Bielorussia al limite: l’ennesima sfida alla tenuta dell’impero eurasiatico di Putin

Bielorussia al limite: l’ennesima sfida alla tenuta dell’impero eurasiatico di Putin

I confini occidentali della Federazione russa sono in crisi. Viene nuovamente messa in discussione la strategia della Russia post-sovietica di integrazione dello spazio eurasiatico a trazione russa, a discapito di quello europeo (UE). Chi potrebbe beneficiarne, da un punto di vista tattico e strategico, è il sistema UE-NATO. Sembra che la storia si ripeta ancora, in un opaco e indefinito lascito da Guerra fredda. Sebbene la crisi bielorussa nasca da una necessità reale e la popolazione chieda a gran voce, dati i remoti e i recenti episodi di mal governo, maggiore trasparenza e democrazia, è saggio monitorare la condizione del Paese anche da un punto di vista geopolitico. Le tensioni degli ultimi mesi rimandano alla mente ciò che avvenne nel 2014 a Kiev, nella piazza “Euromaidan”. Ma è davvero la Bielorussia un’altra Ucraina?


Rivoluzioni colorate e criticità dei malumori in Bielorussia

È stata battezzata “rivoluzione delle ciabatte”[1] quella in Bielorussia, una rivolta che segue negli eventi causali, nelle logiche e nei fantasiosi appellativi[2] quelle precedenti manifestazioni popolari avvenute nei Paesi che separano la Russia dal resto d’Europa. Un evento geopolitico, questo, assolutamente atteso.

Chiunque monitori gli eventi susseguitisi nella storia di quello che la Russia e taluni studiosi chiamano il “continente eurasiatico” sa che la Bielorussia era, ed è, il tassello mancante della grand strategy euro-atlantica. Le rivoluzioni colorate del primo decennio del nuovo secolo hanno infatti sottolineato la volontà di integrare la regione orientale d’Europa tanto da parte dell’Unione Europea – per ragioni squisitamente economiche, politiche e sociali – quanto da parte degli USA, nell’ottica di una visione strategica della NATO, organizzazione politica e militare a tutti gli effetti.

Tuttavia, l’evento era atteso anche tenendo conto della politica interna del Paese. Le recenti proteste dell’agosto 2020 sono delle manifestazioni sorte in seno alla società civile contraria al governo bielorusso e al suo presidente, Aleksandr Lukashenko, al potere dal 1994 e noto come “l’ultimo dittatore d’Europa”, recentemente rieletto nella tornata del 9 agosto[3]. In linea generale, nella storia della Bielorussia i numerosi governi Lukashenko hanno beneficiato di una forma piuttosto accentrata dei più rilevanti poteri statali intorno allo stesso presidente, oltre che di un serrato controllo dei mass media sulla libertà di informazione. Freedom House classifica difatti il Paese come Stato sotto governo autoritario e “non libero”.

Oltre a un chiaro malumore della società civile, dovuto all’assenza di un concreto stato di libertà e all’impossibilità di esercitare democraticamente diritti sociali e politici, le motivazioni del più recente dissenso popolare sono riconducibili alla malagestione della crisi sanitaria derivante dalla pandemia di COVID-19, che il governo bielorusso ha certamente preso sottogamba. “Si cura bevendo vodka“, ha deliberato il presidente Lukashenko sul tema. La totale assenza di una corretta amministrazione della crisi ha rinfuocato l’opinione pubblica anche sul tema della crisi economica, già esistente, e della recessione immediatamente successiva all’invernata del 2020.


Russia e Bielorussia: benefici e trappole della “special relationship”

La Bielorussia, il cui nome deriva dal russo (traslitterato) Belarus’, ovvero Russia Bianca, è sempre stato un Paese assolutamente dipendente da Mosca. È infatti parte dell’Unione Russia-Bielorussia nata nel 1996-1999 e più recentemente, dal 2015, Paese membro dell’Unione Economica Eurasiatica, un progetto di integrazione economica e politica a trazione russa diretto in modo specifico ai Paesi ex satelliti URSS (Paesi CSI o comunque Stati confinanti ed economicamente legati alla Russia).

In modo specifico, la relazione economica più evidente, come per tutti i Paesi dipendenti dalla Russia, riguarda i sussidi sull’acquisto di energia da Mosca: questi Paesi acquistano i prodotti energetici russi allo stato grezzo che, dopo essere stati lavorati, vengono rivenduti sul mercato a un prezzo maggiore, così da rinfrancare le casse dello Stato. Si noti che la Bielorussia, secondo i dati UNCTAD, importa da Mosca il 99% dei prodotti energetici e circa il 96% degli armamenti militari (dati SIPRI). Sul piano commerciale Mosca è certamente il primo partner bielorusso per interscambio, seguito in modo modesto dall’Unione Europea.

