SPE porta l’ENI alla Sapienza: prospettive e considerazioni su un futuro low-carbon

SPE porta l’ENI alla Sapienza: prospettive e considerazioni su un futuro low-carbon

Roma, ore 18 circa, metro A stazione Termini. Masse di persone si avvicendano, si affannano verso i propri loculi cittadini, inspirano, espirano, traspirano. Nel costante brulichio qualcuno avrà pure ascoltato il breve notiziario che appare fra una pubblicità e l’altra della metro. Non chiediamoci ora da quali pensieri fosse preso, se stesse respirando inconsapevole con l’addome o con il petto gonfio per l’orgoglio di una piccola vittoria personale; immaginiamo invece il fiato che gli si mozza, quando legge sullo schermo: “Inquinamento, sette milioni di morti”. Se poi è un ingegnere energetico, al colpo inaspettato seguono reazioni contrastanti a seconda del tempo che ha passato sui libri: occhio lucido da candida e pura matricola, spoetizzato cinismo del veterano dei disastri ecologici per il laureando magistrale, afflato mistico di quel dottorando che proprio il giorno prima aveva avuto la visione (beninteso, sempre mistica) del suo stipendio (all’estero). 

L’aria che si respira non è quindi mefitica solo quando c’è il blocco auto della domenica, ma rischia di esserlo costantemente, secondo quanto riportano le rilevazioni delle emissioni e i rispettivi confronti con i limiti imposti dalla normativa. Si presenta imperioso il problema di informare meglio la platea dei viaggiatori metropolitani e campestri sul tema delle emissioni inquinanti e della qualità dell’aria, presentando dati quantitativi per chiarire il problema, e da questi prendere le mosse per comprendere ed esporre alcune delle soluzioni proposte. Inaccettabile fermarsi a quelli che, su uno schermo della metro, rimangono strepiti di mero sensazionalismo.

Ci aiutano ad entrare nel merito il Dott. Luca Baldini e l’Ing. Silvia Faccini, tecnici specialisti dell’ENI che il 19 aprile, alla facoltà di Ingegneria della Sapienza di Roma in sede San Pietro in Vincoli, hanno tenuto un seminario sul tema della transizione energetica nei sistemi di trasporto, di cui hanno gentilmente concesso la presentazione (in lingua inglese) che si può scaricare da qui.

È importante sottolineare come l’organizzazione sia stata portata avanti dai membri dello SPE Student Chapter Roma. La Society of Petroleum Engineers (SPE) è la più grande associazione di professionisti del settore dell’upstream (1) petrolifero e opera in vari chapter locali che fanno capo alla rispettiva sezione nazionale che poi a sua volta confluisce in SPE International. In Italia troviamo i giovani di SPE ai Politecnici di Torino e Milano, oltre che alla Sapienza di Roma. Iscrizione gratuita, eventi di formazione (anche su temi che esulano dall’upstream), possibilità di allacciare rapporti con le aziende, calda accoglienza dei ragazzi della squadra. Non lasciano delusi.

La SPE – Society of Petroleum Engineers (fonte: Wikimedia)



Premesse filosofiche su Malthus e l’ambientalismo dell’uomo faustiano

Fin dalle prime battute del seminario, la sensazione è stata quella di percepire dell’ottimismo nelle parole dei tecnici ENI. Al netto di uno scontato intento propagandistico, è possibile aprire una parentesi filosofica sui due schieramenti che in ambito tecnico-economico vedono contrapposti i pessimisti e gli ottimisti: i neomalthusiani e gli antineomalthusiani. I primi, sulla scia del pensiero che dal britannico T. Robert Malthus arriva fino a noi, continuano da decenni a paventare l’esaurimento delle risorse causato dall’incremento eccessivo della popolazione e propongono la forzosa contrazione delle nascite. Le catastrofi parrebbero ineluttabili. Il rapporto del MIT, commissionato dal Club di Roma e uscito nel 1972, era impregnato di questa mentalità. I secondi invece sono gli ottimisti del progresso tecnologico e i fedeli dell’autoregolazione del mercato.

