20 maggio 1970: i diritti entrano in fabbrica

20 maggio 1970: i diritti entrano in fabbrica

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La coda riformista del centrosinistra, le lotte operaie. Ma anche l’inizio della strategia della tensione e la nascita delle Brigate Rosse. È in questo contesto storico-politico che si sviluppa l’iter di approvazione della legge 20 maggio 1970, n. 300, dal titolo “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e delle attività sindacali nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”. Una legge più nota all’opinione pubblica con il nome, denso di significato, di “Statuto dei lavoratori”.

Un provvedimento dall’indubbio valore politico e sociale che sostanzialmente ha permesso alla Costituzione repubblicana di trovare applicazione anche nella sfera lavorativa del cittadino. I nomi dei protagonisti di quella battaglia, iscritta nella storia del movimento operaio e dei diritti dei lavoratori in Italia, sono Giacomo Brodolini (Ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale nel governo Rumor, di ispirazione lombardiana), Gino Giugni (Capo dell’Ufficio Legislativo di Brodolini) e il successore dello stesso Brodolini, Carlo Donat-Cattin.

Il lungo percorso che ha portato a una così importante riforma prende le mosse nel 1952, con la proposta della CGIL guidata da Giuseppe Di Vittorio, passando poi per l’avvento del centrosinistra e della relativa stagione riformista, per giungere infine alle vicende dell’“autunno caldo” e alla conseguente approvazione dello Statuto.

Uno scatto di Salvatore Loconsolo del 18 dicembre 1975, durante il Convegno sullo statuto dei lavoratori e il movimento operaio organizzato da Fondazione Brodolini, Fondazione Seveso e Cress – Interno – Tavolo della presidenza – Gino Giugni al microfono Fonte: Lombardia Beni Culturali/Wikimedia Commons


Incunaboli di uno statuto: la risoluzione di Giuseppe Di Vittorio

Giuseppe Di Vittorio, storico leader della CGIL, aveva compreso da tempo l’esigenza di una nuova disciplina nei rapporti tra lavoratori e datori di lavoro quando, nel 1952, propose al sindacato l’approvazione di una risoluzione che doveva garantire maggiormente il rispetto dei diritti e della dignità del prestatore di lavoro. Va vista in questo senso la risoluzione che, per quanto già avanzata rispetto alla legislazione vigente, aveva ancora la caratteristica di basarsi sul principio contrattualistico: la legge non doveva intervenire nella costruzione del compromesso tra sindacati e organizzazioni imprenditoriali, a meno che non fossero sorte criticità irrisolvibili nel dialogo.

La risoluzione, approvata all’unanimità dal congresso della confederazione, esordiva così al primo punto:

1) Il rapporto di lavoro tra padrone e dipendente non può in nessun modo e per nessun motivo ridurre o limitare i diritti inviolabili che la Costituzione repubblicana riconosce all’uomo sia come singolo, sia nelle formazioni sociali dove svolge la sua personalità (Costituzione, art. 2). Perciò anche nel luogo di lavoro i dipendenti conservano totalmente e integralmente, nei confronti del padrone o di chi per esso, i propri diritti di cittadini, la loro dignità umana e la libertà di poter sviluppare, senza ostacoli o limitazioni, la propria personalità morale, intellettuale e politica.[1]

Si può notare come già questo primo punto esprima la volontà del riformatore di “far entrare la Costituzione nei luoghi di lavoro”, un concetto che caratterizzò tutta la parabola dello Statuto dei lavoratori. La sostanza era quella di proclamare che il lavoratore è anche un cittadino e lo è anche all’interno del luogo di lavoro, in quanto formazione sociale dove svolge la propria personalità. Una concezione fortemente umanizzante del lavoratore e del lavoro.

Il secondo punto è dedicato all’inviolabilità personale del dipendente, un diritto che oggi può sembrare ovvio ma che all’epoca in cui Di Vittorio lottava per i diritti dei lavoratori era tutt’altro che assodato. In questa parte la risoluzione di Di Vittorio fa riferimento al divieto, per il datore di lavoro, di sottoporre il lavoratore a insulti, violenze fisiche o morali, ma soprattutto al divieto di ispezionarlo o perquisirlo[2]. Un ambito delicato e conflittuale, se si pensa alla dinamica del datore di lavoro che perquisiva il lavoratore per controllare se avesse giornali o volantini di natura politica o sindacale.

