Progresso e felicità

Progresso e felicità

Recensione a La felicità negata di Domenico De Masi

Recensione a La felicità negata di Domenico De Masi (Giulio Einaudi Editore).

Prodromi

Non c’è progresso senza felicità; allo stesso modo non c’è felicità senza una distribuzione equa del lavoro e della ricchezza, concetto, questo, in netto contrasto con le leggi concorrenziali e di mercato promosse dal liberismo imperante. Quanto sopra sembra essere l’interrogativo che anima l’analisi di De Masi, ma il quesito appare pressoché irrisolvibile considerando il carattere inconciliabile proposto dalle due tesi. Sullo sfondo si stagliano – in tutta la loro potenza e portata storica – due scuole di pensiero tra loro contrapposte e che tanto hanno influito sulle dispute politiche e sociali: la Scuola sociologica e marxista di Francoforte e la Scuola economica e neoliberista di Vienna.

Poiché è quest’ultima a essersi affermata, sembrerebbe che le politiche liberiste e il capitalismo sans frontieres siano gli unici sistemi in grado di garantire alla società occidentale il libero accesso ai beni materiali e di consumo con tutti i benefici che ne derivano in termini di innalzamento qualitativo della vita individuale; tanto basterebbe a rendere il modo di vita occidentale attuale se non il migliore, quantomeno il più conveniente conosciuto dall’uomo finora. Tesi discutibile, questa, fonte di ispirazione per la stesura di un romanzo distopico.

De Masi prova a delineare le ragioni di una mancata affermazione della scuola di Francoforte rispetto alla rivale neoliberista. In primis, occorre osservare che la “costellazione” di intellettuali che costituirono l’Institut für Sozialforschung, prodromico alla Scuola di Francoforte, elaborarono una Teoria Critica poco incisiva in direzione di un effettivo passaggio alla prassi. Una seconda motivazione risiede nella profonda contraddizione intrinseca alla corrente francofortese, che consiste nell’includere componenti intellettuali quali Adorno, Marcuse e Horkheimer, ovvero membri altolocati e benestanti in seno alla classe borghese, e di cui ne godettero i privilegi nonostante cercassero di battersi per l’emancipazione del proletariato.

Infine, si aggiungono ragioni di natura opportunistica: se i francofortesi marxisti nutrivano un’avversione ideologica nei confronti della società borghese pur essendone socialmente integrati, i neoliberisti “correvano in proprio” assicurando gli interessi della propria classe di appartenenza, quella borghese giustappunto, mostrando una coerenza di fondo che avrebbe attestato il loro successo.

De Masi traduce criticamente tutto questo senza minimi termini:

un’élite del pensiero, pronta a metterci il cervello e a rimetterci di persona ma non a sporcarsi le mani, a differenza dei neoliberisti di Vienna, impegnatissimi nell’economia e nella finanza, accortissimi nel conquistare posti di comando nelle banche, nelle imprese, nei ministeri, dispostissimi a mettere tutta la loro scienza al servizio dei potenti per piegare le politiche agli interessi della borghesia[1].

Se l’applicazione dell’ideale comunista ha dimostrato di poter distribuire in modo equo la ricchezza media senza essere in grado di produrla, il modello liberista ha invece prodotto ricchezza senza garantirne una equa distribuzione; una contraddizione, questa, che pare non offrire vie di uscita: complessità e sviluppo, felicità e negazione della felicità, divengono i poli su cui verte la grande sfida dicotomica che tutti noi siamo chiamati ad accettare.

Provare a comprendere gli “esiti attuali” e le macroscopiche contraddizioni prodotte dalle politiche economiche e di sviluppo sociale perseguite in Occidente a cavallo tra XXI e XII secolo non può, dunque, prescindere dall’analizzare i sopracitati orientamenti filosofici (prima ancora che modelli politici ed economici).

La felicità negata, Domenico De Masi. Giulio Einaudi editore.