La Russia ha provato ad assorbire sempre più il Paese sotto la propria egemonia politica ed economica, giuridicamente riconducibile agli impegni sottoscritti dal Trattato di creazione dell’unione statale di Russia e Bielorussia, un progetto che è tuttavia rimasto carta vuota.

A seguito della radicalizzata opposizione di Lukashenko a questi tentativi di integrazione, Putin ha raffreddato i rapporti privilegiati intrattenuti con l’economia bielorussa. Un aspetto che ha creato numerosi e problematici sviluppi.

È dunque in atto un “conflitto” politico ed economico[4] tra i due Paesi, e la possibilità che la Russia riduca i sussidi energetici verso Minsk sono molto concreti, a meno che questa non collabori per una maggiore integrazione nel progetto eurasiatico. La storia è non molto dissimile da ciò che avvenne nel 2013-2014 in Ucraina, anch’essa fortemente dipendente dalla relazione energetica con Mosca, anch’essa “sotto minaccia russa” quando il governo ucraino iniziava a svincolarsi dal disegno eurasiatico per abbracciare quello euro-atlantico.

L’Unione Europea, dopo il quinto grande allargamento a Est del 2004, non ha mai dimostrato particolare interesse a modificare la politica bielorussa o, più diplomaticamente, a influenzarla verso una più stretta partnership europea. A partire dal 2009, la Bielorussia è membro della Eastern Partnership, un progetto europeo di collaborazione con alcuni Paesi ex satelliti URSS, ma nonostante questo è sempre stato chiaro a qualunque osservatore internazionale che il Paese era ed è tuttora fortemente legato, per cultura, necessità e posizione geografica, alla Russia.

È storia più o meno recente, però, quella della particolare effervescenza socio-politica di molti dei Paesi precedentemente sovietici e dei popoli di questa specifica area geografica del mondo. Questi, attraverso l’organizzazione interna e il supporto esterno (tanto ideologico quanto materiale) delle democrazie occidentali, spesso riescono a modificare radicalmente l’impronta governativa autoritaria cui sono soliti essere soggetti al fine di favorire politiche economiche liberali e profonde riforme strutturali. In contemporanea a ciò, sovente viene confermata la vicinanza ideologica con l’Unione Europea, talvolta accompagnata dall’adesione all’ombrello protettivo della NATO per ciò che concerne il settore della difesa nazionale.

A tal proposito è utile accennare al caso georgiano[5]: nel 2003 la Georgia visse una fase di forti contestazioni popolari che spingevano per una vicinanza politica all’occidente euro-atlantico, la “rivoluzione delle rose”, che portò alle dimissioni del presidente Shevardnadze. Il suo successore, Shaakashvili, tentò di riportare il Paese all’ordine con il supporto statunitense. Quest’operazione non si rivelò semplice, ma nonostante la cronicizzata instabilità interna di quegli anni e i pessimi rapporti con i confinanti russi, la Georgia strutturò una partnership con la NATO e si candidò a divenire partner dell’Alleanza atlantica e dell’UE – candidature sostenute e coadiuvate dagli USA, che reputavano strumentale la collaborazione con il Paese per un allargamento a Est. In seguito al conflitto armato dell’agosto 2008 tra Russia e Georgia per il controllo di alcune regioni separatiste filo-russe (Abcazia e Sud Ossezia), la candidatura di Tbilisi alla NATO (ma anche all’UE) è tuttora congelata. In più, la minaccia della militarizzazione delle relazioni tra Russia e Paesi transcaucasici ha delineato per Mosca la priorità strategica di mantenere una presenza militare permanente al confine del Caucaso meridionale.

Tuttavia quello georgiano non è il più recente dei fenomeni di malcontento nella regione eurasiatica. È infatti noto il caso della crisi ucraina del 2014 che, come nel caso georgiano, ha visto sorgere un malcontento popolare derivante dall’immobilismo politico del Paese, dalla volontà di occidentalizzare e rimodernare la regione instaurando un legame con l’UE, ma anche dalle spinte centrifughe di alcune aree del Paese maggiormente filo-russe, fortemente critiche nei confronti dell’Occidente[6]. Anche in questo caso la Russia ha optato per una presenza sempre più incisiva e militarizzata nelle regioni che reputa strategicamente utili da controllare e da mantenere sotto la sua influenza (Crimea e regione del Donbass).