Nel terzo punto il riferimento è agli articoli 39, 40 e 46 della Costituzione. Al lavoratore doveva essere garantito l’esercizio del diritto di manifestazione del proprio pensiero anche nell’azienda, nella parte di tempo non destinato alla produzione. Secondo la risoluzione, inoltre, il rapporto di lavoro non poteva limitare il diritto del lavoratore di “discutere con i suoi compagni le questioni relative al proprio lavoro, di collaborare alla gestione delle aziende, di tutelare i propri interessi di lavoratore e di adempiere ai propri doveri associativi[3].

Il quarto e ultimo punto è incentrato sul divieto di discriminazione politica, religiosa o razziale del lavoratore[4]. Il licenziamento per cause politiche rappresentava un problema di grande rilevanza in quegli anni di estrema politicizzazione del mondo del lavoro e della vita sociale in generale (un caso emblematico da questo punto di vista fu il licenziamento dell’esponente comunista Giovanni Battista Santhià da parte della Fiat)[5].

Il documento prodotto da Di Vittorio rappresentò la piattaforma giuridica sulla quale venne poi fondato lo Statuto dei lavoratori, che però vide la luce solo diciassette anni dopo. È di indubbio interesse l’interrogativo sulla ragione di questo ritardo ed è lecito chiedersi se fu effettivamente un ritardo o se Di Vittorio e i principi da lui elaborati si presentavano in qualche modo come precursori dei tempi.

Giuseppe Di Vittorio. Fonte: RAI Cultura/Wikimedia Commons


L’avvento del centrosinistra e i primi interventi legislativi sul lavoro

Dopo le criticità dell’esperienza del governo Tambroni nel 1960, si delineò definitivamente la possibilità di un’apertura a sinistra del partito di maggioranza, la DC, che vide in Aldo Moro il tessitore delle relazioni con il Partito Socialista di Pietro Nenni. In quel contesto politico si inserisce la continuazione del percorso, avviato negli anni Cinquanta, di elaborazione di una legislazione in tema di lavoro.

Se probabilmente è vero che senza il centrosinistra non avremmo lo Statuto dei lavoratori, va anche registrato un ritardo nella gestazione dello stesso negli anni della dialettica tra Nenni e Moro. E probabilmente proprio nello sviluppo e nei punti di arrivo di questa dialettica, oltre che nella contrapposizione tra i principali sindacati e nel conflitto ideologico tra i giuristi, vanno ricercate le cause della mancata approvazione dello Statuto fino al 1970.

Risulta interessante, ai fini della comprensione del legame tra avvento del centrosinistra e riforma del mondo del lavoro, riprendere le parole pronunciate dal Presidente del Consiglio Aldo Moro in occasione della presentazione alla Camera dei Deputati del suo primo governo, il primo centrosinistra organico:

Questa grande riforma, non ancora compiuta nonostante l’intensa attività legislativa degli anni scorsi, va realizzata avendo presenti le norme e lo spirito della Costituzione repubblicana. La integrale attuazione della Costituzione e l’adeguamento ad essa ed ai principi democratici della legislazione è dunque compito primario di questo Governo, il quale l’affronterà senza indugio promuovendo la generale revisione dei codici e della legge di pubblica sicurezza nell’intento di dare piena garanzia ai cittadini e di assicurare ad un tempo l’efficienza dello Stato per l’assolvimento dei compiti istituzionali. […] Il Governo esprime inoltre il proposito di definire, sentite le organizzazioni sindacali, uno statuto dei diritti dei lavoratori al fine di garantire dignità, libertà e sicurezza nei luoghi di lavoro.[6]

Seppure un “proposito” e non un “impegno”, quello di Moro è senz’altro una dimostrazione della volontà di inserire nella grande riforma di cui parla nella prima parte una legislazione del mondo del lavoro.