De Masi entra nel vivo della insolubilem quaestionem attraverso un’analisi storica e concettuale delle due Scuole. Le tematiche tracciate a tal riguardo sono diverse e fanno riferimento a testi storici come: Eros e civiltà (1955) e L’uomo a una dimensione (1964) di Marcuse; Dialettica negativa (1966) di Adorno; Dialettica dell’illuminismo (1947) di Adorno e Horkheimer; gli Studi sull’autorità e la famiglia (1974) di Horkheimer, per quanto riguarda la scuola di Francoforte; Principi fondamentali di economia di Carl Menger (1840-1921); L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904-905) di  Max Weber; Collected Writings, vol. IX: Essays in Persuasion, di J. M. Keynes (2013, nuova ed.).

Il nostro compito è quello di offrire una breve sintesi dei concetti seguendo la linea che si prefigura nel testo, lasciando al lettore il “sacrificio del concetto”, libero di approfondire tutte le argomentazioni a riguardo.


Le due Scuole: Francoforte e Vienna, e successivi sviluppi

La corrente francofortese tentò una rielaborazione del pensiero marxista attraverso una prospettiva sociologica e psicoanalitica (trattando tematiche non solo di natura politica), su come lo Stato autoritario maschera le contraddizioni controllandole attraverso lo sviluppo e la distorsione della burocrazia; quest’ultima “agisce in combutta con i partiti e le industrie, sicché il mondo e la vita ne risultano totalmente amministrati e la civiltà si traduce in repressione”[2]. L’attenzione critica riguardò anche istituzioni come la famiglia, in quanto “sistema che educa alla rassegnazione e all’obbedienza, entrambe indispensabili al capitalismo per inculcare il carattere masochistico nella personalità borghese”[3]. In questa prospettiva, il dominio non va inteso solo come conseguenza dell’apparato coercitivo dello Stato, ma può essere compreso analizzando i processi di “interiorizzazione” del concetto di autorità veicolati dalla famiglia mediante la figura paterna. Sempre in direzione di una compiuta analisi critica del fattuale, Adorno cerca di superare la dialettica hegeliana proponendo una dialettica negativa formulata come strumento in grado di svelare il carattere contraddittorio del reale.

Il campo di analisi fu ristretto principalmente sugli aspetti sovrastrutturali, in particolare la crescente cultura di massa e lo svilimento reificante che essa produce relegando di fatto il soggetto a cosa tra le cose, così come il progetto di “desublimazione repressiva” che sminuisce l’Arte autentica ponendola al rango di un qualsiasi prodotto di consumo “usa e getta”, nonché il “sacrificio metodico della libido” proposto dalla cultura dominante.

Questa è la ragione della civiltà moderna che Horkheimer definisce ironicamente illuminismo, ovvero promuovere un nuovo paradigma inteso ad un progressivo asservimento dei soggetti al nuovo modello sociale promosso dal sistema capitalista e industriale, sistema da combattere attraverso un piglio rivoluzionario che – come detto – non si è mai trasformato in un’azione efficace, lasciando di fatto gli ideali promossi dai francofortesi nella dimensione astratta della mera speculazione filosofica.

Passando alla scuola economica di Vienna, la contrapposizione con la Scuola di Francoforte appare già evidente in uno dei suoi principi fondanti: se nell’impostazione marxista è la quantità di lavoro che definisce il valore di un prodotto, in quella liberale, secondo il principio marginalista, è il valore del prodotto che definisce il valore dei fattori produttivi. La teoria del valore si fonda su fattori precipuamente soggettivi, come quello dell’importanza che il consumatore attribuisce al prodotto stesso.

Riguardo il capitolo sulla scuola Viennese, De Masi non entra nello specifico delle complesse teorie economiche a cui si ispira il neoliberismo, tuttavia offre un accurato racconto sullo sviluppo storico della suddetta scuola (a cui rimandiamo il lettore).

Successivamente, si considera come dai suddetti approcci conseguono diverse concezioni del lavoro che prendono piede a partire dal XXI secolo; anche in questa circostanza emerge la solita contrapposizione: se il liberismo considera il lavoro come “fattore produttivo, come merce di uso e di scambio, come metro di confronto in un mercato meritocratico e concorrenziale”[4], il marxismo lo considera come “l’essenza stessa dell’uomo, l’attività attraverso cui egli valorizza le sue qualità migliori e che, quindi, non può essere mercificata, pena l’alienazione dalla quale ci si può liberare solo con l’abolizione rivoluzionaria della proprietà privata dei mezzi di produzione”[5].

