Eternare

Eternare

Roma tra mitopoiesi, ipotesi fantastiche e fantascienza

In Roma non è eterna (Chiarelettere, 2021), Christian Raimo affronta il tema del rapporto di Roma con la propria identità, la propria storia, il proprio tempo. La Roma di Raimo è sprawl territoriale, ma anche culturale: una galassia di miti, personaggi, suggestioni difficilmente riconducibili a un soggetto unitario. Il quesito su cosa sia Roma, dunque, muove sul filo dello sforzo operato nei secoli per immaginarla e comprenderla; muove però anche dall’istanza pressante di come governarla, su come e quanto approfonditamente la macchina amministrativa possa capire e gestire una città che si presenta – e si autorappresenta – costantemente come “città eterna”. La città è posta come enigma, tanto per chi la vive, quanto per chi è chiamato a darle una direzione, irriducibile, forse fortunatamente, al mero delinearsi di policy e programmi elettorali. Il saggio di Raimo, quindi, non è solo un’opera di decodifica culturale di una città, ma un testo che muove da potenti quesiti politici.

 Il seguente contributo è estratto dal secondo capitolo dell’opera, per gentile concessione dell’autore. Si intitola Eternare.


Una fabbrica di miti

Roma è una città senza passato e senza futuro; dichiarandosi eterna sembra preferire il mito e l’ignoto. Ogni avvenimento che può accadere qui viene issofatto mitizzato. La leggenda di Romolo e Remo può essere la matrice di questa mitopoiesi permanente: dalla fondazione fino a oggi, ai fatti della banda della Magliana o delle bande criminali di Ostia. Non sono mai fatti, ma già miti fai da te. L’ultrà mafioso ammazzato in pieno giorno con una pallottola a bruciapelo il 7 agosto 2019 al parco degli Acquedotti vive sui manifesti di mezza Roma, non è più Fabrizio Piscitelli ma Diabolik”. Prima di lui è capitato a Luciano Liboni, criminale sbandato che per un’estate intera sfugge alla cattura dei carabinieri: è diventato subito il Lupo” sui giornali, poi sulle scritte sui muri, nei manifesti, nelle canzoni, nei film. Romanzo criminale o Suburra sono il prodotto di massa di un’elaborazione che ogni romano sa fare anche da sé.

Roma è un mito continuamente rinnovabile e insieme una fabbrica di miti. Ma quello che accade a tutte le città, secondo Lewis Mumford (La città nella storia), per cui è impossibile dare uno slancio nuovo alla vita urbana senza prima comprendere la natura storica della città, con Roma rischia di trasformarsi in una sorta di incantesimo. Quando qualche anno fa Andrea Giardina e Andre Vauchez scrivono a quattro mani Il mito di Roma, fermano l’analisi a Mussolini, ma ci lasciano le categorie per proseguire per questo e i secoli futuri. Il mito di Roma assimila, omologa, contiene, struttura.

Nel corso dei secoli, si è attinto più o meno generosamente a questa riserva di riferimenti storici e simbolici privilegiando questo o quell’aspetto e, anche all’interno di una stessa epoca, si sono visti a volte gruppi o correnti di pensiero differenti mobilitare il ricordo di Roma al servizio di interessi divergenti, quando non antagonisti, come la ricerca di una unificazione del mondo cristiano sotto l’autorità dell’imperatore o sotto quella del papa fra l’XI e il XIII secolo. Roma, allora, non sarebbe stata altro che una specie di “albergo spagnolo” in cui ognuno trovava solo quello che vi portava, o una maschera di cera il cui naso poteva essere torto in tutte le direzioni? Niente di più inesatto, poiché, dietro queste rivendicazioni contraddittorie o questi ricorsi spesso anacronistici o abusivi all’idea o ai miti di Roma, si ritrovano idee-forza identiche come l’universalità e la maestà del potere, il regno della legge e la massima dell’ordine.1

Roma è tutto e non è tutto. È il potere e l’eccezione del potere, che quello stesso potere legittima. Si può imparare a diffidare dei caratteri eterni di una nazione o di un popolo, e persino dell’ideologia stessa dell’eternità. Ce l’ha suggerito Simone Weil nelle sue riflessioni sulle origini dell’hitlerismo, dando però poi dei Romani una delle descrizioni più vivide che ci resta. Leggiamola:

