Civiltà è infelicità?

Civiltà è infelicità?

Marcuse, Freud e il disagio della civiltà

Espresso in termini filosofici dal concetto di ragione e in termini psichici dall’Iol’istanza di mediazione tra le pulsioni interne dell’uomo, guidate dal principio di piacere, e le esigenze che su di esse insistono dall’esterno, imposte dal principio di realtà – quello della negazione è l’unico elemento che può ergersi a istanza critica e consentire una mediazione tra il Sé e l’altro-da-sé, permettendo all’uomo la comprensione e l’appropriazione della realtà e della sua verità ai fini di una vita autentica, effettivamente scelta, all’insegna della vera felicità. L’autenticità dell’esistenza si rivela tale se essa è mezzo per la realizzazione dell’essenza dell’uomo; contrariamente, è un’esistenza alienata se la sua essenza è mero strumento per la sola esistenza fisica. In una realtà reificante e alienante, l’essenza per una vita autentica può emergere solo come negazione di quella stessa falsa fatticità.

Far emergere l’elemento di verità che oltrepassi ogni sensibile situazione fattuale è il filo conduttore delle analisi realizzate da Herbert Marcuse lungo l’intero corso della sua produzione intellettuale. Il fine: catturare quelle verità che rispetto alla miseria dei rapporti esistenti esprimono negazione, rifiuto, in quanto garanzia della possibilità di un mutamento delle condizioni cui la società capitalistica sottopone l’uomo. Negazione rispetto a una dimensione sociale in cui l’uomo è ridotto a cosa, perché subordinato a esigenze altre rispetto a quelle sue proprie: al denaro, all’efficienza, alla produzione di beni e al loro acquisto, da cui trae una soddisfazione che Marcuse definisce repressiva. Negazione rispetto a una realtà profondamente antagonistica che pervade ogni aspetto del vivere sociale, rivelandosi distruttiva di ogni autentico rapporto umano perché dominata da una logica che percepisce, considera e vive l’altro come concorrente, avversario, rivale e potenziale nemico. Negazione rispetto a un ordine sociale in cui la felicità è relegata a evento accidentale, occasionale, che sfugge all’autonomia dell’individuo, alla sua ragione e al suo controllo. Sebbene, dunque, l’organizzazione del “mondo occidentale” abbia la presunzione di definirsi razionale, di identificare l’uomo civile con la libertà e il suo fine con la felicità, si tratta di una condizione che è ben distante dal poter essere definita tale.

In particolare, la felicità, in quanto concetto elaborato dalla ragione, non può essere il risultato di una involontaria e casuale concordanza tra realtà esterna, estranea al controllo autonomo del soggetto, e una favorevole disposizione interna dell’individuo. Lungi dall’essere una condizione soggettiva e relativa, è il carattere universale della razionalità dell’uomo, della sua rivendicazione di libertà, a individuare il bene supremo nella felicità, ponendo l’esigenza, in modo quasi sovversivo, che non questo o quello, ma che tutti siano razionali, liberi, felici. Condizione della felicità è, dunque, che essa sia guidata dalla ragione, così come condizione della ragione è che essa sia finalizzata alla felicità. [1]

Questa non può dunque ridursi né al semplice piacere sensibile nella soddisfazione di un bisogno, né alla propria realizzazione in una dimensione meramente spirituale. Affinché sia felicità è necessaria la conoscenza della verità; è richiesto cioè che gli uomini sappiano che cosa possono conseguire come suprema possibilità della loro esistenza, sappiano qual è il loro vero interesse alla luce delle possibilità storicamente determinate. Così, l’esigenza della teoria critica – essa stessa frutto della ragione – di realizzare una condizione sociale in cui autonomia e universalità siano realizzate, ha condotto la ricerca di Marcuse a indagare sui limiti posti alla libertà dell’uomo e all’espressione della sua autonomia. L’attenzione doveva rivolgersi sull’autorità e sul rapporto che intercorre tra il singolo e il sistema di dominio in cui, e di cui, esso vive. A tal fine, essenziale si è rivelato il contributo della psicanalisi freudiana che, attraverso le indagini sui processi di interiorizzazione delle esigenze provenienti dal principio di realtà, ha svelato i processi di modificazione psichica dell’individuo e i meccanismi di perpetuazione del sistema sociale.