Ma vi è un’ulteriore concezione, che di fatto dà il via alla produzione seriale, introdotta da due figure chiave quali Frederick W. Taylor e Henry Ford: quella “ingegneristica” in cui il lavoro diviene “oggetto di studio scientifico”, il tutto finalizzato a massimizzare la produttiva e che vede nel suo esempio più eloquente la famigerata catena di montaggio fordista.

È il momento in cui si afferma lo scientific management, i ruoli direttivi vengono separati da quelli produttivi, l’azienda inizia a organizzarsi attraverso strutture gerarchiche piramidali entrando, di fatto, nella modernità. Di contro, il fordismo produsse una disumanizzazione delle fabbriche considerando i lavoratori semplici ingranaggi del processo produttivo. A tal proposito, riportiamo un passaggio eloquente citato dallo stesso De Masi, che non necessita di ulteriori commenti, tratto dalla autobiografia di Henry Ford:

Il risultato netto dell’applicazione di questi principi è la riduzione della necessità di pensare da parte dell’operaio e la riduzione al minimo dei suoi movimenti. Per quanto è possibile, l’operaio fa soltanto una cosa con un unico movimento […] L’operaio medio, mi dispiace dirlo, desidera un lavoro nel quale non debba pensare[6].

Prospettiva alienante che trasporta il lavoratore in uno stato di privazione e sfruttamento.

A proposito di liberismo e disumanizzazione nelle fabbriche, De Masi cita un’opera capitale, caposaldo per ogni tipo di discussione sui rapporti tra capitalismo, neoliberismo e lavoro: L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904-905) di Max Weber. È impensabile entrare nel merito di un’opera così complessa; lo stesso De Masi si limita a citare solo alcune note tesi weberiane, tra cui la più rinomata – secondo cui – è la seguente: se il cattolicesimo considera la felicità solo nel Paradiso, secondo i precetti del Protestantesimo essa è unicamente conseguibile perseguendo il successo economico e quello professionale. Esaltazione della libertà individuale che porta De Masi ad affermare, nell’ambito della sua analisi dedicata a Weber, quanto segue:

[…] in questo centrare la storia tutta sul singolo individuo dimenticando la sua società, in questo volare alto tra dedizione e valori spirituali, senza un pizzico di umana carnalità, è qui la profonda radice dell’infelicità che ci ha accompagnato durante i due secoli della società industriale e che ancora ci perseguita[7];

La felicità negata, citando il titolo dell’elaborato.

L’avvento della società post-industriale ha prodotto disorientamento e crisi, che l’autore riassume senza mezzi termini:

alla centralità operaia vagheggiata dal marxismo, all’interclassismo delle terze vie e dei partiti di formazione cristiana si va sostituendo la presenza sfuggente di una classe che non è classe, di un ceto che non è ceto, di un patchwork di disoccupati, semioccupati, cassintegrati, giovani che hanno terminato gli studi ma non hanno trovato lavoro, funzionari espulsi da enti inutili, impiegati gettati sul lastrico da aziende decotte o fuggite altrove, tutto un crescente esercito postindustriale di riserva che non trova cause comuni di alienazione se non nel disagio della precarietà e dell’erraticità[8];

Sulla base di un tale scenario, sembra impossibile che possa formarsi una nuova coscienza di classe in grado di riproporre una “organizzazione antagonista” e, in tutto questo, giocano un ruolo fondamentale i mezzi di informazione che operano nella disinformazione “scientificamente pianificata”.

De Masi, in riferimento al coevo sottoproletariato post-industriale, rincara la dose affermando: “questa massa amorfa e acefala può esprimersi solo tramite movimenti ingenui e inermi contro i quali le istituzioni – imprese, partiti, media, sindacati, gruppi di pressione – fanno muro fino ad annientarli o addomesticarli”.