I Romani hanno saputo manipolare a loro piacimento i sentimenti degli uomini. Solo in questo modo si diventa padroni del mondo. Ogni potere che si accresce suscita attorno a sé sentimenti diversi: se, per scienza o buona sorte, suscita quelli che gli consentono di svilupparsi ulteriormente, andrà lontano. I popoli e gli uomini distribuiti nel territorio sottomesso a Roma hanno provato, come tutti i mortali, di volta in volta timore, collera, indignazione, speranza, tranquillità, torpore, ma in ogni momento sentivano esattamente quanto era utile per Roma, grazie all’arte dei Romani. Per una simile arte occorre un genio speciale, ma anche una brutalità senza limiti, che non ha riguardo per nulla. È impossibile superare i Romani nell’arte della perfidia. La perfidia ha due inconvenienti: suscita l’indignazione e successivamente impedisce di essere creduti. I Romani hanno saputo evitarli entrambi, perché erano perfidi solamente quando potevano a tale prezzo annientare le loro vittime. Così a nessuno era consentito di accusare la loro malafede. D’altra parte, gli spettatori erano sconvolti dal terrore e così come il terrore rende l’anima credula, la perfidia dei Romani faceva accrescere la tendenza a credere in loro: si crede volontariamente a ciò che vivamente si desidera essere vero.2

Roma non solo sembra eterna, ma pare possedere il potere di eternizzare ciò che tocca. Su a chi spetti quest’eternità c’è un antagonismo millenario. Virgilio nell’Eneide metteva in bocca a Giove la profezia per Venere, madre di Enea, promettendole come compenso alle sofferenze un impero senza fine;3 gli rispondeva sant’Agostino nel Civitate Dei che quella verace perennità, quel dominio senza fine potrà essere determinato solo da una conversione.4

Poi c’hanno provato un po’ tutti, da chi nel Medioevo riscopriva le mirabilia,5 a Cola di Rienzo a Ciceruacchio, al Risorgimento, alla Repubblica romana, fino a Mussolini, e adesso noi, epigoni degli epigoni, con i nostri ultimi miti da cronaca nera da farci una fiction per Sky e piazzare le facce degli attori sugli accendini.

Il mito di Roma ha fatto sì che parliamo di questa città sempre in termini retrospettivi. Dire Roma vuol dire voltare lo sguardo all’indietro, come Orfeo quando si volta a spiare Euridice, incantato dalla memoria della sua bellezza, con il risultato di farla risprofondare negli inferi. Cos’e che cerchiamo in Roma? Qual è il desiderio che leghiamo a questo incanto fatale?


Ipotesi fantastiche

Freud nel 1929:

Facciamo l’ipotesi fantastica che Roma non sia un abitato umano, ma un’entità psichica dal passato similmente lungo e ricco, una entità in cui nulla di ciò che un tempo ha acquistato esistenza è scomparso, in cui accanto alla più recente fase di sviluppo continuano a sussistere tutte le fasi precedenti. Roma diventa così una delle più celebri metafore della stratificazione della psiche. L’eternità della sua anima acquista un senso diverso.6

Se paragoniamo – come fa Freud stesso – lo psicanalista a un archeologo dell’anima, possiamo immaginare che le rovine siano la psiche e provare a sprofondare in noi stessi come se andassimo a caccia di reperti. La psicanalisi, del resto, è sempre ricerca di un passato, di un’arche, e questo fa assomigliare il nostro sguardo sulla città a quello dell’introspezione: l’identità si forma risalendo passo passo a un’origine che diventa destino.

Ma è possibile in fondo scorrere la metafora nell’altro verso e applicare a Roma, alla città eterna, la proiezione della nostra anima; anche Henry James in Ritratto di signora paragona Roma alla coscienza. Ecco che possiamo pensare alla città come a un corpo psichico, attraversarla, tentare di comprenderla, scriverne come si può fare di una biografia interiore.

La voce “Roma” dell’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert recita:

Risulta dal calcolo che Roma è sei volte meno popolata di Parigi e sette volte meno di Londra. […] Non ha marina, non manifatture, né traffici. I palazzi tanto vantati non sono tutti ugualmente belli perché tenuti male; la maggior parte delle abitazioni private è miserabile. Il selciato è cattivo, le strade sudicie e strette e non sono spazzate se non dalla pioggia. La città, formicolante di chiese e di conventi, è quasi deserta a oriente e a mezzogiorno. Si dia pure un cerchio di dodici miglia alle sue mura, questo cerchio è riempito da campi e da orti. Ebbe ragione chi disse che i sette colli, una volta ornamento della città, oggi non le servono che per tomba!

