Cosa significa per noi il morire?

Cosa significa per noi il morire?

Nel nostro vivere quotidiano, la morte rappresenta certamente uno dei fenomeni più misteriosi in assoluto. Un grande punto interrogativo circonda la sua essenza. Noi esseri umani molto spesso viviamo come se non dovessimo morire mai, nella speranza infondata che la morte non sia qualcosa che ci riguardi direttamente. Ma quest’atteggiamento della quotidianità media deve essere superato e, piuttosto, dobbiamo chiederci: cos’è la morte? O meglio, quale atteggiamento assumere nei confronti di essa? La morte deve tornare a essere un problema filosofico. L’uomo deve assumere su di sé il grande peso di una domanda che non può scansare per pura pigrizia o paura.


Un problema filosofico?

Che la morte sia un tutt’uno con l’esistenza è un fatto talmente ovvio che non necessiterebbe neanche di una dimostrazione filosofica. È altrettanto risaputo che durante la storia del pensiero gli uomini si sono interrogati costantemente circa il senso da conferire a tale avvenimento. E le risposte, com’è noto, sono state molteplici, tanto che si potrebbe parlare di differenti modi-di-essere della morte. Lo stesso Socrate ha posto questo problema al centro della sua riflessione e offerto delle risposte divenute famose:

Consideriamo anche da questo lato il fatto che c’è speranza che il morire sia un bene. In effetti, una di queste due cose è il morire: o è come un non essere nulla, e chi è morto non ha più alcuna sensazione di nulla; oppure, stando alle cose che si tramandano, è un mutamento e una migrazione dell’anima da questo luogo che è quaggiù a un altro luogo[1].

La morte è stata da sempre un problema filosofico e, al di là dei significati individuati dai vari filosofi, ciò che rimane oggi è il problema. La domanda sulla morte implica una presa di coscienza da parte dell’individuo, il quale non può sperare di aggirare lo spettro e che pertanto “l’evento” non lo tocchi. L’accadimento della fine dell’esistenza, prima di essere un problema filosofico, è un domandare dell’uomo a se stesso della sua fine e del significato del vivere: non è un qualcosa da cui si può fuggire semplicemente non pensandovi. Nel momento in cui si prende questa scappatoia, il peso di quell’avvenimento inesorabile schiaccerà il singolo. Allora cosa fare? O cosa pensare? C’è qualche certezza cui è possibile aggrapparsi? La filosofia oggi cosa può dire a riguardo? Come può l’uomo sopportare il peso di una inevitabile fine?


La fine delle possibilità

Questo mio articolo è strutturalmente legato al precedente in cui ho affrontato il tema della consapevolezza in Nishitani Keiji. Come dovrebbe essere chiaro arrivati a questo punto, il cuore del problema sta nella domanda e nel domandare come tratto distintivo dell’uomo. Non ha particolarmente senso in questa ricerca riuscire a stabilire cosa il pensiero filosofico sia in grado di dire su ciò che attende l’uomo “dopo” la morte. Tentativi in tal senso sono stati fatti lungo la storia del pensiero filosofico, ma oggigiorno non credo che la filosofia abbia più questo potere. Piuttosto, il fulcro del nostro discorso è la domanda sull’evento della morte e, più precisamente, il nostro rapporto esistenziale con il problema. Un pensatore che ha dedicato ampio spazio al tema in questione è stato Martin Heidegger. Il primo capitolo della seconda sezione di Essere e tempo (Sein und Zeit, 1927) è intitolato La possibilità di essere-un-tutto da parte dell’Esserci e l’essere-per-la-morte. Per Heidegger l’«essere alla fine» «non è qualcosa che non c’è ora ma accadrà in seguito, bensì è una struttura ontologica tipica dell’esistenza»[2]. Non solo pensiamo che la morte “arriverà” in un futuro prossimo o lontano, ma non riflettiamo mai sulla nostra morte e “assistiamo” da spettatori alla fine degli altri: «Noi non sperimentiamo mai in senso genuino il morire degli altri; in realtà non facciamo altro che “assistervi”»[3]. Nel vivere quotidiano siamo immersi nella morte e consideriamo questo evento come il più noto e naturale che ci sia. Eppure, consapevolmente o non, allontaniamo da noi questa idea costantemente, attraverso le occupazioni più bizzarre. L’uomo riesce a fare qualsiasi cosa pur di non pensare alla propria fine. Nelle parole di Heidegger:

Il mondo pubblico dell’essere-assieme quotidiano “conosce” la morte come un evento che accade continuamente, come “caso di morte”. Questo o quel conoscente, vicino o lontano, “muore”. Degli sconosciuti “muoiono”, ogni giorno e ogni ora. La “morte” è considerata un evento intramondano noto a tutti. Come tale essa rimane entro l’ambito di ciò che si incontra ogni giorno e che è caratterizzato dalla non-sorpresa. Il Sì ha già pronta un’interpretazione anche per questo evento. Ciò che si dice a tale proposito, in modo esplicito o per lo più discreto e “sfuggente”, è questo: una volta o l’altra si morirà, ma, per ora, si è ancora vivi […] In un discorso del genere la morte è intesa come qualcosa di indeterminato, che, certo, un giorno o l’altro finirà per accadere, ma che, per intanto, non è ancora presente e quindi non ci minaccia[4].

