La morsa politica della Cina all’interno delle Nazioni Unite

La morsa politica della Cina all’interno delle Nazioni Unite

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La diplomazia commerciale cinese tra Africa e ONU

Con la diffusione della COVID-19, le dinamiche geopolitiche che hanno animato la scena politica internazionale degli ultimi decenni hanno preso a manifestarsi in maniera ancor più evidente. La crisi sanitaria scatenata dal nuovo coronavirus, unita alle problematiche da essa scaturite, ha dato un impulso decisivo a una lunga serie di sviluppi che avevano iniziato a dispiegarsi sin dagli albori degli anni Duemila. Una delle questioni più rilevanti concerne il parziale ribaltamento dei ruoli, nel contesto della cooperazione internazionale, tra gli Stati Uniti e la Repubblica Popolare Cinese. Infatti, al progressivo ritiro statunitense dalla scena internazionale – portato avanti con decisione da Donald Trump –, ha fatto da contraltare il marcato protagonismo della superpotenza cinese.

Lo scorso luglio, mentre l’ex presidente degli Stati Uniti ritirava gli USA dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (in quell’occasione, Trump accusò il direttore generale Tedros Adhanom Ghebreyesus di essere troppo indulgente nei confronti del regime cinese in relazione alla gestione della pandemia da COVID-19), Pechino e Mosca pianificavano una campagna vaccinale volta a estendere la propria influenza in Asia, Africa e Sud America. Contestualmente, il presidente Xi Jinping riportava un’importante vittoria al Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU: solo 27 Paesi si opponevano alla legge sulla sicurezza nazionale che era stata approvata da Pechino per ottenere maggior controllo su Hong Kong[1]

In un tale stravolgimento di fenomeni geopolitici, un ruolo di particolare importanza è stato assunto dalle Nazioni Unite: è chiaro, infatti, che l’ONU stia acquisendo sempre maggior rilevanza nello scontro tra la superpotenza cinese e quella statunitense. Come dimostrato dai recenti sviluppi della politica internazionale, ad avere la meglio tra i due principali interpreti del conflitto globale sembrerebbe essere, al momento, la Cina. Da questo punto di vista, l’esito della votazione in seno al Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU ha assunto una valenza simbolica. Il sostegno di ben 53 Paesi al regime cinese, fautore di una restrizione delle libertà nei confronti di Hong Kong (territorio autonomo), ha messo in luce l’influenza di Pechino nel più ampio contesto della cooperazione internazionale.  

Di certo, la pandemia da SARS-Cov-2 non è il solo elemento utile a spiegare il successo della Cina di Xi Jinping. Le ragioni del crescente consenso della Repubblica Popolare Cinese all’interno delle Nazioni Unite hanno origine da due fenomeni antitetici ma paralleli: l’interventismo cinese in politica estera e il progressivo ritiro degli Stati Uniti dalla scena internazionale.

Come detto, si tratta di due tendenze emerse già nella prima decade degli anni Duemila. La Cina, in seguito all’ingresso nell’Organizzazione mondiale del commercio e grazie all’apertura delle frontiere commerciali, ha iniziato a invadere i mercati internazionali con i propri beni e a fornire servizi e infrastrutture a livello globale. Una strategia, questa, che ha permesso alla Repubblica Popolare Cinese di attestarsi come partner commerciale di prim’ordine soprattutto tra i Paesi del Terzo Mondo.

Quanto avvenuto nel continente africano negli ultimi due decenni è un esempio lampante della lungimiranza strategica dei dirigenti del Partito Comunista Cinese: anziché dar vita a reboanti interventi militari, la Cina ha iniziato a insinuarsi silenziosamente all’interno dei più importanti mercati emergenti del pianeta, finendo per diventare il principale fornitore di fondi e di infrastrutture in un continente dalle grandi prospettive come quello africano[2]

A tal proposito, è utile far riferimento alle relazioni commerciali tra il Dragone e uno degli Stati africani più promettenti economicamente: l’Etiopia.
Senza dubbio, il legame tra Cina ed Etiopia esemplifica in maniera paradigmatica l’approccio alla diplomazia di Pechino. La singolarità delle relazioni sino-etiopiche è da ricercare proprio in questo rapporto di reciprocità: ottenendo massicci investimenti finanziari, l’Etiopia offre alla Cina un bacino di possibilità politiche, economiche e istituzionali tali da estendere l’autorevolezza del Partito Comunista Cinese all’intero continente africano.