L’autore sembra avercela con le stesse spoglie della città, e chiedere un redde rationem. Ma Roma si rivolta contro qualunque volontà di sparizione, di damnatio memoriae.

Anche rovinosa, Roma è splendente, no? Roma città vestigia. Sembra che ci sia un’idea, questa sì atemporale, secondo cui Roma è un’urbe distrutta, demolita, guasta, un sinonimo di un catalogo di rovine.

“L’Arco Gotico”, opera di Giovanni Battista Piranesi (1800/1809 circa). L’opera, parte della Collezione Rosenwald, è esposta alla National Gallery of Art di Washington D.C.
Fonte: National Gallery of Art/Wikimedia Commons (opera di pubblico dominio, licenza CC0 1.0)

Siamo nel Settecento quando l’incisore Giovanni Battista Piranesi, del resto, la interpreta così e influenza secoli di immaginario, da De Chirico a Sironi a Fritz Lang a Escher: l’effetto Piranesi. Nelle vedute di Roma di Piranesi sembra cristallizzarsi una matrice per cui il sublime sta nelle rovine, nella significatività delle rovine che trasfigurano il passato creando un’estetica transtemporale. È impressionante come il cuore scuro di Roma, attraverso Piranesi ed Escher possa arrivare fino alla città di Christopher Nolan.

Ed è paradossale come nella mitizzazione della stratificazione della città, della città che resta, compiuta da Piranesi, emergano, quasi da soli, sia un’idea di gotico sia un immaginario retrofuturistico, steampunk ante litteram, comunque fantascientifico, da cui non a caso Nolan attinge.

Con Piranesi le rovine di Roma si staccano dalla filologia, ed è per questo, per questo scavo e rielaborazione psichica, che Piranesi può essere una buona lente per studiare Roma, per capire come sia entrata nell’immaginario e come l’immaginario stesso poi abbia restituito l’impatto alla città.

Scrive Andrea Minuz:

Luoghi piranesiani celebri sono le fantasie urbane del cinema, la città di Metropolis, quella di Blade Runner, quella di Matrix. Le analogie emergono ancora meglio se guardiamo alle foto di scena, ai set, agli storyboard […]. Il discorso sui luoghi piranesiani del cinema ci conduce inevitabilmente a Gotham City, e quindi alla visione distopica delle metropoli americane. Contemplando la drammaturgia visiva delle rovine, Gotham City sembra assai più vicina alla Roma di Piranesi che alle metropoli americane.7

Ha ragione Minuz ad affermare che Nolan rilegge il noir come Piranesi rilegge l’architettura romana, perché entrambi manipolano un genere codificatissimo per farne una macchina poetica.

Del resto, quale storia può avere una città eterna? I claustrofobici, minacciosi racconti e film ispirati da Piranesi, se ci pensiamo, hanno tutti la caratteristica di esistere in un tempo irreale, spesso ricorsivo, escheriano appunto, in loop. Roma è eterna come l’eterno ritorno, refrattaria all’idea stessa di modernità. Il saggio capitale di Italo Insolera, Roma moderna, non si può leggere forse più che come un testo di storia urbana, come un auspicio politico, un’utopia irrealizzata? Valerio Mattioli scrive in Remoria:

E come sbagliava Insolera, da urbanista illuminista qual era, a imputare a Roma crimini che di Roma non sono! Avrebbe potuto cominciare, lui che da torinese osservava allibito quanto la periferia romana stesse disfacendo lo stesso concetto di urbe”, a cogliere nelle forme dell’ex città eterna i segni di un unicum in cui l’aggettivo eterno diventa sinonimo di non-tempo.8

Quindi il futuro?

Nel 1998 uscì un album intitolato Aliens in Roma: era una raccolta di pezzi di elettronica, trip hop di gruppi che sarebbero stati dimenticati. Il suono della contemporaneità di fine millennio precipitando a Roma diventava subito retrofuturistico, che è l’altro modo che noi mortali abbiamo per dire eterno. I Recycle(d) remixavano una poesia performativa di Remo Remotti, Mamma Roma addio.

