Siamo esseri che apprendono in movimento

Siamo esseri che apprendono in movimento

Questo articolo è estratto dalla rivista Policlic n. 1 pubblicata il 27 maggio.

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In una intervista del 1988[1] il filosofo Gilles Deleuze ragiona di arte connessa a territorio e deterritorializzazione (Melville la chiamò, con un significato “vicino”, outlandish), e lo fa considerando dapprima il comportamento in natura delle zecche, animali che si muovono in base a soli tre fattori: luce, odore e tatto. La riflessione del filosofo abbraccia poi più genericamente tutti gli animali, che chiama “la specie in agguato”:

Ci sono anche animali senza territorio, ma quelli con un territorio sono prodigiosi. Costituire un territorio per me è quasi la nascita dell’arte. […] Ci sono animali che riconoscono i propri congiunti, li riconoscono nel proprio territorio, non fuori. […] Mi dico che ‘il territorio mi interessa in relazione al movimento con il quale se ne esce’[2].

Gli ultimi due enunciati non possono lasciarci, in questo momento specifico, del tutto indifferenti: Deleuze fa cenno a “congiunti” e a una “uscita” dal territorio, concetti che abbiamo “imparato” a gestire in questi ultimi mesi di lockdown planetario.

C’è un altro filosofo, il primo filosofo, che quasi desidera farsi insetto, insetto pungente, nello specifico un “tafano”[3]: Socrate.

Eccolo percorrere i viali che circondano il ginnasio, sostare alle tavole dei cambiavalute, dirigersi verso il mercato, discutere con un rinomato uomo politico, fermarsi ancora con un paio di fabbri e conciapelli, e poi proseguire instancabile. Che cosa vorrà mai ottenere con quella smania di domandare?[4]

Si osservi come il camminare di Socrate si associ al suo domandare: cos’è domandare, o almeno, cos’è etimologicamente? È de-mandare, è movimento, perché mandare significa “dare in mano”, dunque consegnare: consegnare una richiesta. Nell’Atene del V secolo a.C., Socrate è un personaggio bizzarro: cammina in lungo e in largo per la città, chiede e resta in silenzio, smonta credenze e non offre alternative “percorribili”, rimane fermo in un punto a pensare per ore: con lui e con i suoi movimenti e arresti nasce la filosofia. Secondo Alcibiade, Socrate è atopòteros, ovvero strano, fuori del normale: dunque la sua “atopia” è stranezza, o meglio eccentricità, perché più propriamente indica una sorta di fuga dal centro, un uomo capace di insegnare perché capace di uscire fuori. Come afferma la filosofa Donatella Di Cesare, “La sua atopia è un’eterotopia. Non è semplicemente un fuori-luogo, ma anche l’allusione a un luogo altro”[5].
Tirando molto la molla dell’interpretazione, potremmo dire che Socrate “inventa” non soltanto la filosofia, ma anche il “virtuale”, una realtà virtuale, quella in cui entra quando si concentra su un pensiero e vi rimane impigliato impassibile per un tempo imprecisato. Socrate sceglie quando fermarsi dal movimento. Forzo questo accostamento perché questo tempo di pandemia e lockdown non ha atopia – il luogo è unico e costretto – ma potremmo dirlo di pantopia – ogni luogo è tutti i luoghi e tutti i luoghi sono un unico luogo.

Il problema reale del virtuale è che in questo momento è l’unica possibilità di reale: non è una scelta di ampliamento, ma una riduzione del reale (qualcuno già la chiama diminished reality). Da (mcluhaniano) apologeta delle possibilità offerte dalle tecnologie elettriche, noto questa disfunzione, ad esempio, nella didattica a distanza offerta come unica alternativa all’impossibilità di recarsi fisicamente in una scuola o, più semplicemente, in un luogo – specie se chiuso – in cui ritrovarsi con altre persone. La differenza con un qualsiasi altro luogo di “assembramento” risiede nel fatto che, proprio come nelle passeggiate socratiche, quelli imputati sono spazi votati al sapere (anche non sapere era ed è un sapere). Come si impara nella didattica a distanza? Cosa si apprende durante una lezione in streaming? La fatica di apprendere in video come unica scelta possibile l’ho sperimentata su me stesso: mi collego, disattivo prima il microfono, poi mi annoio, tolgo la telecamera sul mio viso, ho necessità di alzarmi dalla sedia, distendere le braccia, faccio qualche esercizio fisico, mentre prolungo la fatica di attendere, fare attenzione, ascoltare. Ma non mi concentro e sono disperato; in questa modalità v’è poca possibilità di dialogo, se non sul finale. I docenti “sforano” sempre oltre le ore stabilite, l’assenza di spazialità accresce la sensazione di un tempo indefinito a disposizione.