Possiamo concedere ai teorici del neomalthusianesimo il fatto che le catastrofi ambientali ci siano, siano disastrose e numerose (alcuni celebri esempi sono Chernobyl, Bhopal, petroliera Haven, onda di cianuro del Danubio, Deepwater Horizon nel Golfo del Messico, Fukushima e ci fermiamo per questioni di lunghezza). Avrebbero dunque ragione? Non cadiamo nella nota fallacia post hoc ergo propter hoc: non è certo l’aumento della popolazione che ha causato disastri ecologici. Bisogna allora credere nel mercato e nel progresso tecnologico indefinito? Neanche. Non bisogna infatti cercare la risposta al problema dello sviluppo dal punto di vista delle attività che sono strumentali allo sviluppo stesso, bensì il problema va risolto dall’alto, cioè a partire dalla prospettiva etica, l’unica che può dar senso al coacervo di strumenti – assiologicamente dipendenti dall’etica – che l’uomo mette in campo per raggiungere il fine che gli è proprio. Epistemologicamente, la scienza non può fare affermazioni sui fini delle cose, ma tratta unicamente del come; da qui l’importanza dell’etica. I due corni della disputa suddetta sono infatti come fratelli uterini. Mater semper certa, si dice. Sappiamo infatti che, indipendentemente dai vari possibili padri dei malthusiani e degli antimalthusiani, la genitrice delle due visioni è una sola e si chiama volontà di potenza faustiana, ribellione all’ordine dell’esistente, “non serviam” luciferino.

Il giudizio che diamo parte dai principi della tradizione cattolica, non perché il tema sia trascurato dai moderni filosofi (fra i più famosi: O. Spengler, M. Heidegger, M. Scheler, E. Jünger, E. Severino), ma perché ciò che la tecnica mette in discussione è l’eredità propria del pensiero cristiano dell’arte intesa come imitazione di Dio. Scrive a tal riguardo Attilio Mordini: “L’uomo, nell’arte sua, non imita la natura, ma Dio. Imitando la natura non si sarebbe volto ad inventare la ruota, ma tutt’al più i trampoli”. E continua duramente: “Non è da ritenersi nella Chiesa chi pretenda istituire una fratellanza universale, non più sul Cristo simboleggiato nella realtà oggettiva e nell’opera dell’uomo e ad essa inerente con l’intervento della Sua incarnazione, bensì sulla mera tecnica, sul sillogismo umano, sulla ragione e sulle conquiste dell’utilitarismo e del moralismo!”. Nel caso dei neomalthusiani si ha il totale rigetto delle parole del Genesi: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra” (Gn 1-28). I antineomalthusiani sono meno grossolani, perché il loro errore è al contempo più vasto e meno evidente, imponendo di fatto una nuova religione: quella del dio denaro. Come si è detto, entrambi sono aspetti di una ribellione all’ordine esistente.

L’inquinamento è uno dei sintomi più concreti del disordine apportato da tale indiscriminato utilitarismo tecnico. Infatti, la ribellione umana ai danni dell’ordine naturale non è senza conseguenze ed è urgente l’imporsi di un’etica condivisa, quantomeno sul piano pratico, nonostante l’etica di cui qui si auspica il risorgere non sia espressione di una mera regolamentazione ma una vera e propria visione del mondo imperniata sul riconoscimento dell’origine trascendente dell’uomo. Fatta salva questa precisazione, e sottolineando inoltre che ognuna delle moderne posizioni ambientaliste – impersonate da romantici sognatori di foreste vergini da romanzo di Sandokan, ipersensibili che non ucciderebbero nemmeno una pianticella innocente ma poi accendono la caldaia per riscaldarsi e inquinano bruciando piante decomposte in milioni di anni, predicatori dell’imminente fine del mondo che sotto le coperte e con i popcorn invitano gli amici a vedere il film The Day After Tomorrow – è eticamente inaccettabile, mi rallegro nondimeno dell’esistenza di una stringente normativa che regola le emissioni e la qualità dell’aria.

A proposito di normativa ed etica, colgo l’occasione di chiarire meglio il richiamo alla trascendenza e al pensiero cristiano con una lunga citazione che ci riporta ai tempi tutt’altro che bui del medioevo. Durante quei secoli la sensibilità nei confronti del creato occupò un posto di primo rilevo nella spiritualità. Il personaggio storico di Federico II di Svevia ci permette questa digressione, per ritrovare nel passato delle nostre radici cristiane, un’ispirazione che potrà guidare le nostre decisioni future. Leggiamo in “Federico II di Svevia – Rivoluzionario o conservatore?” di V. Luca De Netto:

“[…] Forse è il caso di osservare le Costituzioni che Federico II dedica alla difesa della salubrità dell’aria e della purezza delle acque. ‘Vogliamo proteggere la salubrità dell’aria, patrimonio divino, con lo zelo della Nostra previdenza – per quanto possibile – ordinando che a nessuno in futuro sia permesso porre a macerare lino o canapa nelle acque vicine meno di un miglio a qualunque città o castrum, affinché da ciò non derivi, come abbiamo saputo per certo, l’inquinamento dell’aria’. ‘Vietiamo anche che dai pescatori siano gettate nelle acque il tasso o erbe simili a causa delle quali i pesci si stordiscono e muoiono. A causa di queste sostanze divengono velenosi anche i pesci e sono rese inquinate anche le acque che bevono talvolta gli uomini e più spesso gli animali. Chi faccia ciò, sia condannato in catene ad un anno di lavori forzati’. In realtà più che un improbabile ambientalismo dal sapore nostrano qui sono davvero palesi sia la concezione francescana del rapporto uomo-natura che la tradizione ecologica di matrice greco-islamica. Infatti l’ambientalismo, tutto figlio della Modernità, pretende di tutelare astrattamente l’ambiente inteso come territorio abitato da specie animali e vegetali, cacciando via la presenza dell’uomo e creando così delle aree off-limits in cui l’accesso umano è vietato o controllato, e che di fatto deresponsabilizzano. L’approccio ecologico, invece, già partendo dalla sua radice etimologica (ecologia, dal greco οίκος, oikos, “casa” o “ambiente” e λόγος, logos, “iter logico”), prevede un impegno diretto dell’uomo alla cura della natura intesa come Creato in cui si vive quotidianamente: sono quindi gli uomini che, pienamente immersi nell’ecosistema, hanno il dovere e la responsabilità di non causarne la degenerazione o produrre danni”.


Le norme e il controllo del mostro invisibile degli inquinanti

Chiusa la parentesi filosofica, torniamo al seminario. Come abbiamo citato i tempi medievali, così ora passiamo alle norme odierne, nella speranza di trovare continuità nelle decisioni.  Quali normative limitano i danni alla qualità dell’aria? Il riferimento da cui partono tutte le altre norme è la direttiva 2008/50/CE, recepita dal D.Lgs.155/2010. Questa norma prevede la zonizzazione e il monitoraggio delle zone per misurare la “compliance” delle concentrazioni con i limiti ammessi. Se anche una sola centralina sfora il limite, tutta la zona è non-compliant.

Ricordiamo che i principali inquinanti da monitorare sono quelli all’allegato II della direttiva europea citata. Abbiamo quindi il biossido di zolfo (SO2), il biossido di azoto e ossidi di azoto (NOx), il particolato fine (PM10/PM2,5), il Piombo (Pb), il Benzene (C6H6), il monossido di carbonio (CO). La lista non è completa perché manca l’ozono (O3) troposferico (2), inquinante secondario. Vi sarebbero poi anche gli IPA (Idrocarburi policiclici aromatici) e i COVNM (Composti organici volatili non metanici). La norma 2008/50 si rifa, per il contenimento dell’ozono alla normativa sulle emissioni 2001/81/CE. Nel D.Lgs. 155/2010, abbiamo un valore limite più preciso per l’ozono pari a 120 μg/m3 come massimo giornaliero su una media mobile di 8 ore. Abbiamo parlato di qualità dell’aria e di emissioni. Sono due concetti diversi che necessitano due unità di misura diverse. La qualità dell’aria si misura alla fine dei processi di diffusione che hanno portato l’inquinante ad accumularsi nell’atmosfera e quindi si misura in termini di concentrazione (massa presente per unità di volume); le emissioni invece sono misurate in base alla portata massica dell’inquinante (massa nell’arco di tempo da monitorare) emesso dalla sorgente.

Veniamo al particolato (si considera solo quello antropico, benché quello naturale sia comparabile in termini emissivi). Si suddivide in primario e secondario: il primario esce direttamente dal tubo di scappamento del veicolo di trasporto, il secondario si forma da reazioni chimiche fra i COV (composti organici volatili) gli NOx, gli SOx e in generale da reazioni che coinvolgono inquinanti gassosi sia primari che secondari. Per il PM2,5 (3), il 70% è secondario, il 30% è primario. Per il PM10 abbiamo un limite annuale e un limite giornaliero. Quest’ultimo è di 50 μg/m3 e non deve essere superato per più di 35 volte l’anno. Ecco spiegate le giornate di sospensione della mobilità.