Le analisi sui processi di formazione psichica nella relazione tra individuo e società di cui esso è parte sono affrontate alla luce dell’elaborazione dei concetti di surplus di repressione e di principio di prestazione, frutto, come vedremo, della storicizzazione e limitazione del concetto freudiano del principio di realtà.  La strada percorsa da Marcuse ha condotto alla confutazione dell’esito freudiano della necessaria e naturale incompatibilità tra felicità e civiltà, svelando l’impostazione ideologica della psicanalisi attraverso una storicizzazione delle sue intuizioni. Ma ha anche manifestato, come sarà dimostrato in un prossimo approfondimento, le drammatiche conseguenze sulle capacità critiche dell’individuo che, soggetto ad una società sempre più integrata e dominata da processi di socializzazione extrafamiliari dotate di proprie oggettive regole, sviluppa il proprio Io non più in contrapposizione alla realtà di riferimento, in una condizione che stimola la costituzione critica della propria distinta personalità, ma in completa mimesi rispetto ad essa.


La formula del disagio

L’analisi marcusiana sul rapporto tra psicanalisi e politica è l’inevitabile risultato di un percorso filosofico finalizzato alla definizione ontologica della possibilità di una rivoluzione sociale che ponga l’uomo e la sua felicità come causa, mezzo e fine di una nuova organizzazione razionale dell’esistenza umana.

La sua costante ricerca del rapporto tra rivoluzione e felicità lo avrebbe condotto al confronto con la teoria emersa dall’ultimo Freud, che ne Il disagio della civiltà[2] era giunto alla pessimistica conclusione che il progresso della civiltà è pagato al prezzo ineludibile di una repressione degli istinti umani così radicale da provocare nevrosi e imporre il sacrificio della felicità individuale. La definizione di un simile contrasto tra individuo e società, tra felicità e civiltà, non poteva non interessare Marcuse che proiettò la sua attenzione sul rapporto che lega la psicanalisi – l’analisi delle dinamiche psichiche che governano l’individuo e delle loro relazioni con i processi di socializzazione che coinvolgono la dimensione del profondo dell’uomo – alla politica – intesa come organizzazione della socialità, dell’autorità, del dominio e dunque, necessariamente, della repressione.

La tesi fondamentale sostenuta da Freud stabilisce che affinché l’uomo possa dirsi tale, e passare dallo stato di natura che lo trattiene in una condizione di bestia a quello della cultura, deve rinunciare all’obiettivo primario della soddisfazione integrale e immediata dei bisogni, sottoponendo il principio di piacere al dominio del principio di realtà. È la rinuncia a un piacere momentaneo, incerto e potenzialmente distruttivo in favore della soddisfazione di un piacere soggetto a costrizioni, differito e sublimato, ma sicuro, compatibile con la conservazione della vita e la duratura associazione umana. In questo modo il principio di realtà salvaguarda e modifica anziché detronizzare e negare il principio di piacere. Affinché l’uomo possa quindi intraprendere il cammino della civilizzazione e abbandonare lo stato di natura hobbesiano è necessario che (sia a livello filogenetico che ontogenetico) il passo si compia: la neutralizzazione del principio di piacere attraverso il dominio del principio di realtà. In questo senso, se essere felici vuol dire ottenere soddisfazione dei propri impulsi libidinali e dare voce alle proprie pulsioni più intime e particolari, allora l’uomo è condannato all’infelicità.