La questione più preoccupante è sentire inutile tutto questo: ma non sono le stesse lezioni che seguivo così appassionatamente all’università? Forse il problema risiede proprio nel fatto che sono esattamente le stesse, e dunque la “realtà” è la sua rappresentazione. Al contempo so che è una opportunità straordinaria: posso seguire, ad esempio, alcune lezioni dell’Università di Toronto senza aver bisogno di percorrere chilometri e ore. Ma io dovrei ampliare la mia formazione proprio recandomi lì, a Toronto, non posso sostituire questa esperienza seguendo in streaming le stesse lezioni che avrei seguito in presenza, vedendo su uno schermo le stesse persone che avrei incontrato sul posto. Inizio a ragionare sull’andare, sul de-mandare, sul prendere, sull’apprendere.

Per chiudere questo articolo sto impiegando quasi un mese: circa trenta giorni per elaborare una riflessione sulla differenza tra “imparare” e “apprendere”. Perché sento fortissima una sola sensazione: posso stare imparando, anzi, sto certamente imparando, ma non sto apprendendo assolutamente niente di nuovo, o almeno la fatica è enorme. Sono spaventato, come un animale che non è uscito mai dalla tana e quindi, per riprendere Deleuze, non so stare in agguato: là fuori mi divoreranno perché non ho appreso come si fa a stare in agguato. La soppressione dello spazio, ma in particolare del movimento, mi ha reso un essere fermo e inerme, che adesso non sa come muoversi. Posso fare solo una cosa: riconoscere il movimento, posso riconoscerne la sua portata rivoluzionaria (di rivoluzione attorno a) e pedagogica. Siamo una luna, un satellite rimasto fermo nel suo moto originario e mostriamo la faccia che sinora non s’era rivelata, ma col rischio di collassare. Perché non ho appreso niente se non ho mai avuto così tanto tempo a mia disposizione? Perché non riesco a fare quelle cose, tra cui scrivere un articolo, di cui prima lamentavo proprio la mancanza di tempo? Ho una sola risposta: ho conosciuto più cose apprendendo che imparando.

Imparare è “preparare”, apprendere è “afferrare”. Parare significa infatti riparare, e pararsi ripararsi: in questo senso è vicino alla particella greca parà, ma ancor più alla latina par, cioè pari, uguale a qualcuno. Per questo motivo sostengo l’ipotesi per cui imparare è anche mettersi alla pari. A scuola ci viene chiesto di imparare, ma anche sul luogo di lavoro, ci viene cioè domandato di metterci allo stesso livello degli altri: raggiunto questo stadio, siamo “in pari”, il compito è stato svolto. Stando all’etimologia greca, “parare” si avvicina anche al parein greco che implica un passare, e da cui derivano sia i termini “porta” che “parete”: certamente più vicino ci appare “parete” (ma si potrebbe discutere anche se la porta, in questo caso, sia un elemento che apre oppure chiude), e rappresenta un ulteriore indizio grazie al quale costruisco la mia tesi sulla “immobilità fisica” dell’atto di imparare. Imparare non presuppone alcun movimento, alcun movimento fisico, se si esclude – naturalmente – il movimento intellettuale. Apprendere (come comprendere, ma si tratta di una più complessa distinzione), al contrario, è evidentemente legato a uno spostamento: per prendere qualcosa, un oggetto, finanche un “oggetto” del sapere, un oggetto del desiderio, dobbiamo alzarci, muoverci per afferrarlo, magari anche prima che lo faccia un altro prima di noi, o semplicemente perché sta lontano. Si pensi anche all’utilizzo di “prendere” riferito ai mezzi pubblici: non li agguantiamo davvero con le mani, ma certamente il movimento è doppio, nostro per salirci e del mezzo per trasportarci da un luogo all’altro.