Negli ultimi anni, grazie al suo straordinario sviluppo economico, Addis Abeba è divenuta la vera capitale diplomatica dell’Africa, e ciò offre alle delegazioni della Repubblica Popolare Cinese la possibilità di intrecciare relazioni con i principali leader africani e di estendere la propria influenza ben oltre il Corno d’Africa. Un esempio paradigmatico è costituito dal quartier generale dell’Unione Africana a Addis Abeba: un immenso edificio futuristico, sede della più importante organizzazione internazionale africana, interamente costruito dalla Cina.

La crescita dei Paesi in via di sviluppo è il dato più importante da tenere in considerazione quando si parla delle relazioni sino-etiopiche. Per i Paesi occidentali, una nazione come l’Etiopia appare come uno Stato beneficiario di aiuti e nulla più; la Cina, al contrario, per mezzo degli investimenti, mira a fare del Paese un importante alleato per le proprie strategie egemoniche globali.

A conferma di ciò, è utile far riferimento al ruolo geopolitico giocato da Addis Abeba nella regione sub-sahariana. In primis, l’Etiopia intrattiene solide relazioni diplomatiche con la Repubblica del Somaliland (regione autonoma sprovvista di riconoscimento ufficiale), interprete di un ruolo geopolitico di grande spessore in virtù del controllo esercitato sugli oltre 740 km di costa lungo il golfo di Aden. Per Addis Abeba, il porto di Berbera rappresenta un espediente fondamentale per affrancarsi da Gibuti (Stato che controlla il litorale occidentale del golfo)[3].

L’Etiopia è, inoltre, una delle nazioni maggiormente coinvolte nel processo di stabilizzazione del Sud Sudan, il cui consolidamento federale è regolarmente minacciato dalla recrudescenza della guerra civile. La presenza di giacimenti di petrolio all’interno dei confini sud-sudanesi rappresenta, per uno Stato privo di sbocchi marittimi e povero di materie prime quale l’Etiopia, un’irrinunciabile opportunità di rifornimento energetico[4].

Non bisogna dimenticare le mire infrastrutturali di Addis Abeba sul Nilo Azzurro. Sulle acque del gigantesco fiume, che genera l’80% delle risorse idriche che affluiscono in Sudan e in Egitto, l’Etiopia detiene un controllo pressoché totale. Addis Abeba mira a sfruttare tale risorsa per accreditarsi come principale fornitore energetico della regione. I lavori per la costruzione di dighe idroelettriche sono iniziati da tempo e la Cina è stata coinvolta in molti di questi progetti; per avere un’idea della portata degli investimenti, basti pensare che la più grande tra queste dighe – la Grand Ethiopian Renaissance Dam – diventerà la più imponente diga africana e la settima a livello globale[5].

In un contesto geopolitico di questo tipo, le relazioni commerciali tra Pechino e Addis Abeba non sorprendono: l’alleanza sino-etiopica garantisce al Dragone uno sbocco marittimo sul golfo di Aden, una posizione di rilievo nel processo di raffinazione del petrolio in Sud Sudan e la fornitura di infrastrutture dalla forte valenza geopolitica; l’Etiopia, d’altro canto, trova negli investimenti cinesi l’opportunità di consolidare la propria influenza politico-economica in tutta l’Africa subsahariana, oltre a una partnership commerciale di grande spessore internazionale.

Soprattutto, il consolidamento della forza politica di Addis Abeba nella regione del Corno d’Africa garantirebbe alla Cina un alleato fondamentale per rafforzare la propria egemonia mercantile nel continente africano, specialmente dopo il lancio, nel 2013, della Belt and Road Initiative. Per la Repubblica Popolare Cinese, quindi, il Corno d’Africa rappresenta una porta d’accesso al continente africano nonché una via privilegiata verso la Penisola Arabica. A conferma degli interessi cinesi nella regione, intervengono i dati riguardanti il volume degli scambi commerciali tra Pechino e i suoi partner africani: 215,91 miliardi di dollari nel solo 2014, grazie ai quali la Cina si è imposta come primo partner commerciale d’Africa[6].

Non può sconcertare, allora, quanto avvenuto in seno alle Nazioni Unite, dove, tra il 2015 e il 2019, si è verificato un massiccio aumento delle sovvenzioni all’Etiopia da parte della Repubblica Popolare Cinese, per un totale di 44.306.737 dollari. Si tratta di un incremento di tutto rispetto per un Paese che, tra il 2005 e il 2015, aveva donato quasi la metà dei fondi (23.613.814 dollari).