L’atteggiamento proprio dell’essere umano che considera la morte come “non ancora presente” va trasformato nell’atteggiamento che la considera come già da sempre presente:

L’esserci, in quanto gettato essere-nel-mondo, è già da sempre consegnato alla propria morte. Esistendo per la propria morte, esso muore effettivamente e costantemente fino a quando non sia pervenuto al proprio decesso[5].

E ancora:

[la morte] è la possibilità dell’esserci più propria, incondizionata, certa e come tale indeterminata e insuperabile[6].

La tendenza inautentica potrà essere invertita solo mediante una libera “decisione” dell’uomo, fondata secondo Heidegger su di un criterio immanente all’esistere, la «voce della coscienza»[7]. È inutile precisare che la trattazione della morte in Essere e tempo è molto più complessa ed esigerebbe un approfondimento dettagliato. Considerare la morte come già presente è una rivoluzione interiore alla quale ci richiama anche Nishitani Keiji. Nella sua opera principale, La religione e il nulla, l’autore offre una toccante elaborazione concettuale ed esistenziale della co-appartenenza originaria di vita e morte:

Si può vedere la Ginza [il centro alla moda di Tokyo], in tutta la sua magnificenza, come un campo stepposo. La si può vedere come in una sovrapposizione fotografica—che è, dopo tutto, il suo reale ritratto, dato che la realtà stessa è doppiamente esposta. Tra cento anni non una delle persone che ora camminano per la Ginza sarà ancora in vita, siano giovani o vecchi, uomini o donne […] Un pensiero-lampo, e agli occhi della mente è già oggi attuale quel che lo sarà tra cento anni. Possiamo guardare i viventi camminare sani e vivaci per la Ginza e vedere, in una sovrapposizione, un quadro di morte[8].

La vera visione della realtà consiste in questa sovrapposizione. Allora vita e morte non sono separati, ma due aspetti del medesimo fenomeno.


Memento mori

Riprendiamo le tematiche heideggeriane ora trattate cercando di farle interagire con alcuni contributi che i filosofi della scuola di Kyōto hanno dato al tema della relazione vita/morte. Tanabe Hajime (1885-1962), secondo esponente di spicco della scuola, è autore di un interessantissimo testo intitolato La dialettica della morte (Todesdialektik, 1959), scritto in onore di Heidegger in occasione del 70° compleanno. L’idea principale di Tanabe è la seguente: «in Occidente ha preso il sopravvento un’idea di rimozione della morte che risale ad una concezione dionisiaca, che vede nell’esistenza solo bruta durata»[9]. E l’abbiamo rimossa perché pensare all’impermanenza e alla caducità della nostra esistenza «ci gela il sangue»[10]. Preferiamo non pensarci e trascorrere le giornate trastullandoci con mille affari e occupazioni, correndo e sacrificandoci per ciò che riteniamo essenziale. In termini heideggeriani: smarrendoci negli enti di cui ci prendiamo cura. In un altro saggio sullo stesso tema, intitolato Memento mori, leggiamo:

l’uomo contemporaneo, lungi dall’accettare la consapevolezza della morte, produce sforzi disperati per rimuovere questa idea di minaccia. Pregare Dio di fronte all’incombere della morte è l’ultima cosa cui si pensa e, viceversa, si punta a cancellare l’idea della minaccia. Ad esempio, i nuovi stridenti programmi di intrattenimento radiofonico, le canzoni, i quiz, che vengono spacciati come momento d’evasione, sono l’espressione più evidente del tentativo di rimuovere la morte da ogni minuto della vita. Invece dell’espressione memento mori, per esprimere la condizione dell’uomo contemporaneo, dovremmo dire lasciateci rimuovere l’idea della morte[11].