Per fare chiarezza, consideriamo che nelle aree urbane una fonte di particolato significativa è quella delle emissioni da trasporto e, a loro volta, le emissioni da strada oggi derivano per il 75% circa da combustione e per la restante parte da usura dei freni, abrasione del manto stradale, consunzione degli pneumatici (non-exhaust emissions). È anche vero che globalmente la fonte di particolato che proviene dal trasporto inteso come fonte primaria incide poco (circa il 15%), perché vanno considerate le industrie e il riscaldamento domestico come fonti preminenti. In generale non si possono fornire dati precisi sulle sorgenti di particolato in un determinato luogo, visto che sarebbe necessaria un’analisi chimica dei componenti volatili mediante l’uso di una modellistica appropriata.

EU27 – Emissioni di PM2,5 aggregate per settore chiave (fonte: presentazione ENI)

I modelli prevedono che al 2030 il PM2,5 inquinerà assai poco e la concentrazione in atmosfera sarà indipendente dalla tecnologia di auto-trazione. Il particolato, secondo l’ENI, non è quindi un fattore così critico per il settore dei trasporti.

Il discorso per gli NOx è ben più rilevante in termini quantitativi. Al 2015, il 40% degli NOx derivano ancora dal trasporto. Durante il seminario il Dott. Baldini ha toccato l’argomento dello scandalo Dieselgate, in merito alla discrepanza fra i valori di NOx misurati in fase di test e quelli effettivamente emessi in fase di guida. Se in questo caso è la frode che ha permesso l’errore, questo permarrebbe comunque se i test con cicli di omologazione non venissero operati in condizioni “real-drive”. Citiamo l’interessantissimo studio di T. Donateo e M. Giovinazzi, Building a cycle for Real Driving Emissions: “starting from September 2017, the NEDC will be replaced by the new Worldwide harmonized Light vehicles Test Procedure (WLTP), and a Real Driving Emissions (RDE) test will be mandatory”. Lo studio segue il 72o Congresso Nazionale ATI svoltosi fra il 6 e l’8 settembre 2017. Questo disallineamento dei valori misurati è evidenziato da uno studio della società indipendente inglese Ricardo.

Il Diesel NOx in condizioni reali (fonte: presentazione ENI)

In fase di real driving il limite di omologazione di 80 mg/Km non era assolutamente rispettato dai cicli precedenti. L’EU6d non presenta più questo scostamento. Un’altra analisi di Ricardo dimostra invece che la differenza fra le emissioni di NOx dei veicoli elettrici e quelle dei veicoli sottoposti a limiti sempre più stringenti in termini di CF (fattore di conformità) è molto piccola. Anche in questo caso i tecnici ENI sono ottimisti. Le zone non-compliant per gli NOx diminuiranno sensibilmente nei prossimi anni.

Seguono poi altre spiegazioni su cosa sono gli inquinanti nello specifico e sui limiti europei. Si rimanda alla presentazione ENI per i dettagli. Ricordiamo solamente che va sempre fatta distinzione fra vetture a gasolio (Diesel) e vetture a benzina, i primi emettendo più particolato e più NOx dei secondi. Inoltre non va considerato solo il particolato in termini di concentrazione ma anche il numero di particelle. Si ha infatti il caso che le particelle di massa maggiore siano quelle che influiscono maggiormente sulla concentrazione complessiva del particolato, ma quelle di massa minore sono più numerose e peraltro le più dannose per la salute umana.

Se è vero che la storia procede a salti conseguenti a crisi sistemiche, ne abbiamo almeno una conferma nella netta sterzata dal diesel dopo lo scandalo Dieselgate. Recente è l’annuncio della Toyota di fermare la vendita di veicoli a diesel, decisioni condivise anche dalla Germania, da Parigi e altre tre capitali. Non basta quindi il filtro antiparticolato (FAP) a frenare il phase out dal gasolio. Filtro la cui rigenerazione automatica dopo il naturale intasamento risulta così fastidiosa a molti automobilisti da essere spesso rimosso illegalmente.

Il seminario però non si contenta dei molti argomenti già trattati e inonda i presenti di informazioni, passando alla spiegazione degli altri meccanismi di rimozione degli inquinanti più diffusi: l’EGR (Exhaust gas Recirculation), il LNT (Lean NOx trap) e la famosa SCR (Selective Catalytic Reduction). Anche in questo caso evitiamo di spiegare come agiscano i singoli sistemi di rimozione, rimandando alla letteratura in materia (si vada sul tubo e ci si diverta ad imparare dai video che si trovano, per esempio questo.