A sottolineare la relazione speciale tra la Cina e l’Etiopia è l’incremento dei finanziamenti all’OMS da parte del Dragone, erogati tra il 2017 e il 2020, vale a dire sotto la presidenza dell’etiope Tedros Adhanom Ghebreyesus. Lo Statement of Account del 31 gennaio 2020 della Repubblica Popolare Cinese riporta che, nel 2016, i finanziamenti di Pechino all’OMS ammontavano a 11.957.160 dollari; tra il 2017 e il 2019 le donazioni oscillavano tra i 18.396.984 e i 18.948.900 dollari; nel 2020 hanno toccato il tetto massimo di 28.719.905 dollari. Nulla in confronto ai 400 milioni di dollari versati nel 2019 dagli Stati Uniti, che, prima della sospensione dei finanziamenti da parte di Trump, avevano regolarmente contribuito al 15% del bilancio dell’OMS, presentandosi come i principali finanziatori dell’organizzazione.

In ogni caso, l’aumento dei finanziamenti cinesi all’OMS durante la presidenza di Tedros Adhanom Ghebreyesus è un elemento che lascerebbe supporre una certa solidità nei rapporti tra Pechino e Addis Abeba, anche nell’ambito delle Nazioni Unite. È bene sottolineare che questo fatto non darebbe alcuna fondatezza alle accuse rivolte da Trump al direttore generale dell’OMS circa i suoi presunti legami con il Partito Comunista Cinese, ma evidenzierebbe, invece, come la politica estera cinese passi soprattutto attraverso la fornitura di beni e servizi.


L’influenza cinese nelle agenzie specializzate delle Nazioni Unite

L’OMS non è l’unica organizzazione internazionale dell’ONU in cui la Cina ha accresciuto la propria influenza: nel 2019, infatti, la direzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO) è passata proprio alla Repubblica Popolare Cinese, dopo un testa a testa con l’Unione Europea. Grazie alla vittoria dell’ex viceministro dell’Agricoltura Qu Dongyu, il governo cinese è riuscito a raggiungere i vertici di una delle più importanti agenzie specializzate dell’ONU e a imporsi come nuova guida delle politiche agricolo-alimentari a livello globale.

Uno scatto dell’incontro del 1 Febbraio 2020 tra il direttore generale della FAO Qu Dongyu ed il Presidente dell’Argentina Alberto Fernandez
Fonte: Casa Rosada (Argentina Presidency of the Nation)/Wikimedia Commons (fotografia di Esteban Collazo)

Non appena eletto, l’attuale presidente della FAO ha sottolineato l’eccezionalità della propria vittoria – è infatti il primo cinese a ricoprire tale carica. Inoltre, Qu Dongyu ha manifestato la volontà di coinvolgere maggiormente il settore privato nelle attività dell’organizzazione, sia per quanto riguarda i processi decisionali sia per quanto riguarda quelli strettamente finanziari. L’ex viceministro dell’Agricoltura è arrivato anche a ipotizzare una collaborazione con aziende del calibro di Alibaba e fondazioni come la Bill Gates Foundation (molto coinvolta nelle attività di alcune organizzazioni delle Nazioni Unite)[7].

Al di là di ciò, la vittoria di Qu Dongyu è apparsa fin da subito molto significativa in virtù dell’importanza assegnata all’agricoltura dal regime cinese, dal momento che gran parte della popolazione (circa un miliardo e mezzo di abitanti) è impiegata tuttora nel settore agricolo. Inoltre, oggigiorno, l’agricoltura rappresenta uno dei settori chiave per rendere la Cina una nazione leader nel campo dell’ecologia e della sostenibilità ambientale nei decenni a venire. Tuttavia, il successo di Qu Dongyu ha rappresentato, più di qualsiasi altra cosa, l’ulteriore conferma della volontà di Pechino di ampliare il consenso della Repubblica Popolare Cinese in tutti gli ambiti della cooperazione internazionale[8]

Ancora più strategica, però, è apparsa la vittoria di Zhao Houlin come nuovo segretario generale dell’Unione Internazionale delle Telecomunicazioni (ITU): dopo il primo mandato nel 2014, l’ex ministro delle Poste e delle Telecomunicazioni è stato eletto una seconda volta a capo dell’ITU nel 2018, in una fase particolarmente importante per il destino delle telecomunicazioni. Zhao, infatti, si è fatto portavoce di Pechino nella promozione della “società cinese Huawei come distributore dei sistemi per il 5G in tutto il mondo”[9].

Durante la presidenza dell’ex ministro cinese, Huawei ha sottoposto all’attenzione dell’Unione Internazionale delle Telecomunicazioni il progetto per l’implementazione del 5G, la nuova frontiera di internet; si tratta di un programma concordato assieme alle autorità cinesi del Ministero dell’Industria e della Tecnologia dell’informazione (MIIT) e alle aziende statali China Unicom e China Telecom.