Ecco la distrazione che rimuove l’idea di una minaccia che incombe sul nostro essere. Certo, Tanabe scriveva in un contesto molto diverso da quello che viviamo noi oggi e, tuttavia, per certi aspetti la sua riflessione è estremamente attuale. A quelle che lui considerava distrazioni e deviazioni rispetto al tema della morte—radio, quiz, canzoni—noi potremmo aggiungerne molte altre. Basti pensare all’utilizzo della televisione e dei social network, veri e propri strumenti di distrazione di massa. Si tratta di un passo, peraltro, enormemente influenzato da Essere e tempo. Heidegger aveva specificato in quest’opera le tre dimensioni ontologiche fondamentali dell’Esserci: il «sentirsi situato» o «tonalità emotiva», il «comprendere» e il «decadimento». Ciò che qui ci interessa maggiormente è la trattazione heideggeriana del decadimento, inteso come modo fondamentale in cui l’uomo si smarrisce negli enti di cui si prende cura[12]. Questa condizione ontologica è descritta attraverso analisi molto famose sulla «chiacchiera», la «curiosità» e l’«equivoco». La tematizzazione della curiosità è ciò che può rappresentare nel nostro caso il fulcro del discorso. Da cosa è caratterizzata la curiosità? Precisamente da «una incapacità di soffermarsi su ciò che si presenta. Essa non cerca quindi nemmeno la calma della contemplazione serena, dominata com’è dalla irrequietezza e dall’eccitazione che la spingono verso costante novità e il cambiamento. In questa agitazione permanente la curiosità cerca di continuo la possibilità della distrazione»[13]. La curiosità fa sì che l’uomo si metta alla ricerca di possibilità sempre nuove e che non riesca a soffermarsi su nessun ente in particolare. In altre parole, egli è distratto e questa distrazione lo conduce progressivamente ad abbracciare una condizione di irrequietezza. Tale condizione è diffusa nella nostra società ultra-tecnologica, nella quale ogni motivo sembra buono per perdere la concentrazione e la consapevolezza del senso delle cose. Un discorso del genere è strutturalmente e naturalmente legato al problema del nichilismo, cioè alla perdita di centro e al venir meno dei valori e delle certezze tradizionali sull’essere e la vita.


La morte: un problema esistenziale? Dalla paura all’angoscia

Domandiamoci, in conclusione dell’articolo, quale significato ha per noi questa esperienza. Prima di tutto, è solo un problema filosofico? Ma non è forse vero che ogni problema filosofico è radicato nella vita e nell’esistenza dell’uomo? Che relazione intercorre tra il modo in cui problematizziamo il reale e il reale stesso? Sono questioni di cruciale importanza e a cui ognuno di noi deve dare la sua risposta, se concordiamo sul fatto che non possiamo semplicemente accontentarci di vivere senza porci domande sull’esistenza. O meglio, sono problematiche che ognuno di noi deve “vivere”, poiché i problemi filosofici hanno una loro esistenza e vanno vissuti sulla propria pelle. Nel caso della morte, ribadiamo ancora una volta che non stiamo parlando di un fatto assolutamente estraneo alla vita, anche se viviamo come se lo fosse. È un problema che ha le sue radici nell’esistenza stessa dell’uomo e che può diventare “filosofico” sulla base del fatto che l’uomo può porsi la domanda sul senso e la verità dell’essere. Il solo pensiero di non-poter-più-essere ci gela il sangue e ci proietta in quel mistero quasi insondabile della fine della nostra vita. Cos’è esattamente che ci spaventa del morire? C’è realmente qualcosa che ci spaventa? Oppure siamo pervasi da un profondo sentimento di angoscia? Lo spaesamento di fronte all’abisso. Abbiamo davanti a noi diverse possibilità e interrogativi. Possiamo dimenticare il problema dedicandoci con spensieratezza alle faccende della vita, al commercio con il mondo? Oppure nel nostro vorticoso roteare nell’abisso dell’insensatezza ha ancora “senso” la domanda sulla nostra fine?

Nel famosissimo testo di Ernst Jünger, Oltre la linea (Über die Linie), scritto in occasione del sessantesimo compleanno di Heidegger (1949), possiamo leggere una interessante affermazione sulla morte, connessa all’impossibilità della mente di giungere ad una rappresentazione del niente: «si può avere esperienza del morire, non della morte»[14]. Il ragionamento di Jünger, fondato sulla descrizione nietzscheana del nichilismo quale espressione di una «svalutazione dei valori», conduce progressivamente il lettore a prendere coscienza di un compito fondamentale: quello di resistere di fronte allo spaesamento e alla consunzione di ogni risorsa tradizionale, facendo perno sulle cosiddette «oasi di libertà» nel deserto del nichilismo (la morte, l’eros, l’arte, l’amicizia). Dalla lettura del testo traspare un atteggiamento ottimista che Heidegger non mancherà di criticare nella sua risposta[15]. Cosa significa poter esperire il morire, ma non la morte? Quale sentimento è legato a tale esperienza? Abbiamo semplicemente “paura” della morte? Ma non è forse vero che la semplice paura non riesce a riassumere la varietà di atteggiamenti che caratterizzano il nostro rapportarci alla fine? Innanzitutto si potrebbe dire, seguendo le riflessioni di Heidegger e applicandole al nostro tema, che abbiamo paura della morte, poiché «noi abbiamo paura sempre di questo o di quell’ente determinato, che in questo o in quel determinato riguardo ci minaccia. La paura di… è sempre anche paura per qualcosa di determinato. E poiché è propria della paura la limitatezza del suo oggetto e del suo motivo, chi ha paura ed è pauroso è prigioniero di ciò in cui si trova»[16]. La possibilità che un giorno non ci saremo più è qualcosa di estremamente determinato, perciò abbiamo paura della morte. Ma è tutto qui? Quando si parla della propria morte, o di quella dei propri cari, non è mai solo la paura a farci «gelare il sangue»; c’è un di più rappresentato dall’angoscia (Angst). Come scrive magistralmente Heidegger, nel caso dell’angoscia ci si sente spaesati in virtù dell’indeterminatezza di ciò di cui e per cui noi ci angosciamo:

[l’angoscia] è attraversata piuttosto da una quiete singolare. Certo, l’angoscia è sempre angoscia di…, ma non di questo o di quello […] Nell’angoscia, noi diciamo, “uno è spaesato”. Ma dinanzi a che cosa v’è lo spaesamento e cosa vuol dire quell’“uno”? Non possiamo dire dinanzi a che cosa uno è spaesato, poiché lo è nell’insieme. Tutte le cose e noi stessi affondiamo in una sorta di indifferenza. Questo, tuttavia, non nel senso che le cose si dileguino, ma nel senso che nel loro allontanarsi come tale le cose si rivolgono a noi. Questo allontanarsi dell’ente nella sua totalità, che nell’angoscia ci assedia, ci opprime. Non rimane nessun sostegno. Nel dileguarsi dell’ente, rimane soltanto e ci soprassale questo “nessuno”. L’angoscia rivela il niente[17].

Seguendo e applicando il ragionamento heideggeriano dovremmo dedurre che, al cospetto della morte, il sentimento più diffuso è certamente la paura; ma, allo stesso tempo, siamo pervasi da una angoscia per tutto ciò che la morte implica: il mistero che tale esperienza porta con sé e il niente che è in agguato. In altre parole, la determinatezza dell’evento (il fatto che esso indiscutibilmente porrà fine alla nostra vita) ci fa provare paura; l’indeterminatezza dello stesso (cioè il mistero che circonda la morte e la nostra incapacità di comprenderla nella sua essenza) ci getta automaticamente nell’angoscia. La consapevolezza da sviluppare deve dunque partire dall’interrogativo attorno alla morte. Se abbiamo la forza di continuare a “vivere” questa domanda essenziale, allora la nostra è una ricerca in cui non sono le risposte rassicuranti a spegnere in noi la sete di conoscenza, ma domande più radicali a permetterci di vivere pienamente la questione di fondo: il senso del nostro essere.

Samir Adhami per Policlic.it


Fonti blibliografiche

[1] Platone, Apologia di Socrate, a cura di Giovanni Reale, Bompiani, Milano 2016, 40C, p. 145.

[2] Costantino Esposito, Introduzione a Heidegger, Il Mulino, Bologna 2017, p. 81.

[3] Martin Heidegger, Essere e tempo, a cura di Franco Volpi, Longanesi, Milano 2011, § 47 L’esperibilità della morte degli altri e la possibilità di cogliere un Esserci intero, p. 287.

[4] Ivi, § 51 L’essere-per-la-morte e la quotidianità dell’Esserci, p. 303.

[5] Ivi, § 52 L’essere-per-la-fine quotidiano e il concetto esistenziale integrale della morte, p. 310.

[6] Ivi, pp. 309-310.

[7] Cfr. Costantino Esposito, Introduzione a Heidegger, p. 82.

[8] Nishitani Keiji, La religione e il nulla, a cura di Carlo Saviani, Chisokudō Publications, Nagoya 2017, p. 99.

[9] Giancarlo Vianello (a cura di), Messaggeri del nulla: La scuola di Kyōto in Europa, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 2006, p. 19.

[10] Ivi, La dialettica della morte, p. 47.

[11] Ivi, Memento mori, pp. 81-82.

[12] Cfr. Costantino Esposito, Introduzione a Heidegger, p. 78.

[13] Martin Heidegger, Essere e tempo, § 36 La curiosità, p. 211.

[14] Ernst Jünger, Martin Heidegger, Oltre la linea, a cura di Franco Volpi, Adelphi, Milano 1989, pp. 59-60.

[15] La risposta di Heidegger avvenne in occasione dei sessant’anni di Jünger (1955) attraverso un testo dal titolo Su «La linea» (Über «Die Linie). Il titolo fu successivamente cambiato da Heidegger in occasione della pubblicazione di Segnavia (1967, 1976), e divenne: La questione dell’essere (Zur Seinsfrage).

[16] Martin Heidegger, Che cos’è metafisica?, in Segnavia, Adelphi, Milano 1987, p. 67.

[17] Ibidem.

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