Moro chiamò e Nenni, ovviamente, rispose. Lo fece con un discorso tenuto il 27 gennaio 1964 al Teatro Lirico di Milano, dove ebbe modo di chiarire la posizione dei socialisti sullo Statuto e sulla necessità di superare la logica contrattualistica sostenuta a spada tratta dalla CISL:

Si tratta inoltre di assicu­rare i diritti democratici dei lavoratori nella fabbrica e nell’azienda.  Vorrei dire a ta­le proposito che, ponendo questo problema, noi non avevamo presente una qual­siasi carta dannunziana o fa­scista del lavoro, ma un in­sieme di provvedimenti vol­ti ad assicurare l’esercizio in­tegrale dei diritti sindacali e politici dei lavoratori in tutti i luoghi di lavoro.  Non è sufficiente dire che tale garanzia deve essere affida­ta esclusivamente alla for­za del sindacato, giacché in­finite sono le vie attraver­so le quali può essere eluso il contenuto dei contratti di lavoro.  Questioni  come  il  di­ritto  alla  presenza  del  sin­dacato  nel  luogo  di  lavoro; questioni  come  l’intervento dei  lavoratori  nel  colloca­mento  e  nel  licenziamento; devono  trovare  un  sistema giuridico  di  garanzie,  una volta  che  sia  riconosciuto  co­me  il  centro  sinistra  ricono­sce,  che  l’organizzazione  sin­dacale,  le  sue  libertà,  la  sua autonomia,  sono  delle  compo­nenti  essenziali  del  processo produttivo  e  non  un  elemen­to  estraneo  ed  abusivo  alla vita  sociale  e  democratica del  Paese.[7]

Se, dal punto di vista delle premesse politiche, lo Statuto sembrava poter vedere la luce in tempi brevi, dal punto di vista legislativo si andò avanti a piccoli passi settoriali almeno fino al 1969. Un primo intervento legislativo, in realtà, si era avuto già prima della nascita del centrosinistra organico. Al governo c’era Fanfani e poco tempo dopo la nazionalizzazione dell’industria elettrica e l’introduzione della scuola dell’obbligo fino a 14 anni, venne approvata la legge n. 7 del 1963 sul divieto di licenziamento delle lavoratrici per causa di matrimonio[8].

Dopo circa tre anni, nel luglio 1966, venne approvata una legge che regolava il licenziamento per giusta causa e la tutela risarcitoria del lavoratore in caso di licenziamento ingiusto[9]. Un tema che avrebbe continuato a essere particolarmente controverso e conflittuale nel corso degli anni, soprattutto nel momento in cui la tutela risarcitoria sarebbe tornata ad avere la meglio in luogo del ripristino del rapporto di lavoro. Ad ogni modo, va sottolineato che questo atto legislativo venne richiamato anche nel programma economico nazionale per il quinquennio 1966/1970, come primo step per la realizzazione di una riforma più organica[10].

Uno scatto fotografico del 1960, proveniente dall’Almanacco Socialista del 1982, che ritrae la Direzione del Partito Socialista Italiano (PSI). Da sinistra Achille Corona, Giovanni Pieraccini, Pietro Nenni, Sandro Pertini, Giacomo Brodolini, Riccardo Lombardi e Alberto Jacometti. Fonte : Wikimedia Commons


L’autunno caldo e l’approvazione dello Statuto dei lavoratori

L’avvento del centrosinistra organico non portò in dote una legislazione completa del mondo del lavoro, questo è un fatto. Ma si può senz’altro affermare che in quel passaggio politico è possibile rintracciare le origini di quello che sarebbe accaduto da lì a pochi anni.

Il 1969 fu un anno di svolta per l’estrema conflittualità tra soggetti e interessi del mondo del lavoro. È complicato stabilire se furono i ritardi del centrosinistra a causare le tensioni della fine degli anni Sessanta, o se invece fu proprio la spinta propulsiva di quella proposta politica a dare poi nuovi stimoli alla continuazione del progetto riformista negli anni Settanta. È abbastanza assodato, invece, che le proteste del cosiddetto “autunno caldo” abbiano contribuito in maniera decisiva all’approvazione dello Statuto dei lavoratori.