Cosa ci si può aspettare dalla Bielorussia e dalle sue relazioni con Mosca e con Bruxelles?

Appare evidente che la creazione di un grande Stato russo-bielorusso sia un’idea abbastanza irrealistica e, almeno per adesso, lontana dall’essere realizzata. Lukashenko non sembra demordere dal suo tentativo di rimanere in carica al governo, nonostante la lunga e contestata reggenza, e dal progetto di mantenere comunque una buona relazione con Mosca per beneficiare degli aspetti di cui si è trattato.

Tuttavia, seguendo perfettamente la tradizionale ambiguità dei Paesi dell’Europa orientale di nuova indipendenza, Minsk prova a intrattenere stretti legami con l’Occidente, anche trattando su alcuni aspetti legati alla politica interna non proprio conformi agli standard europei, così da mantenere una certa multivettorialità della propria politica estera. Con ciò si intende la possibilità di perseguire l’interesse nazionale approfittando di un continuo bilanciamento nelle relazioni ora con uno, ora con l’altro attore internazionale, in questo caso Russia e Occidente (UE-NATO).

Un’effettiva integrazione dello Stato bielorusso permetterebbe a Putin, attraverso delle sostanziali riforme costituzionali, di rimanere alla guida dello Stato russo (e bielorusso) fino al 2036. La titubanza dimostrata da Lukashenko, tuttavia, crea non pochi problemi a questo progetto.

La posizione di USA e UE è prevedibile: queste due potenze si avvantaggerebbero, da un punto di vista tattico e strategico, di una compenetrazione nell’area, ancor di più ora che la pedina ucraina non è più del tutto politicamente vicina alla Russia. Nonostante alcune divergenze dovute alle sanzioni europee al governo bielorusso per presunte violazioni dei diritti umani perpetrate da Lukashenko, entrambi gli attori internazionali ammorbidirebbero le loro posizioni in cambio di una collaborazione su più fronti.

La posizione di Minsk è in questo momento, o almeno finché le proteste non diverranno insostenibili, quella privilegiata. La politica estera multivettoriale a cui si è accennato sopra consente al governo bielorusso di godere ancora di una certa indipendenza e dei benefici derivanti dai “giri di walzer” con gli altri partner internazionali. Questo non può tuttavia durare in eterno, poiché gli agenti interni ed esterni complici del cambiamento in atto chiederanno al Paese di prendere una posizione univoca.

In concreto, una richiesta di cambiamento di rotta nel Paese è già arrivata da parte di Bruxelles. Questo è accaduto a seguito della “tiepida” cerimonia di insediamento di Lukashenko al governo avvenuta lo scorso 23 settembre, durante la quale il presidente ha giurato in gran segreto e lontano dai riflettori dei media nazionali ed esteri, circondato solo da fedelissimi generali e consiglieri.

Attraverso l’Alto rappresentante per la politica estera UE, Javier Borrell, l’Unione ha ribadito il pieno appoggio ai cittadini della Bielorussia che continuano a protestare per il proprio diritto “a essere rappresentati da chi sceglieranno liberamente attraverso nuove elezioni inclusive, trasparenti e credibili”. L’Alto rappresentante si è espresso in merito al giuramento del presidente definendolo privo di qualunque legittimazione democratica e sottolineando il mancato riconoscimento da parte dell’UE di un tale risultato elettorale falsato.

All’inizio del mese di ottobre, inoltre, numerosi colloqui tra i leader europei in seno al Consiglio europeo hanno portato alla somministrazione di sanzioni (misure restrittive) nei confronti di 40 persone responsabili di “repressione e intimidazioni contro manifestanti pacifici, membri dell’opposizione e giornalisti […], nonché di irregolarità commesse nel processo elettorale”[7].

Al di là di queste vicende recenti e ancora prive di sviluppi significativi, va notato come il presidente Lukashenko abbia già interrotto la sua strategia conflittuale nei confronti della Russia spingendo, al contrario, per un riavvicinamento.

La Russia è certamente in difficoltà. A Putin, e alla “democratura[8] che lo circonda e legittima, non converrebbe tirare troppo la corda: significherebbe perdere un partner economico e tattico proprio al più militarizzato (dalla NATO) dei suoi confini, quello occidentale, nonché la possibilità di realizzare il suo progetto di grande Stato e di riconferma alla guida politica della regione[9].