Me ne andavo da quella Roma dei pizzicaroli, dei portieri, dei casini, delle approssimazioni, degli imbrogli, degli appuntamenti ai quali non si arriva mai puntuali, dei pagamenti che non vengono effettuati, quella Roma degli uffici postali e dell’anagrafe, quella Roma dei funzionari dei ministeri, degli impiegati, dei bancari, quella Roma dove le domande erano sempre già chiuse, dove ci voleva una raccomandazione… Me ne andavo da quella Roma dei pisciatoi, dei vespasiani, delle fontanelle, degli ex voto, della Circolare Destra, della Circolare Sinistra, del Vaticano, delle mille chiese, delle cattedrali fuori le mura, dentro le mura, quella Roma delle suore, dei frati, dei preti, dei gatti…

La Roma di Remotti è un lungo accumulo immutabile, una grande madre junghiana da cui si può solo scappare: la storia non esiste, il presente si sovrappone al passato, la possibilità di svezzarsi non si dà.


Fantascienza romana

Roma, la città retroflessa, ipnotizzata dal suo mito, succube di sé, di un passato di cui abusa per continuare a presentarsi in società come uno sfondo-museo, quale fantascienza può permettersi? Quale immaginario non retrofilo può innervare la sua narrazione?

Ipotizzate di dover fare un lavoro di comunicazione, istituzionale, informale, alternativo, sull’immagine della città: quanto sarebbe problematico emanciparvi dal prendere il Colosseo o la Lupa come emblemi, se sembra un azzardo persino usare il Gazometro o l’Auditorium!

Oggi sarebbe inconcepibile visitare città come Los Angeles senza speculare sui racconti di Philip K. Dick, Londra senza avere in mente James Ballard o Alan Moore, New York o Washington senza appunto reinscriverle nelle immagini mentali di Gotham City o di King Kong o del Pianeta delle scimmie, nelle inondazioni di Independence Day, nella distruzione di 1997: Fuga da New York o Io sono leggenda, nella distopia ipertecnologica di un Minority Report, per non parlare di Sidney, di Tokyo, di Hong Kong…

E invece Roma? È praticamente refrattaria a tutto questo.

Persino le invasioni marziane – da quelle di Un marziano a Roma di Ennio Flaiano alla Torta in cielo di Gianni Rodari a I marziani hanno 12 mani di Castellano e Pipolo – si risolvono in modo abbastanza innocuo, buffo o addirittura comico, per le stesse abitudini della città. Per un popolo eterno anche i marziani sono noiosi. Gli alieni sbarcano e se ne vanno. Quello di Flaiano è il più emblematico. Il marziano a Roma arriva in città, creando ovvio stupore e sconcerto, ma nel giro di qualche mese, dalle interviste al tg agli incontri con il papa alle adunate in piazza per ammirarlo, l’interesse che ha suscitato scema; finché nell’ultima pagina del racconto, una macchina di coatti gli fa il pelo mentre attraversa sulle strisce. “A’ marziano!” gli urlano, bullandolo. Questo è quel che accade a ciò che è alieno e futuro a Roma: perde del tutto credibilità.

La fantascienza romana è quasi una contraddizione in termini. Non è mai minacciosa, ma tenera, lieve, farsesca: dolente come si addice a una città eterna che delle storie ambientate nel 3000 dopo Cristo se ne ride.

Come un tramonto estenuato; è utile quanto malinconico, forse anche dolce, attraversare il piccolo, velleitario, immaginario fantascientifico su Roma, per poter riconoscere la sua funzione evocativa, se non quella urticante: delineare la città che non esiste, quella potenziale, quella minacciata, quella solo dormiente, si spera. La fantascienza, si dice, è sempre ovviamente politica, anche nelle sue versioni più bizzarre, umoristiche, che fanno parte di quella romana.

Ma la fantascienza romana è di sicuro roba di nicchia. Bislacca, weird ante litteram, profetica come può essere il racconto di una città che, credendosi eterna, divora i secoli digerendoli in un eterno presente.