Una parziale conferma di questa distinzione giunge da John Dewey, filosofo e pedagogista statunitense del secolo scorso tra i più influenti. In un’opera recentemente pubblicata, ma che racchiude alcuni suoi primi scritti, Come pensiamo (Raffaello Cortina, 2018), Dewey sostiene che “Noi possiamo arrivare a vedere, percepire, riconoscere, afferrare, abbracciare, possedere princìpi, leggi, verità astratte – ossia a capire in maniera immediata i loro significati. Il nostro progresso intellettuale consiste, come si è detto, in un ritmo di intendimento diretto – tecnicamente, di ap-prensione – alternato con un intendimento indiretto, mediato – tecnicamente, di com-prensione”[6]. Ritmo di intendimento diretto: è da sottolineare come “apprensione” sia usato in luogo di apprendimento e in conformità al termine comprensione, conservando pertanto l’ambiguità di una tensione, quello “stare in agguato” degli animali cui faceva cenno Deleuze. Dewey aggiunge: “Dove vi è sviluppo, vi è movimento, mutamento, processo; e vi è quindi una ordinata disposizione dei cambiamenti di un ciclo. La prima cosa fa sorgere il pensiero, la seconda lo organizza”[7]. Dove vi è movimento, vi è mutamento, vi è sviluppo.

Anche osservare, da questo punto di “vista”, implica in sé il movimento: significa “custodire”. Quando osserviamo qualche cosa, ne custodiamo una immagine nella memoria; alcuni fatti si “stampano”, si salvano nella nostra memoria più a lungo di altri perché diamo loro una importanza, una rilevanza. Quando abbiamo osservato qualcosa, decidiamo cosa “servare”, cosa serbare, e ce ne prendiamo cura: ne osserviamo il rispetto. Ma che cosa occorre custodire, e soprattutto da che cosa c’è bisogno di proteggerla? Dai terremoti degli spostamenti, dagli smottamenti (anche di significato: dobbiamo custodire il significato originario di una parola che inevitabilmente subisce spostamenti di senso). Custodiamo i nostri oggetti preziosi perché sappiamo di spostarci e, dunque, c’è il rischio rimangano incustoditi, vulnerabili al desiderio altrui. Se fossimo costretti a “vivere” per sempre in un unico spazio (la casa, per dire il luogo di questo tempo “sospeso”), non ci sarebbe motivo di serbare alcuni oggetti, preziosi – i soldi ad esempio – dalla possibilità che ci vengano sottratti. Possiamo essere derubati soltanto quando non ci siamo, senza movimento la nostra attenzione cala.

Ci si continua a ripetere e a chiedere, in questo momento storico: cosa avremo imparato dalla pandemia? Niente e molto. Niente nel senso che diamo comunemente a imparare, ma molto secondo la definizione che ho provato a illustrare in precedenza: ci saremo “soltanto” messi in pari con la natura, con la sua terribile e inestinguibile richiesta di morte. E allo stesso modo, dunque, non avremo appreso niente, perché non si può apprendere senza muoversi, quando la libertà di movimento è soppressa, e con essa lo spostamento, lo sguardo, il mutamento, l’apprensione. E il rischio che avverto è che la limitazione della libertà di movimento si tramuti nella libertà di non movimento; ovvero il rischio che molti diranno, anche dopo la costrizione fisica in un dato luogo, “non ho bisogno di uscire: posso fare palestra senza muovermi”, oppure “non mi serve uscire per andare all’università, resto a casa e sto su Teams”. È assurdo come chi preferisce “muoversi” su un tapis roulant quando esistono condizioni perfette per correre fuori, lontano dal nastro elettrico: fondamentalisti della corsa senza movimento, senza fondamento. Un tapis roulant è un esempio di augmented reality, di “realtà aumentata”, in quanto aumenta le possibilità del reale (correre anche in uno spazio ridotto, ma soprattutto indipendentemente dalle condizioni naturali), e ci offre anche l’opportunità di riflettere sul fatto che non sostituisce del tutto il movimento, ma lo emula, lo comprime: non è, insomma, una realtà altra. Per questo motivo il digitale non è una realtà indipendente dal reale, ma un “aumento” di realtà: ciò implica che senza realtà non avrebbe potuto svilupparsi, non avrebbe un modello per farlo, come costruire manichini senza una idea di uomo.