La condanna che Marcuse rivolge a Freud riguarda l’eccessiva naturalizzazione di questo passaggio. La sua idea è che non esista un principio di realtà dato in assoluto, ma che quello dominante dipenda dal contesto storico-sociale esistente. Con l’opera che maggiormente lo rese celebre, Eros e civiltà. Un’indagine filosofica su Freud[3], pubblicato nel 1955, Marcuse si propone di dimostrare che le conclusioni di Freud nascondono una generalizzazione – a ogni forma possibile di società e di civiltà – di quella repressione degli impulsi istintuali, in primo luogo della sessualità, che in realtà è cifra specifica della civiltà occidentale e delle sue istituzioni societarie, autoritarie e di classe, quali sono venute storicamente determinandosi. Si chiede, dunque, se la trasformazione in senso repressivo della struttura istintuale dell’uomo sia conseguenza necessaria dell’insanabile e inconciliabile conflitto tra principio di piacere e principio di realtà, o se questo sia piuttosto specifica conseguenza di una determinata organizzazione storica dell’esistenza umana e sia quindi prospettabile l’idea “di una civiltà non repressiva, basata su un’esperienza dell’essere fondamentalmente diversa, su un rapporto fondamentalmente diverso tra uomo e natura, e  su relazioni esistenziali fondamentalmente diverse”[4]. L’analisi marcusiana, condotta con “categorie psicologiche, poiché [queste] sono diventate categorie politiche”, è finalizzata dunque a “sviluppare la sostanza politica e sociologica delle nozioni psicologiche”[5] freudiane.


Storicità del principio di realtà

Smentire le conclusioni freudiane attraverso lo sviluppo degli stessi principi psicanalitici è il tentativo portato avanti da Marcuse: spingersi oltre Freud tramite Freud, poiché la sua stessa teoria offre “argomenti per non accettare la sua equiparazione di civiltà e repressione”[6].

La cifra specifica della civiltà occidentale, la sua nascita e la sua sopravvivenza nella repressione della libido e nel sacrificio del principio del piacere sull’altare del principio della realtà, è stata correttamente individuata da Freud, il quale però non ne ha rilevato il carattere storicamente determinato, valido, cioè, esclusivamente per la società a lui contemporanea.

Ciò che Freud sembra non riconoscere nella sua ricostruzione è che alle restrizioni istintuali fondamentali causate dalla penuria, ossia dal fatto economico della povertà di risorse per la soddisfazione dei bisogni umani che richiedono dunque continue limitazioni, rinunce e differimenti, si sommano le restrizioni istintuali imposte dalla “organizzazione specifica della penuria e dall’atteggiamento esistenziale specifico imposto da questa organizzazione”[7], ossia dalla “distribuzione gerarchica” della penuria e del lavoro. All’interno del principio di realtà descritto da Freud, e da lui riconosciuto con la forza di un processo biologico, operano, per la sola necessità di mantenere e consolidare la particolare struttura gerarchica, quelle che Marcuse definisce quantità addizionali di repressione. Così, dalla repressione fondamentale, ossia la repressione minima degli istinti necessaria affinché sia possibile un vivere civile e sia garantita “la perpetuazione della razza umana nella civiltà”, si distingue, nell’attuale stadio di evoluzione sociale, una repressione addizionale, ovverosia tutta una serie di “restrizioni rese necessarie dal potere sociale, o dal dominio sociale”[8]. Non si può parlare di un generale e astratto dominio per indicare ogni forma di amministrazione delle funzioni e degli ordinamenti necessari al progresso sociale. Si devono introdurre invece criteri di gradualità e proporzionalità, che variano al variare delle modalità di organizzazione del dominio stesso. Tutto dipende, quindi, dal grado di sviluppo della civiltà, dal suo grado di evoluzione materiale, intellettuale e spirituale: una stessa quantità di repressione istintuale può rappresentare un grado più elevato di repressione se la civiltà si trova in una fase più matura, ossia a un livello in cui potrebbe realmente consentire una considerevole liberazione dell’energia istintuale strappata all’Eros (il principio di piacere o di vita) e spesa per la sottoposizione al dominio e al lavoro spiacevole (la forma nella quale viene funzionalizzata l’energia libidica umana).

La repressione fondamentale è quindi quel grado di repressione che non mette in discussione il primato del principio del piacere ma, anzi, è funzionale al suo appagamento, e pertanto la sua portata non è più di quella richiesta dalle esigenze della vita in comune. La repressione addizionale, al contrario, è funzionale alla perpetuazione del dominio, comporta il sacrificio sistematico del principio di piacere ed è richiesta in dosi massicce, in una dimensione di gran lunga superiore a quella sufficiente per l’appagamento e la soddisfazione del principio di piacere – se rapportato alle capacità materiali, intellettuali e spirituali della società e alle sue concrete possibilità storiche.