La proposta, appoggiata da Russia e Arabia Saudita, ha sollevato aspre critiche in area occidentale, specialmente tra le delegazioni di Stati Uniti, Regno Unito e Svezia, convinte, queste ultime, che assegnare lo sviluppo di internet a un’azienda cinese potrebbe permettere a Pechino di occupare un ruolo cruciale nel settore delle telecomunicazioni[10], ambito in cui la Cina sta investendo ingenti quantità di denaro, come dimostrano i lavori per la creazione di infrastrutture digitali – da essa finanziati – nel continente africano.

Com’è noto, la risposta statunitense alle proposte cinesi si è tradotta in un bando, introdotto dall’amministrazione Trump, volto a interrompere i rapporti commerciali con tutte le aziende considerate una minaccia per la sicurezza nazionale. L’amministrazione Trump riteneva, infatti, che aziende come Huawei operassero uno spionaggio per conto del governo cinese e che, quindi, rappresentassero un pericolo per i cittadini statunitensi[11].

La decisione di Trump non ha avuto grosse ripercussioni solo per Huawei, ma ha coinvolto anche Google, una delle più importanti aziende tecnologiche del pianeta: la multinazionale americana, infatti, è stata costretta a sospendere la collaborazione con Huawei in relazione all’approvvigionamento del software per smartphone Android (di proprietà di Google e installato sulla maggior parte dei dispositivi presenti sul mercato, tra cui quelli dell’azienda cinese)[12]. Tale questione esemplifica al meglio le tensioni tra Oriente e Occidente dal punto di vista commerciale e diplomatico e certifica, soprattutto, le ambizioni geopolitiche della Cina.

Alla luce di quanto detto finora, appare chiaro che le organizzazioni internazionali dell’universo ONU rappresentino, per la Cina, un mezzo tramite il quale estendere la propria influenza e legittimare i propri piani egemonici su scala globale. Ad oggi, Pechino governa quattro delle quindici agenzie specializzate delle Nazioni Unite, risultando il Paese con il numero più alto di funzionari con incarichi apicali. Oltre all’ITU e alla FAO, la Cina controlla anche l’Organizzazione Internazionale dell’Aviazione Civile e l’Organizzazione delle Nazioni Unite per lo Sviluppo Industriale. Quest’ultima, in particolar modo, ha giocato un ruolo chiave nel momento in cui la Cina ha presentato al mondo intero il progetto della Belt and Road Initiative, tramite la quale il Partito Comunista Cinese mira a implementare servizi e infrastrutture in Asia, Africa ed Europa, al fine di espandere ulteriormente la propria influenza geopolitica[13]. Risulta lampante, allora, come la Cina abbia intravisto nelle Nazioni Unite un contesto strategico per l’estensione della propria influenza geopolitica.

“Il Segretario Generale dell’Unione Internazionale delle telecomunicazioni Houlin Zhao insieme al Direttore Generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, dott. Tedros Adhanom Ghebreyesus, in un evento organizzato dalla UN Broadband Commission nel 2017.
Fonte: ITU Pictures/Flickr (fotografia di M. Jacobson-Gonzalez) 


Il protagonismo cinese come conseguenza del ritiro internazionale degli Stati Uniti

Come anticipato, sarebbe impossibile scindere l’interventismo cinese dal progressivo ritiro degli Stati Uniti dagli affari mondiali. Si tratta di un processo iniziato durante l’amministrazione Obama, in seguito al fallimento degli interventi militari in Afghanistan e in Iraq e alla crisi del 2008, ed esacerbato durante la presidenza di Trump (fautore, quest’ultimo, di un ritorno a quell’isolazionismo che aveva caratterizzato gran parte della storia politica americana fino alla fine della Seconda guerra mondiale). La nazione che per settantacinque anni si è fatta garante degli equilibri globali, negli ultimi anni ha intrapreso un processo di disimpegno sempre più evidente e dalle conseguenze ben visibili.

Il ritiro dall’Organizzazione Mondiale della Sanità in piena pandemia di COVID-19 è un chiaro esempio di quanto gli Stati Uniti stiano faticando a tenere ben salde le redini del mondo. Benché si sia trattato, per lo più, di una strategia messa in atto da Trump per accrescere le possibilità di essere rieletto alle presidenziali dello scorso novembre, il divorzio deciso dal tycoon ha aperto un ulteriore spazio, in ambito internazionale, per la Cina di Xi Jinping. Un fatto, questo, confermato dal peso di Pechino all’interno delle Nazioni Unite e dal successo della Repubblica Popolare nella corsa al vaccino per il nuovo coronavirus.