Secondo Tomas Maldonado, il virtuale è un insieme di “tecniche di modellazione della realtà” e lo studioso si chiede da anni se sia davvero in atto una “ineluttabile dematerializzazione della realtà”[8]. Cos’è il virtuale? Complicato dare una definizione. Ci basti conoscerne, anche in questo caso, l’etimologia dal latino (medievale) virtualis che rimanda alla virtus, alla forza, alla potenza: il virtuale come realtà in potenza, una progenie della realtà che scalcia per aprirsi nuovi varchi. Di fronte alla paventata de-realizzazione, de-materializzazione del reale, Maldonado sostiene che non c’è

scampo al vincolo della fisicità. Si possono creare, come dimostrano ampiamente gli ultimi sviluppi dell’informatica, filtri e diaframmi che, a livello percettivo, sono in grado di allontanarci dall’esperienza diretta della fisicità. Ciò nonostante, è irragionevole congetturare, come qualcuno si azzarda a fare oggi, che gli uomini, nel loro vivere di ogni giorno, potrebbero alla lunga sbarazzarsi definitivamente della elementare e persino, si dice, troppo rozza e ingenua esigenza di voler sempre e comunque toccare con mano le cose di questo mondo. In verità, manca ogni parvenza di prova che ciò effettivamente possa avvenire[9].

Parliamo moltissimo di “realtà virtuale”, dove dunque “virtuale” è una qualificazione del reale, e già ci troviamo di fronte a un concetto ridondante: il virtuale è dunque reale. Ancora secondo Maldonado, “è discutibile, per esempio, definire immateriale il software. A ben guardare, il software è una tecnologia, ossia uno strumento cognitivo che, in modo diretto o indiretto, contribuisce, a conti fatti, a mutamenti senza dubbio di natura materiale”[10]. Mutamenti e dunque, deweyanamente e pedagogicamente, movimenti.

Citando il filosofo Emanuele Coccia, “essere vivi e rimanere vivi significa andare costantemente alla deriva”[11]: il luogo che abitiamo e che chiamiamo “terraferma” è tutto tranne che fermo, dunque tocca a noi, alla nostra volontà, alla nostra scelta essere atopici, fermarci necessariamente illudendo noi stessi di non muoverci ma permettendo al nostro corpo di essere sempre in un altrove, e dunque di appendere. Se imparare è quasi un dato biologico, una necessità connaturata al nostro stare al mondo, apprendere è un desiderio, desiderio di spaesamento per approdi fino a poco prima solo immaginati. Lo scorso 15 maggio, in un articolo pubblicato sul “Times Literary Supplement” dal titolo My therapy animal and me. Identity and companionship in isolation[12] la scrittrice americana Joyce Carol Oates si chiede, ci chiede: “Siamo reali in questo estraniamento?”. Lei che, nel 1984, ha pubblicato il libro Figli randagi[13] in cui ha scritto: “Il posto da cui sei venuto non esiste più e quello in cui avevi intenzione di andare si è annientato”. Sarà tanto complicato tornare ad apprendere, tornare a prendere, riprendersi, quanto irrimediabilmente reale.

Simone di Biasio per Policlic.it


Note 

[1] Cfr. Abecedario, Derive e approdi, Roma 1996.

[2] Ibidem

[3] Cfr. Platone, Menone, 80a; Simposio, 217e, 218b; Apologia, 30e.

[4] D. Di Cesare, Sulla vocazione politica della filosofia, Bollati Boringhieri, Torino 2018, p. 31.

[5] Ivi, p. 34.

[6] J. Dewey, Come pensiamo, Raffaello Cortina, Milano, 2019, pp. 134-135.

[7] Ivi, p. 242.

[8] T. Maldonado, Reale e virtuale, Feltrinelli, Milano 1992, p.  9.

[9] Ivi, p. 12.

[10] Ivi, p. 13.

[11] Cfr. conferenza di Emanuele Coccia al Teatro Franco Parenti, Milano, 4 ottobre 2018.

[12] J. C. Oates, My therapy animal and me. Identity and companionship in isolation, TLS, 15 maggio 2020.

[13] Joyce Carol Oates, Figli Randagi, Edizioni E/O, Roma 1999.

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