In uno scatto dello scorso mese, il presidente della Bielorussia Aleksandr Lukashenko in visita al presidente russo Vladimir Putin nella residenza presidenziale estiva situata a Sochi (Russia).
Fonte: kremlin.ru/Wikimedia Commons

Alla rinnovata richiesta di alleanza di Lukashenko, Putin ha risposto con l’offerta di aiuti finanziari per 1,5 miliardi di dollari. Il tutto, si capisce, è un incentivo per una più sinergica e stabile integrazione di Minsk nel sistema russo-centrico.


Bielorussia non è Ucraina… ancora.

Bisogna considerare la natura della protesta bielorussa che, seppur rievochi negli sviluppi attesi la questione ucraina, ha presupposti differenti. Quella bielorussa, infatti, non è riconducibile a una crisi geopolitica, nel senso che i malumori della società civile sono legati alla politica interna del Paese e non al suo posizionamento strategico esterno. Il problema è legato al fatto che le conseguenze di un eccessivo inasprimento della situazione potrebbero condurre la società civile a trovare appiglio anche ad agganci esterni. Sarebbe saggio per Minsk concedere maggiori diritti, sostegno e trasparenza alla propria politica interna, mantenendo una positiva relazione con Mosca e Bruxelles per avvantaggiare il Paese di benefici derivanti da entrambi i partner[10].

In più, sarebbe saggio per Mosca trattare con le opposizioni, ammorbidire alcune posizioni di stampo autoritario, sostenere l’economia della regione così da impedire alla Bielorussia di farsi allettare da proposte di stampo occidentale. Qualora la situazione dovesse degenerare, come fu per il caso ucraino, sarebbe difficile non aspettarsi un intervento, forse anche militare, della Russia. Paesi come Polonia e Stati Baltici, geograficamente vicini e particolarmente avversi alla politica russofona, potrebbero influenzare la Bielorussia verso una cooptazione europea. È necessario tuttavia che questi ultimi valutino bene quale politica adottare perché, seppur beneficiando di un rafforzamento dei legami economici, politici e di difesa con il vicino bielorusso, potrebbero goderne solo in teoria: un massiccio intervento russo nell’area comporterebbe una forte instabilità (si veda, ancora, l’Ucraina) e un inasprimento delle relazioni socio-economiche con i Paesi confinanti.


Il caso Naval’nyj

Il caso del noto attivista e oppositore del governo russo Alexei Naval’nyj, avvelenato in contemporanea all’esplosione delle manifestazioni bielorusse[11], complica di molto la situazione. Esso creerebbe infatti un precedente anti-russo tra la popolazione in rivolta, che non ha manifestato particolari rivendicazioni contro Mosca nel contesto sopra descritto. Tuttavia, è ovvio che le argomentazioni apportate dai bielorussi, mirate a un cambio di rotta politica in senso più liberale e democratico, investirebbero, avvelenamento russo o meno, anche la vicina Mosca, con crescente preoccupazione di Putin.

Non è ancora ben chiara la dinamica, anche se non risulta difficile credere alla versione che vedrebbe Mosca coinvolta nella vicenda; tuttavia, supponendo una differente presa di posizione, appare in tutta evidenza la scarsa lungimiranza del governo russo nel compiere un simile gesto, avventato e chiaramente discutibile, proprio in un momento così delicato in cui Mosca e Kiev, oltre che il personaggio di Lukashenko per suo conto, sono costrette a muoversi con estrema cautela. Forse lo stesso Putin non controlla più del tutto la situazione interna, ancor più che esterna, al suo Paese.

Con l’intervento tedesco, che ha permesso a Naval’nyj di essere curato a Berlino dopo l’avvelenamento, la situazione è peggiorata e la crisi si è internazionalizzata. Berlino infatti ha tacciato Mosca di colpevolezza, o comunque connivenza, al punto che il ministro degli esteri tedesco Heiko Maas ha minacciato uno dei pilastri fondanti della relazione economica russo-tedesca, il Nord Stream 2, gasdotto che unisce in una cooperazione energetica piuttosto rilevante i due Paesi. La cauta risposta di Mosca alla collaborazione sul caso non soddisfa la Germania, che punta con forza il dito verso un partner, quello russo, definito inaffidabile. Considerando che la Germania ha sempre avuto un atteggiamento pragmatico e cooperativo con Mosca, per i benefici che ne avrebbe tratto, questi eventi modificano la rotta del governo. Se questa “separazione” dovesse davvero avvenire, chi si avvantaggerebbe di una sonante vittoria in politica estera sarebbero gli USA, particolarmente avversi al gasdotto e in generale alla partnership russo-tedesca.