Bene, ma il cittadino medio, in pratica, come farebbe ad essere aggiornato su queste misurazioni delle immissioni di inquinanti? Direttamente non potrà di certo, a meno di non spendere 80 euro per comprare un sensore come Atmotube e “ricevere un’infinita scorta di paranoia” come commenta simpaticamente un utente su Youtube. C’è un metodo indiretto, meno costoso e forse più sostenibile, che è quello proposto da Sense Square, start up finita terza sul podio di Next Energy 2017, iniziativa promossa da Terna e Fondazione Cariplo che sta presentando una seconda edizione per il 2018. L’idea è quella di favorire la trasparenza della diffusione dei dati sulle immissioni e promuovere la collaborazione con la pubblica amministrazione: tutti devono sapere, per guarire dalla sindrome NIMBY e per far sì che le decisioni atte al contenimento dell’inquinamento siano prese più rapidamente.



Addio CO
2! Sintesi dei provvedimenti ENI

Il seminario prosegue con le spiegazioni dell’Ing. Silvia Faccini sulla decarbonizzazione e la riduzione della CO2. Già si sa, ma lo ribadiamo, citando la Strategia Energetica Nazionale: “Nel 2011 la Comunicazione della Commissione europea sulla Roadmap di decarbonizzazione ha stabilito di ridurre le emissioni di gas serra almeno dell’80% entro il 2050 rispetto ai livelli del 1990, per garantire competitività e crescita economica nella transizione energetica e rispettare gli impegni di Kyoto”. L’80% non è uno scherzo!
Soprattutto perché il trasporto avrà una parte rilevante alla contribuzione dei target (al 2014 il 23% della CO
2 deriva dal trasporto secondo l’IEA e al 2030 si vuole ridurre del 30% le emissioni del settore).

Emissioni di CO2 da combustione – 2014 (fonte: presentazione ENI)

Come ridurre però l’emissione dell’inquinanante globale CO2? Due sono le vie possibili: miglioramento dei motori e utilizzo di combustibili low-carbon. Delle due l’una? Non necessariamente, anzi entrambe le soluzioni giocheranno un ruolo determinante. I nuovi test di omologazione prevedono anche, dal 2020 una media limite di 95 g/CO2 al chilometro. Prima la soglia era fissata a 130 g/CO2. Uno scarto molto forte per le case automobilistiche, che si erano però già avvantaggiate arrivando a 119 g/CO2 già al 2015, con un ritmo di riduzione del 3.5% annuo, che però ha registrato una frenata nel 2017.

Dal pozzo alle ruote, l’espressione inglese well-to-wheel, è la sintetica denominazione dell’approccio da seguire per valutare la bontà di un sistema di abbattimento della CO2. Ogni manufatto ha una vita che non inizia “alla nascita”, cioè a costruzione completata, ma fin dal “concepimento”, cioè dal reperimento delle materie prime. I test di omologazione partono dal serbatoio (tank) per arrivare alle ruote. Il well-to-wheel si spinge oltre. Ma ancora non fino alla “morte” del processo. Come bisogna preoccuparsi della pensione, della morte e della sepoltura di ognuno, così con ogni tecnologia va portato avanti un Life Cycle Assessment (LCA).

Il motivo è chiaramente quello di non trascurare alcun apporto alle emissioni e di favorire un approccio tecnologico integrato e neutrale. Per esempio i veicoli elettrici vengono considerati ad emissioni zero in termini well-to-wheel, mentre questo non è più vero in termini di LCA. Un’analisi sul ciclo di vita favorisce l’affermarsi del principio della neutralità tecnologica che a sua volta permette di rendersi conto che non tutto è oro quello che è elettrico. Secondo uno studio di ArtFuels, un e-vehicle alimentato da elettricità 100% rinnovabile emetterebbe molto meno di un veicolo che usa elettricità generata dal mix tecnologico attuale, ma comunque più CO2 di un veicolo biometanizzato al 100%.