Sempre in riferimento al tema delle libertà individuali, viene preso in considerazione l’economista Keynes e il concetto di jobless growth connesso al crescente sviluppo tecnologico, tematica strettamente attuale, e il suo effetto più evidente, ossia la crescita del tempo libero (sia pure indotto da uno stato di disoccupazione), nonché le conseguenti ripercussioni – sia positive che negative – sul sistema sociale. Anche in questo caso, l’autore procede attraverso un excursus storico citando alcuni studiosi che si sono cimentati in questo “esercizio futuribile”, di cui ne diamo un breve accenno.

Nel 1995, Jeremy Rifkin proponeva un re-engineering della settimana lavorativa dovuto ad una diminuzione dell’attività produttiva a seguito dell’impiego di tecnologie time-and-labour-saving, da cui la conseguente necessità di indirizzare il tempo libero dei lavoratori verso funzioni produttive esterne attraverso il volontariato, il tutto a vantaggio delle comunità locali. Nel 1997, André Gorz propone un’attività basata sull’impegno civile che faccia leva sulla spontaneità e sull’autonomia organizzativa di persone che cercano forme alternative di impegno attraverso la realizzazione di progetti finalizzati, anche in questo caso, al bene comune. Nel 2007, Serge Latouche teorizza una decrescita serena sotto l’urgenza di una riduzione di tutte le attività umane che compromettono la salute del pianeta.

In ultima analisi, una ulteriore proposta è quella dell’”ozio creativo” e la offre direttamente De Masi, a cui lasciamo la parola:

[…] il lavoro risulterà tanto più fonte di felicità o di alienazione, quanto più o quanto meno somiglierà a ciò che io chiamo ozio creativo. Con tale espressione intendo tutt’altro che la pigrizia, l’inattività forzata o l’ammazzare il tempo col pericolo di deprimersi. Intendo la soave capacità di coniugare il lavoro per produrre ricchezza con lo studio per produrre conoscenza e con il gioco per produrre allegria[9].

Conclusioni

Dal testo sembra emerge, a tratti, una visione sconfortante che non ci sentiamo di condividere tout court. Se è vero che la società contemporanea subisce una forte manipolazione mediatica funzionale al mascheramento delle profonde contraddizioni di natura sociale derivate da un sistema economico sempre più orientato al liberismo, è altresì vero che, grazie alle nuove tecnologie di accesso all’informazione, ogni individuo è libero, oggi più che mai, di consultare numerose fonti accessibili gratuitamente nel personale percorso di costruzione e condivisione della verità, e di produrre nuove idee che possano proporsi come stimolo in direzione di un effettivo cambiamento basato sul concetto di condivisione e sulla negazione dell’egoismo dilagante, sollevando in tal modo la società contemporanea dal limitante e offuscante radicalismo individualista di matrice liberale.

Al di là della disamina storica proposta da De Masi sugli sviluppi successivi alle Scuole di Francoforte e Vienna, i conseguenti effetti sul mondo occidentale e la derivante antropologia delle passioni, non sembra emergere una reale soluzione, obiettivamente difficile da teorizzare, che possa proporsi come superamento delle nozioni di progresso e benessere intese come forme esclusive e costitutive di un’unica realtà possibile. Se da un lato il marxismo pone la felicità del lavoratore come scopo da conseguire, il liberalismo e le sue logiche legate alla concorrenza e all’esponenziale accrescimento economico persegue esclusivamente gli interessi delle élite finanziarie relegando il lavoratore, subdolamente distratto dalla traboccante mercanzia, a semplice ingranaggio del sistema capitalistico. Paradossalmente, la civiltà occidentale sembra aver raggiunto un livello di prosperità senza precedenti difficilmente superabile. Come uscire dalla trappola della ricchezza resta la sfida con cui confrontarci in futuro.


[1] De Masi, La felicità negata, Giulio Einaudi editore, Torino 2022, p. 35.

[2] Ivi, p. 21.

[3] Ibidem.

[4] Ivi, p. 83.

[5] Ibidem.

[6] H. Ford, Autobiografia [1922], Rizzoli, Milano 1982, p. 179, cit. in De Masi, pp. 86-87.

[7] De Masi, op. cit., p. 91.

[8] Ivi, p. 104.

[9] Ivi, p. 136.

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