Ancor più recente è poi la presa di posizione del presidente francese Macron, che chiede a Mosca di fare luce sul caso di “tentato omicidio” di Naval’nyj. Il presidente francese, infatti, ha sottolineato che esiste un fronte comune europeo assolutamente convinto dell’utilizzo di un agente nervino del tipo Novichok, un agente tossico di produzione sovietica, risalente al programma sovietico “Foliant” degli anni Settanta, e oggi russo[12].

Francia e Germania si dicono dunque pronte a cooperare sui prossimi passi e sulle conclusioni da trarre in merito alla faccenda.


Conclusioni

Ciò che risalta allo stato attuale è, da una parte, la necessità che il popolo bielorusso venga salvaguardato, eventualmente anche con un supporto esterno (UE, USA, Paesi di Visegrad, ecc.) dalle possibili minacce e barbarie perpetrate dal governo di Lukashenko. D’altro canto, l’internazionalizzazione del conflitto porterebbe la Bielorussia a diventare il nuovo teatro di scontro tra potenze. Ciò che preoccupa è, infatti, la possibilità che Minsk diventi la nuova Kiev, e con ciò si intende un Paese instabile, diviso, impoverito e lasciato alla mercé dell’opportunità politica contingente. Che la politica estera, specie se si tiene conto del tema trattato e degli attori coinvolti, sia un fatto di lungo periodo è fuor di dubbio. Sfortunatamente, altrettanto di lungo periodo appare essere la ricerca di una soluzione alla crisi, una soluzione che l’intera opinione pubblica auspica possa essere quanto più concreta, pacifica e duratura, così da favorire la stabilità interna della Bielorussia, oltre che di tutti i Paesi direttamente o indirettamente implicati nella vicenda.

Camilla Zecca per www.policlic.it


Note ed ulteriori riferimenti

[1] L’espressione prende le mosse dalla voce del leader dell’opposizione, Sergei Tikhanovsy, che ha paragonato Lukashenko a uno scarafaggio da dover schiacciare con una ciabatta. Tikhanovsy è ora in prigione. Qui un ulteriore rimando sul tema.

[2] Con ciò si fa riferimento alle c.d. “rivoluzioni colorate”, un appellativo comunemente utilizzato dall’opinione pubblica internazionale e dagli attori coinvolti nel fenomeno in questione con il quale vengono indicate quelle manifestazioni tra loro simili e in qualche modo legate da un comune denominatore storico, sviluppatesi nei Paesi post-sovietici e iniziate a partire dal 2000: rivoluzione delle rose in Georgia, rivoluzione dei tulipani in Kyrgykistan, rivoluzione arancione in Ucraina, ecc. Questo genere di rivolte sociali rappresenta un fenomeno socio-politico peculiare, un tipo di movimento che deve essere inserito in un paradigma di cambiamento politico: spesso è costituito da una combinazione di protesta pubblica e colpo di Stato.

[3] Qui è possibile consultare un’analisi sui precedenti elettorali in Bielorussia e qui un’analisi della situazione successiva alla tornata elettorale dell’agosto 2020.

[4] Qui un approfondimento sul tema.

[5] E. Goryushina, The August War: A Regional Conundrum for Russia, ISPI, 7 agosto 2018.

[6] Sul tema si vedano i seguenti riferimenti bibliografici: S. Teti e M. Carta, Attacco all’Ucraina, Sandro Teti editore, Roma 2015; T. Bordachev e A. Skriba, Russia’s Eurasian Integration Policies in D. Cadier (a cura di), The Geopolitics of Eurasian Economic Integration, IDEAS, Londra 2014; R. Dragneva e K. Wolczuk, Eurasian Economic Integration: Law, Policy and Politics, Edward Elgar Publishing, 2013; A. Ferrari, EU – Russia: What Went Wrong?, in Beyond Ukraine. EU and Russia in Search of a New Relation, ISPI, Milano 2015.

[7] Tali sanzioni prevedono il divieto di viaggio nei territori UE e il congelamento dei beni, nonché il divieto per i cittadini e le imprese dell’Unione di mettere fondi a disposizione delle persone in questione.

[8] Tale termine trova una sua configurazione teorica nell’approccio del professor Lucio Caracciolo.

[9] Qui è possibile consultare un approfondimento sul tema dei possibili scenari ed evoluzioni della crisi bielorussa.

[10] Qui un approfondimento.

[11] Qui un approfondimento.

[12] Qui un approfondimento.

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