Risulta interessante, da questo punto di vista, l’analisi di Stefano Musso nella sua Storia del lavoro in Italia. Dall’Unità a oggi:

Il periodo più aspro e convulso dei rapporti di lavoro in Italia prese avvio fin dai primi mesi del 1969, con le agitazioni aziendali, prima ancora dello scoppio, in autunno, delle lotte per il rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici. L’accumulo di tensioni determinate dalla pesantezza delle condizioni di lavoro nelle fabbriche taylorizzate, e dalla carenza di case e servizi nei centri industriali del Nord, affollati da masse di nuovi immigrati determinate a superare senza ulteriori ritardi la loro condizione di esclusione dai nuovi standard del consumo di massa, formò una miscela esplosiva.[11]

La complessità della situazione ebbe ripercussioni evidenti anche sulla capacità di lettura della politica e soprattutto delle organizzazioni sindacali. Fenomeni caratterizzanti di quella stagione furono l’azione di base (attraverso i cosiddetti CUB, Comitati Unitari di Base) e lo spontaneismo operaio. In sostanza la classe operaia si organizzava come soggetto indipendente accreditato a contrattare in maniera autonoma con la direzione delle aziende. Una logica difficilmente accettabile, per quei corpi intermedi che rivendicavano il loro ruolo di pilastri della democrazia rappresentativa.

Paradigmatica fu la questione del rinnovo del contratto dei metalmeccanici, per la quale aveva avuto luogo una consultazione diretta con la base dei lavoratori. Tra gli argomenti affrontati vi erano l’aumento della retribuzione uguale per tutti, la riduzione dell’orario di lavoro, la parità di trattamento tra operai e impiegati in caso di malattia e infortunio[12].

Mentre nella società ribollivano impulsi rivoluzionari o quantomeno di rottura rispetto a un sistema capitalistico che non pareva più in grado di garantire un’esistenza dignitosa alle classi popolari, le “stanze dei bottoni” si riempivano di personaggi orientati da un approccio riformistico votato all’integrazione delle stesse masse popolari nello Stato e, più nello specifico, nella formula di centrosinistra.

Le vicende dell’“autunno caldo” e dello Statuto sono ovviamente intrecciate, ma già prima della questione del rinnovo del contratto dei metalmeccanici qualcosa aveva iniziato a muoversi dalle parti di Palazzo Chigi. In particolare stava nascendo, agli albori del 1969, quella che sarebbe stata la commissione incaricata di redigere uno schema per il futuro disegno di legge di iniziativa governativa.

A far parte della commissione vennero chiamati illustri giuristi e presidente fu Gino Giugni, esperto di diritto del lavoro e docente presso l’Università di Bari:

C’erano un avvocato dello Stato, Freni, un funzionario del ministero, D’Harmant Francois, un sociologo, De Rita, quattro professori di diritto del lavoro, Mancini, Prosperetti, Spagnolo Vigorita e Pera, che rinunciò subito dopo, il consigliere politico del ministro, Tamburrano, e l’avv. Ventura, comunista, condirettore della “Rivista giuridica del lavoro”. Segretario della commissione era un altro funzionario del ministero, il dr. Re.[13]

L’importanza della commissione e del ruolo che le era stato affidato fu presto espressa dallo stesso ministro Brodolini, che invitò a un lavoro scrupoloso ma celere. Le richieste del ministro non rimasero insoddisfatte, poiché si arrivò a conclusione con notevole rapidità: dopo circa un mese, infatti, il giuslavorista Giugni presentò a Brodolini un’articolata relazione conclusiva, completa delle posizioni maggioritarie e di quelle minoritarie. La relazione rappresentò la base giuridica sulla quale costruire il disegno di legge governativo, approvato dal Consiglio dei Ministri il 20 giugno 1969, con qualche differenza di vedute all’interno della compagine governativa.

A quel punto la palla passava alle Camere. La prima a essere chiamata in causa fu il Senato, che l’11 dicembre 1969, il giorno prima della strage di Piazza Fontana a Milano, approvò il disegno di legge del Governo presentato con il numero 738. Al di là degli emendamenti, è interessante analizzare alcune dichiarazioni di voto in assemblea pronunciate da rappresentanti dei gruppi parlamentari chiamati in causa.