Marcuse sostiene che dunque vi sia, sì, una necessaria identità tra civiltà –  qualunque essa sia, qualsiasi grado di sviluppo essa abbia raggiunto – e una qualche forma di autorità, ma che non sia possibile parlare di dominio, così come di civiltà, in senso generale e astratto. Esistono solo forme storico-sociali, e non biologico-naturali, del principio di realtà – e quindi di dominio, nella misura in cui il principio di realtà domina il principio di piacere – che di volta in volta, a seconda delle modalità di organizzazione della penuria e delle finalità implicite o esplicite della organizzazione stessa, producono forme di repressione diverse per portata e intensità.


Il principio di prestazione della società occidentale

Il principio di realtà della società occidentale caratterizzato da questo surplus di repressione è, quindi, non un generale e astratto principio di realtà, ma una sua specifica forma in cui “la società si stratifica in base alle prestazioni economiche dei suoi membri”[9], secondo quello che Marcuse definisce principio di prestazione. In virtù di un principio di realtà connotato dal carattere della prestazione, della performance, e dominata dal principio dello sfruttamento, si chiede agli uomini asserviti al lavoro il massimo dell’efficienza produttiva, e quindi il massimo dispendio delle energie psicofisiche nella sostanziale indifferenza di fronte alle richieste di felicità, piacere e soddisfazione individuale, il cui raggiungimento è evento secondario o collaterale.

In una simile realtà, il principio del piacere viene detronizzato non solo perché rappresenta una minaccia per il progresso della civiltà e per la riproduzione dell’umanità, ma anche perché “milita contro una civiltà il cui progresso perpetua il dominio e la fatica del lavoro”[10].

Condizionato da un principio della realtà che ha come fondamento la prestazione economica e il suo efficientamento, il lavoro diventa dunque il contenuto della vita. Così, l’uomo svolge la propria attività parte di un tutto che è fuori dal suo controllo e dalla sua comprensione, e a cui è sottomesso in misura crescente all’aumentare della specializzazione del lavoro: le sofferenze psicologiche hanno sostituito quelle fisiche.

Perciò, “gli uomini non vivono liberamente la loro vita, ma eseguono funzioni prestabilite; mentre lavorano, non soddisfano propri bisogni e proprie facoltà, ma lavorano in uno stato di alienazione”[11], come mere appendici degli strumenti che utilizzano o delle funzioni che svolgono. Che essi siano attivi e operosi o meno, che abbiano o meno un alto grado di iniziativa, spontaneità e personalità, si tratta di prestazioni interamente adattate al funzionamento dell’apparato, scandite e coordinate in base alle sue necessità.

La giustificazione primaria di una tale razionalizzazione del dominio si riferisce al Lebensnot, la penuria, la scarsezza delle risorse, come condizione determinante, che sottende una dimensione ontologica fondata sulla struttura dell’essere umano che non può mai lasciarsi-accadere immediatamente nella sua pienezza perché deve, in maniera duratura e permanente, autoriprodursi, farsi da sé[12].  Ma è sufficiente limitarsi a una valutazione sulla finitezza delle risorse senza considerare l’organizzazione del loro sfruttamento, del loro utilizzo e della loro distribuzione?


L’autorepressione del principio di piacere

Sebbene Freud nei suoi numerosi scritti abbia manifestato scetticismo rispetto a una soluzione della tensione tra civiltà e felicità, non possono essere trascurate l’espressione del suo favore a una simile eventualità e la sua preoccupazione circa il destino di una civiltà la cui riproduzione è fondata su una continua e crescente repressione degli istinti. Quest’ultima, infatti, se da un lato crea le possibilità di una soddisfazione vera grazie al progresso della tecnica, frutto di una trasformazione dell’energia libidica in energia per il lavoro spiacevole, dall’altro deve negarla. Ma la negazione e l’impedimento di un soddisfacimento libidico producono, contro ciò che turba il soddisfacimento, aggressività, che viene autonomamente repressa dall’intervento del Super-io, l’istanza psichica che perpetua l’ordine dell’autorità esterna assumendo su di sé l’impulso aggressivo, in origine rivolto verso l’esterno. Per questa via aumenta la sua aggressività verso l’Io, generando senso di colpa e dando seguito alle istanze esterne[13]. Il dominio si riproduce, così, nella dimensione più profonda della psiche individuale: “la lotta contro la libertà si riproduce nella psiche dell’uomo come autorepressione dell’individuo represso, e la sua autorepressione a sua volta sostiene il padrone e le sue istituzioni”[14].

