo ad un articolo di La Voce.

Postilla per LeU: è l’unica a porre la questione universitaria in chiave meridionale, considerando la drammatica fuga di cervelli che da anni impoverisce il sud. In aggiunta a questo, si punta ad una rivisitazione dei criteri per la valutazione degli atenei, un aumento di investimenti e assunzioni attraverso il potenziamento del FFO (Fondo Finanziamento Ordinario), nella prospettiva del migliorante delle rete diffusa di cui sopra.

Vale in ogni caso la considerazione per cui senza una buona istruzione che sia adatta ai tempi che corrono e alle dinamiche culturali sempre più cangianti, prima che a quelle economiche, un paese è destinato a restare indietro. Non solo per questioni quantitative legate al numero dei laureati, ma soprattutto perché dal punto di vista qualitativo si verrebbe a creare un tessuto sociale sicuramente più dinamico, con più competenze a disposizione del territorio e di chi vi opera.

Luca Di San Carlo per Policlic.it

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