Particolarmente significative risultano le parole del socialista Gaetano Mancini, che sottolineava come la mancanza di norme relative al mondo del lavoro avesse provocato il dilagare nelle fabbriche dell’“arbitrio, la discriminazione, la prepotenza padronale, l’intolleranza verso qualsiasi forma di organizzazione sindacale”[14]. La responsabilità di queste criticità non era da attribuire esclusivamente ai “padroni”; Mancini riteneva ci fosse la necessità di un’analisi autocritica, in quanto la classe politica italiana aveva “dimenticato per strada gli obiettivi della Resistenza opponendo al massiccio schieramento del padronato la sua divisione e la sua incapacità democratica”[15].

Per Mancini non sarebbe stata solo la Costituzione in quanto tale a entrare nelle fabbriche, ma anche, e soprattutto, la democrazia:

La democrazia, anche in virtù di questa legge, avrà finalmente diritto di cittadinanza sui luoghi di lavoro ed il sindacato potrà attraversare i cancelli delle fabbriche ed esplicare liberamente ed autonomamente la sua attività protesa al raggiungimento degli obiettivi più avanzati.[16]

Da ultimo occorre citare una “stilettata” nei confronti dell’opposizione delle destre:

Ogni forza politica, al di là delle sue etichette, assolve in un determinato contesto storico e politico, in modo consapevole o meno, ad una funzione obiettiva: di protagonista o di comparsa, di spinta o di remora. In verità, la destra tradizionale nel nostro Parlamento ha assolto, in questa occasione, una funzione di semplice comparsa. I liberali, il Movimento sociale e qualche voce arrochita e superata dal tempo della Democrazia cristiana sono stati i portavoce autorizzati di coloro che hanno cercato di fermare gli operai in lotta con le armi spuntate della serrata.[17]

Il riferimento del senatore socialista all’MSI rende necessario lo spostamento del focus sulla dichiarazione di voto del senatore missino Cristoforo Filetti. Nelle parole del senatore siciliano sono rintracciabili le motivazioni dell’astensione del gruppo missino, che richiamano una presunta incompletezza del disegno di legge governativo:

Il mondo del lavoro è in piena evoluzione. In relazione all’andamento naturale del progresso economico e sociale, esso non può trovare idonea regolamentazione nell’attuale esasperazione classista, asociale e controproducente, tra i due soggetti della produzione, e non può dirsi che sia equamente e congruamente disciplinato nel disegno di legge che ci accingiamo a votare; disegno di legge che, ancorato prevalentemente alle speculate teorie marxiste, prevede per una parte (datore di lavoro), soltanto obblighi e doveri, comminando anche sanzioni penali, mentre per l’altra parte (prestatore d’opera) si articola esclusivamente nel riconoscimento di facoltà e di diritti e nel conferimento di ampi poteri dispositivi e di illimitato e insindacabile autocontrollo. I rapporti di lavoro invece vanno disciplinati tenendo a base il principio della collaborazione, che dovrà portare all’inserimento del lavoratore nell’impresa, uti singulus et uti socius, per realizzarsi, nell’ambito di una armonica attivizzazione, l’associazione tra le due parti interessate e la compartecipazione del prestatore di opera negli utili dell’azienda.[18]

Un punto di vista probabilmente minoritario in quegli anni, ma per nulla banale. Altrettanto interessante fu l’altro “tipo” di astensione, quella dei comunisti, dei socialproletari (PSIUP) e della Sinistra Indipendente. In particolare i comunisti, principale forza di opposizione di sinistra all’alleanza tra democristiani e socialisti, avevano ragioni tecniche e politiche per non gradire il disegno di legge. In prima istanza quello che non piaceva era il fatto che lo Statuto fosse applicabile solo alle imprese con più di quindici dipendenti; ma, soprattutto, veniva considerato come frutto di un’azione “di palazzo” e non proveniente dalla base. Proprio quella base operaia che in quegli anni ribolliva e animava una contestazione che sarebbe perdurata per tutti gli anni Settanta (nonostante lo Statuto).