Ma il disimpegno degli Stati Uniti è apparso, forse, maggiormente palese in occasione del ritiro di Washington dagli Accordi di Parigi sul clima: nel novembre del 2019, Trump ha trasformato in realtà la promessa fatta ai suoi elettori, presentando i documenti per l’uscita dall’accordo. La decisione dell’ex presidente degli Stati Uniti ha fatto sorgere un serio problema di leadership di cui, però, sembra aver approfittato la Cina. È chiaro che Pechino si stia accreditando sempre più come leader nel settore delle energie rinnovabili, prevedendo “investimenti per 15.000 miliardi di dollari al fine di abbandonare il carbone nella produzione energetica entro il 2050 […]. In tal modo sarebbe possibile […] raggiungere il target dell’80% dei consumi energetici del Paese da fonti elettriche”[14]. Con un’Unione Europea che fatica a trovare una vera sinergia politica e alle prese con una crisi economica apparentemente senza fine, la Cina ha saputo ritagliarsi un ruolo da protagonista in ambito geopolitico senza grossi impedimenti.

Di certo, la fine dell’esperienza di Trump alla Casa Bianca e l’avvento di Joe Biden permettono all’Occidente di tirare un sospiro di sollievo: il neoeletto presidente degli Stati Uniti ha già dimostrato, infatti, di avere le idee molto chiare per quanto concerne il ruolo internazionale dell’America, con il ritorno di Washington come custode dell’ordine democratico internazionale, un ruolo con cui ricostruire i legami diplomatici intessuti in sette decadi di storia diplomatica. In questo senso, il rientro negli Accordi di Parigi sul clima dello scorso febbraio rappresenta una totale inversione di tendenza rispetto alla presidenza di Trump[15].

Quanto alle Nazioni Unite, lo scorso gennaio Biden ha annunciato il rientro degli Stati Uniti all’interno dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Secondo il presidente americano, Washington è chiamata a farsi portavoce della lotta alla COVID-19, poiché la strategia più efficace per portare a termine la campagna vaccinale passa anche attraverso l’impegno internazionale americano[16]. L’Europa, com’era immaginabile, ha accolto con entusiasmo il ritorno degli Stati Uniti nell’OMS. Resta da vedere quali strategie metterà in atto Biden per riportare l’Occidente al centro della cooperazione internazionale. Da questo punto di vista, è ipotizzabile che, nei prossimi anni, l’ONU possa rappresentare un importante terreno di scontro per la governance globale. Ecco perché è molto probabile che le sale del Palazzo di Vetro a New York saranno animate dallo scontro tra la superpotenza cinese e quella statunitense come mai in precedenza.

Alessandro Lugli per www.policlic.it



Note e riferimenti bibliografici

[1] È la fine di Hong Kong?, in “il Post”, 1 luglio 2020.

[2] G. Pompili, La campagna d’Africa, in “Il Foglio”, 7 febbraio 2019.

[3] B.J. Cannon e A. Rossiter, Ethiopia, Berbera Port and the Shifting Balance of Power in the Horn of Africa, in “Rising Powers Quarterly”, II (2017), 4, pp. 9-12.

[4] F. Okech, Ethiopia Wants to Pivot Oil Purchases to South Sudan From Middle East, in “Bloomberg”, 30 ottobre 2019.

[5] S. Acquaviva, La complessa partita sulla Diga del Rinascimento Etiope, Centro Studi Internazionali, 27 dicembre 2019.

[6] G. Pompili., op. cit.

[7] A. Barolini, Chi è Qu Dongyu, il nuovo direttore generale della Fao, in “LifeGate”, 1 luglio 2019.

[8] Ibidem.

[9] La Cina si sta prendendo l’ONU, in “il Post”, 1 ottobre 2020.

[10] A. Gross e M. Murgia, China and Huawei propose reinvention of the internet, in “Financial Times”, 27 marzo 2020.

[11] Il caso Huawei – Android, spiegato, in “il Post”, 21 maggio 2019.

[12] Ibidem.

[13] K. Lee, It’s Not Just the WHO: How China Is Moving on the Whole U.N., in “Politico”, 15 aprile 2020.

[14] A. Gili, Così Pechino punta alla leadership sul clima, ISPI, 30 ottobre 2020.

[15] Gli Usa rientrano negli accordi di Parigi, in “la Repubblica”, 19 febbraio 2021.

[16] C. Morales, Biden restores ties with the World Health Organization that were cut by Trump, in “The New York Times”, 20 gennaio 2021.

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