9 maggio 1936

9 maggio 1936

Questo articolo è estratto dalla rivista Policlic n. 1 pubblicata il 27 maggio. 

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Il 9 maggio 1945 terminava la Seconda guerra mondiale in Europa, con la resa del Terzo Reich sotto i colpi dell’Armata Rossa e degli eserciti di Francia Libera[1], Gran Bretagna e Stati Uniti. Il Den’ Pobedy (День Победы), il “Giorno della Vittoria”, è ancora festeggiato in molti paesi dell’Europa Orientale[2] ma pochi lo metterebbero in relazione con un evento accaduto esattamente nove anni prima: la proclamazione dell’Impero italiano dopo la conquista dell’Etiopia. 

Il 9 maggio 1936, una folla oceanica riempiva Piazza Venezia per ascoltare il discorso dell’uomo che guidava i destini del paese dal 1922:

L’Italia ha finalmente il suo Impero, Impero fascista, perché porta i segni indistruttibili della volontà e della potenza del littorio romano, perché questa è la meta verso la quale durante quattordici anni furono sollecitate le energie prorompenti e disciplinate delle giovani, gagliarde generazioni italiane. Impero di pace perché l’Italia vuole la pace per sé e per tutti e si decide alla guerra soltanto quando vi è forzata da imperiose, incoercibili necessità di vita. Impero di civiltà e di umanità per tutte le popolazioni dell’Etiopia […] Il titolo di Imperatore d’Etiopia viene assunto per sé e per i suoi successori dal re d’Italia […] In questa certezza suprema, levate in alto o legionari, le insegne, il ferro e i cuori a salutare, dopo quindici secoli, la riapparizione dell’Impero sui colli fatali di Roma. (urlando) Ne sarete voi degni?

A un occhio (o meglio, un orecchio) poco allenato potrebbe apparire un semplice discorso propagandistico dopo una esaltante vittoria militare, articolato secondo l’ampollosità retorica propria di Mussolini e del fascismo. La verità invece è che le parole del dittatore sono lo specchio di quanto successo nel corso dei due anni precedenti e possono essere motivate solo da un’analisi puntuale di ciò che era avvenuto e di quello che sarebbe ancora dovuto accadere.


Il colonialismo italiano

L’Italia liberale era un giovane stato con larghi strati di sottosviluppo che nel 1869 non poteva neanche immaginare un’avventura coloniale. Quell’anno però una compagnia di Genova, la Rubattino, acquistò da un potentato locale il porto di Assab con il benestare del governo di Roma. I territori della costa sul Mar Rosso erano formalmente parte dell’Impero Ottomano, che avrebbe ceduto Massaua all’Egitto solo nel 1872. Dieci anni dopo, la Rubattino consegnò formalmente Assab al governo italiano, che si impegnò in trattative con la Gran Bretagna per lo stabilimento di una colonia: i britannici erano i veri padroni del Sudan e permisero alle truppe italiane di sbarcare a Massaua nel 1875. Il congiungimento dei possedimenti italiani fu reso difficoltoso dal territorio e dalle bellicose tribù locali fino allo stabilimento della “Colonia Eritrea” nel 1890.

Iniziò in quel momento l’avventura italiana nel Corno d’Africa con uno scomodo vicino: l’Impero d’Etiopia, guidato dal Negus Neghesti[3] Menelik. Il sovrano aveva infatti conquistato tutta una serie di potentati locali, dando all’Abissinia[4] l’estensione attuale, annettendo tuttavia al nucleo amhara[5] (corrispondente all’altopiano etiopico nella zona dell’odierna Addis Abeba), regioni che non erano etnicamente omogenee ma abitate da genti che parlavano lingue diverse dall’amarico e praticavano l’Islam. Questa distinzione sarebbe rimasta fondamentale nel corso degli anni con la sistematica opposizione di queste genti agli amarici che praticavano l’antichissimo cristianesimo copto monofisita[6]. L’allargamento dei confini etiopici portò quindi a vari problemi interni che Menelik dovette risolvere, tutelandosi da possibili sconvolgimenti in politica estera: l’Abissinia infatti era circondata da possedimenti europei che impedivano una ulteriore espansione senza collidere con i preponderanti interessi di Gran Bretagna, Francia e Italia.