Stanchi di leggere dati? Il seminario non se ne cura e prosegue senza sosta verso le soluzioni ENI, di cui noi ometteremo i dettagli. Sintetizziamo i punti esposti dall’Ing. Faccini sulla strategia ENI per la decarbonizzazione:
1) Bioraffinerie: conversione della raffineria tradizionale di petrolio a Venezia in una per raffineria per biocarburanti; nel 2019 partirà il secondo impianto di Gela dopo un’altra conversione.
2) Smart Mobility: progetto
Enjoy.
3) Gas: GNC, Gas Naturale Compresso e GNL, Gas Naturale Liquefatto.
4) Attività di ricerca per lo sviluppo di nuovi combustibili alternativi con alta percentuale di ossigenati
5) Nuove soluzioni per la cattura e stoccaggio della CO
2 sul veicolo stesso
6) Utilizzo di biofuel puri in veicoli adeguatamente predisposti

Concludiamo l’interminabile e fin troppo tecnica lista di innovazioni parlando brevemente della nuova bioraffineria, per le importanti ricadute pratiche che questo ha sui consumatori. A Venezia si è sviluppato un nuovo processo chiamato Ecofining che permette di convertire olio di palma e oli di fritture esausti (il famigerato olio del McDonald’s per intenderci) in biocarburante tramite un processo di idrogenazione. Il green diesel che ne esce è perfettamente idrocarburico, perché privo di ossigeno, e perciò non presenta problemi di compatibilità con il gasolio fossile.

Inoltre il numero di cetano è molto più alto, con il vantaggio di una combustione più rapida e di una guida più fluida al volante, oltre che di una partenza facilitata in caso di clima molto rigido. Anche il potere calorifico è maggiore, il che implica un minor consumo di carburante. Ci sono poi anche vantaggi per gli iniettori e per il filtro gasolio, vista la poca solubilità dell’acqua nel nuovo prodotto. Insomma, la prossima volta che vi rifornite in un distributore ENI considerate quel green diesel veneziano che, a fronte di circa 12 centesimi in più al litro, è eco-friendly e di migliore qualità.



Conclusioni

Abbiamo riportato più o meno fedelmente gli argomenti trattati nel seminario regalatoci da ENI per merito di SPE, senza la pretesa di essere esaurienti. Se il settore non offre spunti per uno storytelling efficace, che renda più digeribile la materia, ce ne scusiamo. Un giorno saranno i nostri figli a raccontare le gesta dell’ENI e del suo diesel plus. Siamo certi che ogni piccolo argomento lambisce un mondo che anche ai non esperti può apparire affascinante, se solo si pensa per un attimo alle diramazioni indefinite di questi tunnel della conoscenza. Il punto di contatto, lo si ribadisce, è l’etica. Se il tema può interessare il singolo, è però il politico che prenderà decisioni in materia, sulla base – lo crediamo – di principi etici condivisi. Anche perché, se è vero che l’uomo l’aria non la vede (se la vedete preoccupatevi della sua composizione), l’aria vede i nostri polmoni e preservarla è un compito a cui tutti dovranno partecipare, dai piccoli ai grandi, dai tecnici ai letterati, dalle periferie ai centri del potere, augurandosi che non sia vero il detto di Bronowski: “Non esiste scienza che sia immune all’infezione della politica e dalla corruzione del potere”.



Luigi Tallarico
 per www.policlic.it

Note

(1) Nel settore del petrolio e del gas, “upstream” indica tutta la serie di attività precedenti al trasporto e alla commercializzazione che concorrono all’estrazione degli idrocarburi. Si suddivide in acquisizione dei diritti per lo sfruttamento, esplorazione, sviluppo (costruzione dei siti estrattivi) e produzione (estrazione vera e propria).

(2) L’ozono stratosferico (fra i 10 e i 50 km di altitudine) che si forma per reazione con la radiazione ultravioletta è il prezioso custode della troposfera (fra 0 e 10 km di altitudine, il nostro habitat) dai raggi ultravioletti del Sole. L’azione distruttiva dello strato protettivo di ozono avviene a causa dell’eccessivo utilizzo di composti contenenti cloro e bromo, soprattutto per i noti e ormai banditi CFC (clorofluorocarburi). L’ozono al livello troposferico tuttavia è tossico e si forma come inquinante secondario da processi fotochimici (cioè che avvengono in presenza di forte insolazione).

(3) Per PM2,5 e PM10 si intendono le particelle di particolato di diametro aerodinamico inferiore a 2,5 micrometri e 10 micrometri rispettivamente. Più grande il particolato, più grande il numero che segue il PM.

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