Ciao marziano, di Mario Castellacci e Pierfrancesco Pingitore (1980, sindaco di Roma il comunista Luigi Petroselli), sembra semplicemente un film pagliaccesco, una rivisitazione sgangherata del racconto di Ennio Flaiano. Un extraterrestre di nome Bix, interpretato da Pippo Franco, arriva sulla Terra, precisamente: vicino alla basilica di Massenzio. Le prime figure che gli vengono incontro sono due prostitute; lui è verde e parla un italiano caricaturale, ma con la sua strampalataggine si conquista le simpatie dei terrestri. Il film è fatto tutto di gag a portata di bambini, ma a meta c’è una scena dissonante. Un prete proletario, don Paolo (Teo Teocoli), contesta le celebrazioni ufficiali (il sindaco di Roma e impersonato da Giancarlo Magalli) e convince Bix a seguirlo in borgata, tra le baracche e i ragazzini poveri che non hanno nemmeno un pallone per giocare; poi gli racconta come ha messo su una coltivazione autonoma di marijuana con lo scopo di combattere la mafia dello spaccio e aiutare gli eroinomani a disintossicarsi. Bix dà una craniata magica a un tossico in crisi d’astinenza e lo rimette in piedi in un istante, e poi parte una difesa della liberalizzazione delle sostanze e della depenalizzazione dei reati legati al consumo. (Per dire: accostato ai retori della sicurezza e dello stigma punitivo contro i tossici il fumettoso Pippo Franco-Bix sembra un leader visionario.) Anche nella scena finale, quando Bix decide di usare i suoi superpoteri per far addormentare l’intera città, la sua passeggiata aliena tra le folle narcotizzate è un’immagine insieme potente e soave, quasi che soltanto in una quiete ipnotica Roma possa ritrovare una sua pace.

Una Roma silente, ancora più rasserenata perché completamente deserta, e quella di Noi due soli di Marcello Marchesi, Vittorio Metz e Marino Girolami (1952, sindaco il democristiano Salvatore Rebecchini, artefice della gigantesca speculazione edilizia postbellica, destinatario delle denunce politiche di Aldo Natoli del Sacco di Roma o del Manlio Cancogni di Capitale corrotta = nazione infetta). In un onirico futuro apocalittico c’è ancora una guerra e una bomba N cancella all’improvviso tutte le forme di vita; sopravvivono in tre, Walter (Walter Chiari), Gina (Helene Remy) e Carlo (Carlo Campanini). Nascosti in un rifugio, possono godersi tutta la città per loro. La bellezza di Roma senza i romani è dapprima olimpica poi chiaramente inquietante. Walter Chiari finisce per somigliare a una specie di Truman di The Truman Show, attore protagonista di un sogno di città perfetta che si sgretola a partire dal desiderio, dal caos, dall’irrazionalità, tutto ciò che è umano, e urbano.

Anche la fantascienza che lavora per iperfetazione invece che per sottrazione su Roma tocca gli stessi nodi politici. Le tavole strepitose di Stefano Tamburini e Tanino Liberatore di Ranxerox (1978, sindaco lo storico dell’arte Giulio Carlo Argan) mostrano una città che è stata mangiata dal banchetto edilizio ed è costruita su vari livelli, con cento metropolitane ovunque, ma che non ha smesso di vetrinizzarsi: la scena in cui il “cadavere” disassemblato del robot Ranxerox, il “coatto sintetico”, giace davanti al Colosseo è profetica. Tuttavia fa più impressione l’altra ambientata alla stazione Termini: Tamburini e Liberatore l’avevano descritta come un luogo caotico e iperurbano; non avevano immaginato che una stazione potesse essere privatizzata, riempita di tornelli, e presidiata con la security come è oggi. Roma 2021, al confronto del casino di Ranxerox, è una città tristissima e noiosa.

Così fa specie confrontare le distopie su Roma tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta come I guerrieri dell’anno 2072 di Lucio Fulci (1984, sindaco Vetere, ancora Pci) e la sua città cupissima, senza grattacieli, ma con cupole di plexiglas, e il fantastico glam della Decima vittima di Elio Petri (1965, sindaco Petrucci, quello del piano regolatore). In entrambi la violenza si esplica alla lettera in un gioco al massacro, a uso televisivo. La città violenta ha saputo regolare la sua guerra di tutti facendone una rappresentazione; ma in un caso come nell’altro la possibilità di liberazione si squaderna con una ribellione dall’interno, e i film sono una ferocissima critica politica a cosa può diventare una società del controllo quando si incista su una società dello spettacolo.

Nei Guerrieri dell’anno 2072 Roma è una città anonima di un millennio a venire, una metropoli come New York o Singapore, luci e astronavi, ma anche con le silhouette di Castel Sant’Angelo e di piazza Navona immersa in una notte illuminata dai grattacieli; nella Decima vittima invece la guerra teletrasmessa di tutti contro tutti si svolge tra il Colosseo, i ministeri, l’Eur.

La tensione politica che dà la forza alle utopie e alle distopie (va citata ancora quella comunista di Omicron di Ugo Gregoretti, del 1963, o quella di Roma senza papa di Guido Morselli, che nel 1967 prevedeva la crisi economica derivata dall’entrata nel mercato comune europeo con tanto di chiusura delle acciaierie al Sud) oggi sembra essere al massimo ridotta a un risentimento privato.