Altro tema controverso, come espresso nella dichiarazione di voto comunista del senatore Edoardo Romano Perna, era quello dell’accesso dei partiti politici all’interno delle fabbriche (nello Statuto si fa riferimento esclusivo ai sindacati):

[…] ma perché mancano quelle grandi ispirazioni generali e perché (me lo consenta il collega Mancini) non si tratta del fatto che noi vogliamo affiancare o in qualche modo contrapporre la funzione del sindacato nelle fabbriche a quella dei partiti politici, ma perché consideriamo che non vi può essere pienezza nella funzione democratica unitaria delle forze operaie nella fabbrica se questa funzione non si può esprimere anche a livello politico, a livello cioè delle scelte di indirizzo fondamentale del regime produttivo, dei rapporti tra questo regime di fabbrica e la democrazia dell’intero Paese.[19]

Appena il tempo di approvare il disegno di legge in Senato (11 dicembre 1969) e l’Italia, come detto, venne scossa dalla bomba della Banca Nazionale dell’Agricoltura. Dopo qualche mese, il 14 maggio 1970, toccò alla Camera dei Deputati dare l’ok allo Statuto dei lavoratori. Il risultato finale della votazione vide 217 deputati a favore e 125 astenuti[20].

Il 27 maggio 1970 uscì in Gazzetta Ufficiale il testo della legge 20 maggio 1970, n. 300. All’articolo 1, relativo alla libertà di opinione, si può leggere:

I lavoratori, senza distinzione di opinioni politiche, sindacali e di fede religiosa, hanno diritto, nei luoghi dove prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero, nel rispetto dei principi della Costituzione e delle norme della presente legge.[21]

Ai titoli II e III della legge viene garantita e disciplinata l’attività sindacale; in particolare, l’articolo 20 garantisce il diritto di riunirsi in assemblea sia durante l’orario di lavoro sia al di fuori di esso. Al titolo VI, invece, l’articolo 35 regola l’ambito di applicazione dello Statuto:

Per le imprese industriali e commerciali, le disposizioni dell’articolo 18 e del titolo III, ad eccezione del primo comma dell’articolo 27, della presente legge si applicano a ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo che occupa più di quindici dipendenti. Le stesse disposizioni si applicano alle imprese agricole che occupano più di cinque dipendenti.
Le norme suddette si applicano, altresì, alle imprese industriali e commerciali che nell’ambito dello stesso comune occupano più di quindici dipendenti ed alle imprese agricole che nel medesimo ambito territoriale occupano più di cinque dipendenti anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti.[22]

Questo articolo e la relativa limitazione numerica dei quindici dipendenti per le imprese industriali e dei cinque dipendenti per le imprese agricole presenta dei caratteri di particolare interesse. Tale limitazione, infatti, ha diviso l’opinione di politici e di intellettuali. Se da una parte si è sostenuto che limitare l’ambito di applicazione alle sole grandi imprese abbia limitato di per sé la portata liberatrice dello Statuto, dall’altra si è argutamente sottolineato come ciò abbia potuto favorire lo sviluppo ipertrofico della piccola impresa in Italia. Secondo questa logica, infatti, gli imprenditori, per evitare di “sottostare” alle norme dello Statuto, avrebbero preferito dare vita negli anni a imprese di piccole dimensioni, magari diffuse sul territorio nazionale. Una teoria interessante che spiegherebbe in parte la caratteristica peculiare del nostro sistema produttivo nazionale, strutturato su tante piccole e medie imprese.


Conclusioni

Si è cercato di tracciare il percorso (graduale e non lineare) che ha caratterizzato la parabola della legislazione del mondo del lavoro in Italia, fino all’approvazione di uno Statuto dei lavoratori. È indubbio, alla luce dei fatti analizzati, che lo Statuto abbia garantito maggiore dignità al lavoratore ed effettiva applicabilità dei diritti costituzionali nei luoghi di lavoro.

Lo Statuto non nasce esclusivamente grazie all’azione del movimento operaio dell’autunno caldo e neanche solo grazie all’azione di riformisti illuminati come Brodolini, Giugni o Donat-Cattin, per citare solo alcuni protagonisti della vicenda. Nasce proprio grazie a una spinta sociale che veniva dal basso, sostenuta e portata ad applicazione politica e legislativa da quelle istituzioni che oggi sono spesso denigrate. Senza il movimento operaio non ci sarebbe stata la base sociale per dar vita ad una nuova legislazione del mondo del lavoro, ma senza quel tipo di riformismo, inserito in un processo storico-politico di sempre maggiore integrazione delle masse nell’assetto democratico del Paese, non ci sarebbe stato modo di dare adeguato sbocco alle richieste dei lavoratori.