È questo il modo, secondo Marcuse, attraverso cui “l’individuo riproduce la negazione culturale del principio di piacere, la rinuncia e il pathos del lavoro” e così “la legislazione sociale diventa la legislazione propria dell’individuo […] la necessaria illibertà gli si presenta come frutto della sua autonomia e dunque come libertà”[15].

Per Freud, l’illibertà è parte integrante della libertà dell’individuo civile, che altrimenti ricadrebbe nella condizione della bestia. È una illibertà che considera non solo necessaria ma anche razionale, affinché l’uomo possa ascendere dalla natura alla cultura attraverso il controllo delle proprie indisciplinate pulsioni. Infatti, siccome “il programma impostoci dal principio del piacere, e cioè di essere felici, non può essere adempiuto”[16], la trasformazione repressiva degli istinti “diventa il fondamento psicologico di un triplice dominio[17]: dominio su se stessi, sui propri istinti e la propria natura; dominio sul prodotto del proprio lavoro; dominio sulla natura esterna sotto forma di scienza e tecnica. Dominio indispensabile affinché si possa godere di una triplice libertà: libertà morale (la libertà dalla mera necessità della soddisfazione pulsionale); libertà politica (libertà dall’arbitrarietà della violenza e dall’anarchia della lotta per l’esistenza); libertà intellettuale (libertà dalle condizioni di pericolo cui la natura sottopone l’uomo, che interviene mediante l’utilizzo della ragione)[18]. Una triplice libertà caratterizzata però da una comune “sostanza psichica”: l’illibertà, “il dominio sui propri istinti che, attraverso la società fatta natura, perpetua le istituzioni del dominio”[19]. Si tratta di una condizione che impone la rinuncia dell’autonomia – del pensiero, del volere, dell’agire – e la subordinazione della propria ragione e della propria volontà a contenuti eteronomi, cosicché questi valgano come norme vincolanti per l’autonoma ragione e volontà.

Di conseguenza, il passaggio dal mondo della necessità a quello della libertà è inteso come trasformazione della costrizione da fisica a morale. Ma può l’individuo essere insieme persona libera e non libera, autonoma ed eteronoma? L’oggetto della costrizione rimane lo stesso, a meno che “non si creda che l’essere della persona possa essere ripartito, distribuito in sfere diverse”[20]. La costrizione, che sia o meno morale, ha come obiettivo sempre l’uomo in quanto parte del mondo sensibile, e si manifesta attraverso le norme di comportamento sociali e le istituzioni di cui esso è sia prodotto che produttore: “dalla famiglia alla fabbrica, all’esercito, esse circondano l’individuo come efficienti incarnazioni del principio della realtà. Su questo duplice fondamento [tanto idealistico-filosofico, quanto psicologico] si dispiega la libertà politica: strappata con sanguinose battaglie e insurrezioni all’assolutismo, essa viene instaurata, consolidata e placata nell’autodisciplina e nell’autorinuncia degli individui [i quali] hanno imparato che la loro inalienabile libertà è sottoposta a doveri, dei quali la repressione degli istinti non è il minore. Costrizione morale e fisica hanno come denominatore comune il dominio, che costituisce la razionalità generale dello sviluppo civile” [21], e che produce i suoi effetti nella realtà, nella sua dimensione quanto più concreta possibile.

Il godimento delle libertà morali, politiche e intellettuali, e il controllo a tal fine imposto dall’autorità sull’individuo, appare paradossale se si prosegue la riflessione freudiana sul necessario aumento del senso di colpa e la conseguente perdita di felicità dell’individuo come costo necessario del progresso della civiltà che, al fine della conservazione della struttura istintuale richiesta, quanto più potente e produttivo diventa il suo apparato per la soddisfazione dei bisogni sociali tanti più sacrifici deve imporre agli individui.