L’arrivo di Wang dei fratelli Manetti, Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti o Cinacittà di Tommaso Pincio (usciti tra la fine delle giunte Veltroni e l’arrivo di Virginia Raggi) mostrano come la crisi sociale non trovi una resistenza collettiva ma un abbrutimento generalizzato, dando origine a una società depressiva. Tropicale, anomica, senza capacità di immaginare il futuro né prossimo né remoto, attenta al massimo alla sua sopravvivenza: una fantascienza che somiglia ormai a un articolo di cronaca.


Una madre premurosa che te mena e te accarezza

(commento a cura di Francesco Finucci)

Christian Raimo, Roma non è eterna. Vita, morte e bellezza di una città (Chiarelettere, 2021)

Si chiude così l’analisi di una Roma livida e vivace, capace di un battito vitale caleidoscopico, irriducibile a un’urbanistica geometrizzante, fredda e decorosa. Roma, nelle parole di Il muro del canto, è “una madre premurosa che te mena e te accarezza”, in cui si agita uno stuolo di personaggi: “lavoratore stanco, pezzo grosso, bandito, vorresti esse tu stanotte er figlio preferito”. Alla Roma città-senza-cittadini, quella notturna cui pure Raimo accenna, sorrentiniana, si affianca qui la Roma abitata, che non è sistema, che non vuole essere un’entità identificata – e dunque incarcerata – nella fredda macchina amministrativa che vorrebbe spietatamente salvarla, un golem di procedure, algoritmi, logiche. È invece una comunità frastagliata e stanca, ma fatta di uomini e donne e dalle loro vite.

Questa anche la Roma di Raimo. È quella immaginata da Zerocalcare, che ama vedere sé stessa come una giungla, ma che è perlopiù zoo, dominata dall’autolesionismo più che dalla lotta per la sopravvivenza9. Ma è anche una Roma animata di speranza, di progetti che, per essere visibili, necessitano di uno sguardo attento, di un’introspezione urbana e sociale più profonda, di una meditazione collettiva capace di realizzare modelli di convivenza che eludano tanto la gentrification, quanto la retorica del decoro, l’idea che si debba “mettere ordine”, ripulire la città, misconoscendone la vivacità e riconducendo ogni modo di stare al mondo a un preciso modello di stile di vita, solitamente quello dei quartieri bene.

In Raimo, dunque, come in Zerocalcare e nelle esperienze che hanno tentato di raccontare davvero Roma, si intravede la complessità, la delicatezza di raccontare il rapporto dei romani con la propria città, la difficoltà di elaborare un rapporto con una madre che è sì premurosa, ma che “mena”. È una città che si interroga, qui e ora, se si stia nuovamente innamorando di sé oppure se stia normalizzando un abuso. Una città che, recuperato il senso del tempo e dunque ricondotta dall’eternità alla realtà secolare, si chiede cos’è Roma per noi, cosa fare, qui e ora, di questi duemila anni di Storia.

 

 



Christian Raimo
per www.policlic.it


Note e riferimenti bibliografici

1  Andrea Giardina e Andre Vauchez, Il mito di Roma, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 23.

2  Simone Weil, Roma, Farina Editore, Milano 2019, p. 15.

3  Virgilio, Eneide, I, 257-278.

4  Agostino d’Ippona, La città di Dio, Città Nuova, Roma 1997, p. 34.

5  In rete si possono trovare diverse versioni del Leiðarvísir di Nikulas da Munkatvera, monaco islandese che ha spinto il suo pellegrinaggio dall’Islanda all’Italia fino a Gerusalemme.

6  Sigmund Freud, Il disagio della civiltà, in Opere, vol. 10, Bollati Boringhieri, Torino 1978, p. 562.

7  Tratto dal testo della conferenza di Andrea Minuz, L’invenzione del luogo. Christopher Nolan e Piranesi, Palazzo Braschi, Roma 4 ottobre 2017. Ringrazio l’autore che mi ha concesso di avere una copia del testo e autorizzato alla riproduzione delle due immagini.

8  V. Mattioli, Remoria, cit., p. 11.

9  Zerocalcare, Scheletri, Bao, Milano 2020, pp. 174-177.

Nessun risultato

La pagina richiesta non è stata trovata. Affina la tua ricerca, o utilizza la barra di navigazione qui sopra per trovare il post.