Al di là delle recenti polemiche relative alla precarizzazione del lavoro (in particolare l’introduzione del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, che di fatto ha superato la disciplina dell’articolo 18 dello Statuto, riguardante il reintegro del lavoratore per licenziamento illegittimo) è oggi opportuno interrogarsi sulle nuove possibilità di riforma della legge del 1970.

Il lavoro, con il mutare e il riprodursi in forme diverse del capitalismo, cambia a sua volta. Pensiamo all’avanzamento della tecnica e della tecnologia, con la conseguente meccanizzazione che sta divenendo sempre più pervasiva. Pensiamo alla precarizzazione generata dalla crisi finanziaria del 2008 e dalla sfiducia generalizzata che ne è seguita. In quest’ottica andrebbe vista una legislazione che vada a inserirsi in una dialettica tra lavoratore e datore di lavoro sempre orientata a garantire la dignità e il rispetto delle ragioni di entrambi. Posizioni demagogiche o eccessivamente ideologiche non garantiscono il raggiungimento di risultati concreti dal punto di vista istituzionale, ma è fondamentale tenere a mente che piegarsi del tutto alle leggi del capitalismo non può che comportare il distacco totale tra le esigenze della classe lavoratrice e le istituzioni (intese anche come sindacali).

In questa ottica di ricerca continua del compromesso e della soluzione più pragmatica possibile non si deve mai perdere il senso storico e la lettura dei processi in base a “quello che c’è stato prima”. Senza analizzare il passato non si può costruire il presente né progettare il futuro, e senza avere ben chiaro quali erano gli impulsi che muovevano il riformismo negli anni di cui si è parlato è complicato riuscire a leggere la realtà sociale in cui viviamo.

Federico Paolini per www.policlic.it


Note e riferimenti bibliografici

[1] E. Stolfi, Da una parte sola. Storia politica dello Statuto dei Lavoratori, Longanesi & C., Milano 1976, pp. 19-20.

[2] Ivi, p. 20.

[3] Ibidem.

[4] Ibidem.

[5] Ivi, p. 17.

[6] Camera dei Deputati, Assemblea, Resoconto stenografico, IV Legislatura, Seduta del 12 dicembre 1963.

[7] Il discorso di Pietro Nenni a Milano. Costituzione e “piano”: ecco l’impegno del governo e dei socialisti nel governo, “Avanti”, 28 gennaio 1964, p. 3.

[8] Gazzetta Ufficiale, Legge 9 gennaio 1963 (Divieto di licenziamento delle lavoratrici per causa di matrimonio e modifiche alla legge 26 agosto 1950, n. 860: “Tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri”), n. 7.

[9] Gazzetta Ufficiale, Legge 15 luglio 1966 (Norme sui licenziamenti individuali), n. 604.

[10] V.A. Poso, Era di maggio. Lo “Statuto dei diritti dei lavoratori” compie cinquant’anni. Quasi un racconto, “Giustizia Insieme”, 20 maggio 2020.

[11] S. Musso, Storia del lavoro in Italia. Dall’Unità a oggi, Marsilio Editori, Venezia 2002, p. 229.

[12] E. Stolfi, Da una parte sola. Storia politica dello Statuto dei Lavoratori, cit., pp.116-117.

[13] Ivi, p. 59.

[14] Senato, Assemblea, Resoconto stenografico, V Legislatura, Seduta dell’11 dicembre 1969.

[15] Ibidem.

[16] Ibidem.

[17] Ibidem.

[18] Ibidem.

[19] Ibidem.

[20] V.A. Poso, Era di maggio. Lo “Statuto dei diritti dei lavoratori” compie cinquant’anni. Quasi un racconto, cit.

[21] Gazzetta Ufficiale, Legge 20 maggio 1970, (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), n. 300.

[22] Ibidem.

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