Per Marcuse l’irrazionalità del dominio organizzato della civiltà occidentale risulta evidente: “quanto più vicina è la possibilità reale di liberare l’individuo dalle costrizioni giustificate a suo tempo dalla penuria e dall’immaturità, tanto più grande diventa il bisogno di mantenere e di organizzare razionalmente queste costrizioni per evitare che l’ordine del potere istituito si dissolva. La civiltà deve difendersi contro lo spettro di un mondo che potrebbe essere libero.”[22] E ancora: “La penuria, la lotta per l’esistenza, la povertà e la debolezza, alla luce delle capacità tecniche raggiunte dall’attuale grado di sviluppo sociale, non giustifica più gran parte della fatica, della rinuncia, del controllo imposti agli uomini”[23].

La vita, in virtù di queste trasformazioni che consentono la sopravvivenza e l’autoconservazione dell’ordine sociale, viene dunque sperimentata come lotta con se stessi e con l’ambiente, viene sofferta e conquistata. La sostanza della vita, lungi dall’essere il piacere, si materializza nel lavoro spiacevole ma socialmente utile alla perpetuazione di questo circulus vitiosus del progresso: “la felicità è riposo, premio, accidente, attimo, e non meta dell’esistenza”[24].


Conclusioni

La realtà, e ciò che in essa è dato, non dipende solo da una condizione di natura ma anche dal potere che l’uomo ha acquisito su di essa.

Freud si abbandona con rassegnazione all’esito delle sue considerazioni. Non offre alcuna soluzione all’inevitabilità del conflitto tra civiltà e felicità, un conflitto perenne che condanna l’individuo a opprimenti sacrifici. Viene riconosciuta la sua necessità come fatto naturale, e con lo stesso movimento con cui si rileva la forza repressiva della civiltà – e l’incompatibilità di questa con la libertà e la felicità individuale – la si giustifica naturalizzando una condizione che è però definita dalla sua storicità.

Nella prospettiva di Marcuse, la ricezione della psicanalisi freudiana era finalizzata a riconsiderare quegli aspetti filosofici trascurati dagli eredi della psicanalisi terapeutica ma che hanno una rilevanza non indifferente anche per l’analisi delle tendenze moderne della società. Risulta evidente che, per Marcuse, Freud non solo è parte essenziale della scienza politica moderna, ma di questa scienza ne condivide anche il punto di vista borghese.

La sua critica al modello freudiano, e quella ancor più aspra rivolta contro il revisionismo neofreudiano[25], si inserisce nella più ampia battaglia condotta contro il positivismo delle scienze sociali. La condanna all’atteggiamento scientifico che considera la propria prospettiva oggettiva e le proprie considerazioni neutrali. Un approccio al mondo che tende ad atomizzare i fatti e a considerarli come esistenti per sé, dotati di una propria logica. Come se il significato di un oggetto lo si potesse rilevare attraverso un’analisi che lo estrapoli dall’insieme di relazioni vitali di cui è parte e che gli dà senso.

Così, la posizione di Freud, lungi dall’essere oggettiva e neutrale, maschera un’impostazione ideologica le cui radici affondano nella mentalità borghese. Ne sono chiari esempi la considerazione generale e astratta del principio di realtà e del dominio, nell’analisi del rapporto tra questo e principio di piacere, e la pacifica assimilazione del concetto idealistico di libertà.

La più grave condanna è rivolta però ai “revisionisti neofreudiani” guidati dall’esigenza di scindere gli aspetti filosofico-speculativi da quelli tecnico-psicoterapici della dottrina psicanalitica. Nella decisione di fare della psicanalisi uno strumento terapeutico che rientrasse nei parametri definiti dalla scienza positivista, si è proceduti sulla strada della distruzione e dell’annullamento delle premesse stesse di principio e di metodo della rivoluzione psicanalitica, che proprio da quelle opere più speculative ricevono un chiarimento essenziale. E dunque, il tentativo di attribuire una scientificità obiettiva alla psicanalisi, attraverso il respingimento dell’analisi metapsicologica che ne sta a fondamento, nel liquidare Freud come pensatore, ha svalutato la sua stessa scientificità e favorito contemporaneamente, sotto la copertura delle astratte leggi dell’inconscio, ogni possibile mistificazione e giustificazione dei rapporti sociali, prestandosi, oltretutto, a essere legata a ideologie e utilizzazioni politiche.[26]

Nelle conclusioni di Marcuse, la naturalizzazione e generalizzazione di una condizione frutto invece di un processo storico-sociale, insieme all’esigenza positivista di impedire qualsiasi incursione di natura filosofica, da un lato ha favorito lo sviluppo di un approccio terapico che tradendo il suo presupposto teorico si orientata al sostegno dell’ordine esistente, accettato acriticamente; dall’altro ha legittimato il peculiare carattere fondato sulla prestazione del principio di realtà della civiltà occidentale: il risultato è un crescente miglioramento della funzione repressiva, merito di un progresso guidato dallo sviluppo della razionalizzazione tecnica del domino.

Vincenzo Martucci per Policlic.it


Note bibliografiche

[1] Per un approfondimento sull’idea di ragione come negazione e sul legame che insiste tra questa, il concetto di libertà e di felicità, si vedano in particolare i saggi: La lotta contro il liberalismo nella concezione totalitaria dello Stato (1934); Sul carattere affermativo della cultura (1937); Filosofia e teoria critica (1937); Per la critica dell’edonismo (1938); in H. Marcuse, Cultura e società. Saggi di teoria critica 1933-1965, a cura di Carlo Ascheri, Heidi Ascheri Osterlow e Furio Cerutti, Einaudi, Torino, 1969; oltre che H. Marcuse, Ragione e rivoluzione. Hegel e il sorgere della teoria sociale, a cura di A. Izzo, Il Mulino, Bologna, 1974.

[2] In S. Freud, Il disagio della civiltà e altri saggi, Boringhieri, Torino, 1987:

[3] H. Marcuse, Eros e civiltà. Un’indagine filosofica su Freud, a cura di L. Bassi, Giulio Einaudi editore, Torino, 1968.

[4] H. Marcuse, Eros e civiltà, op. cit., p. 52.

[5] Ivi pag. 48.

[6] Ivi, p. 52.

[7] Ivi, pag. 79-80.

[8] Ibidem.

[9] Ivi, p. 83.

[10] R. Laudani, Politica come movimento, Il pensiero di Herbert Marcuse, il Mulino, Bologna, 2005, p. 135.

[11] H. Marcuse, Eros e civiltà, op. cit., p. 88.

[12] H. Marcuse, Sui fondamenti filosofici del concetto di Lavoro, in Cultura e società, Saggi di teoria critica 1933-1965, a cura di Carlo Ascheri, Heidi Ascheri Osterlow e Furio Cerutti, Einaudi, Torino, 1969.

[13] Si veda S. Freud, Il disagio della civiltà, in Il disagio della civiltà e altri saggi, op. cit., p. 273.

[14] H. Marcuse, Eros e civiltà, Op. cit. p. 63.

[15] H. Marcuse, Teoria degli istinti e libertà, in Psicanalisi e politica, op. cit., p. 44.

[16] S. Freud, Il disagio della civiltà, in Il disagio della civiltà e altri saggi, op. cit., p. 219.

[17] H. Marcuse, Teoria degli istinti e libertà, in Psicanalisi e politica, manifestolibri, introduzione di R. Finelli Roma, 2006, p. 47.

[18] Ibidem.

[19] Ibidem.

[20] H. Marcuse, L’autorità e la famiglia, a cura di F. Cerutti e A. M. Solmi, Giulio Einaudi editori, Torino, 1970, p, 22.

[21] H. Marcuse, Teoria degli istinti e libertà, in Psicanalisi e politica, op. cit., p. 46.

[22] H. Marcuse, Eros e civiltà, op. cit., p. 128.

[23] H. Marcuse, Teoria degli istinti e libertà, in Psicanalisi e politica, op. cit., p. 52.

[24] Ivi, p. 44.

[25] Si veda H. Marcuse, Eros e civiltà, op. cit., pp. 249-280

[26] Ivi, p. 51-52.


Bibliografia

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