Fu così che, il 2 maggio 1889, l’Impero d’Etiopia e il Regno d’Italia firmarono il Trattato di Uccialli, che riconosceva i confini con l’Eritrea sul Mareb[7] mentre il governo abissino “consentiva di servirsi del governo italiano” per i suoi affari esteri[8]. L’accordo era positivo per Addis Abeba[9], che impediva una ulteriore espansione della colonia Eritrea, ma conteneva già i semi della discordia di lì a poco esplosiva. L’art. 17 infatti era tradotto in maniera diversa nelle due versioni italiana e amarica – non venne redatto un testo francese come in uso all’epoca – e per gli etiopi suonava pressappoco come “l’Imperatore può servirsi del Re d’Italia in politica estera”, mentre per Roma il Trattato di Uccialli aveva stabilito il protettorato sull’Etiopia, avendo in mano le relazioni con gli altri paesi del governo abissino[10]. Non si sa ancora se fu malafede oppure un errore di traduzione, ma nell’epoca del colonialismo imperante si potevano ancora imporre trattati a colpi di cannone senza scossoni sul piano internazionale. Questo provò a fare l’Italia nel 1896 quando vicino al villaggio di Adua incorse nella peggiore sconfitta della storia per una potenza europea su suolo africano[11]: il 1° marzo, giorno di San Giorgio (patrono d’Etiopia), 100 mila abissini sbaragliarono i 17 mila armati guidati da Oreste Baratieri, uccidendo i suoi ufficiali[12] e massacrando la metà degli effettivi italiani. Si narra che la peggiore umiliazione toccò a un soldato napoletano costretto a cantare “Funiculì Funiculà” e “Dolce Napoli” all’Imperatrice Taitù[13]. La sorte della campagna era quindi segnata per l’Italia che accettò di firmare il Trattato di Addis Abeba il 26 ottobre di quell’anno, instaurando normali relazioni bilaterali tra i due paesi e abbandonando tutti i territori occupati oltre il Mareb (ovvero la regione abissina del Tigrè).

Da quel momento Menelik iniziò un’abile politica estera volta a mettere contro Italia, Gran Bretagna e Francia, facendo concessioni economiche ora all’uno e ora all’altro paese, in modo da evitarne altre più corpose. Fondamentale in questo senso la costruzione della ferrovia Addis Abeba-Gibuti, capoluogo della Somalia Francese, che fungeva praticamente da porto commerciale dell’Abissinia. I britannici si accontentarono invece di vedere riconosciuti i loro diritti sulle acque del Lago Tana, al confine con il Sudan Anglo-Egiziano, da cui nasce il Nilo Azzurro. Le potenze europee tuttavia capirono la strategia dell’Imperatore e decisero di coalizzarsi: il 13 dicembre 1906 firmarono il Trattato Tripartito, che riconosceva a Londra e Parigi i loro limitati interessi in Etiopia in cambio di una preponderante influenza italiana nel paese. L’accordo disciplinava inoltre la possibilità di una spartizione territoriale dell’Abissinia in caso di guerra[14]. Il colonialismo italiano, come si è visto, traeva le sue origini dalla collaborazione con la Gran Bretagna e il Trattato Tripartito non faceva altro che rendere ufficiale tale posizione, seppure con paesi se non nemici quantomeno rivali della Triplice Alleanza. Con il trascorrere degli anni, l’Europa e l’Etiopia entrarono nell’epoca del caos bellico: la Grande Guerra non permise alle potenze continentali di occuparsi della guerra civile in Abissinia, che dilaniò il paese negli stessi anni a causa del golpe nel 1916 contro il reggente Ligg Jasu, “colpevole” anche di essersi convertito all’Islam[15]. La vittoria italiana a fianco della Triplice Intesa avrebbe dovuto arricchire i possedimenti coloniali: l’art. 13 del Patto di Londra disciplinava cessioni territoriali da parte di Francia e Gran Bretagna, se queste avessero ottenuto le colonie tedesche. Nel 1919 Africa Occidentale tedesca, Africa Orientale tedesca e Africa del Sud-Ovest passarono in mano agli anglo-francesi, che se le spartirono (complessivamente erano 2 412 300 km2). Solo dopo faticose trattative, l’Italia avrebbe ottenuto delle compensazioni: nel 1919 alcune porzioni di deserto dall’Algeria francese annesse alla Libia, nel 1924 l’Oltregiuba per la Somalia dalla colonia britannica del Kenya, nel 1934 il triangolo di Sarra per la Libia dal Sudan Anglo-Egiziano, nel 1935 la Striscia di Aozou per la Libia.

Per la Libia, le cessioni furono poco più che porzioni di aree desertiche di difficile (se non impossibile) difesa, mentre le colonie sul Mar Rosso di Somaliland e Costa Francese dei Somali non vennero private di alcun territorio, data la loro fondamentale importanza nel controllo dei traffici del Mar Rosso e delle vie di comunicazione dell’Impero Britannico con i possedenti indiani. L’Etiopia intanto veniva “scoperta” dal mondo: nel 1923 venne ammessa alla Società delle Nazioni, nonostante l’aperta ostilità britannica e i dubbi di Mussolini, sciolti solo dopo un telegramma di uno sconosciuto ras, Tafarì Maconnèn, che si occupava di politica estera perché cugino dell’Imperatrice Zauditù ed erede al trono[16]. I rapporti con l’Italia furono cordiali e culminarono con la stipula del Trattato di Amicizia di durata ventennale firmato il 2 agosto 1928. Tafarì aveva indotto il regime fascista a scendere a compromessi perché aveva scompaginato i piani delle tre potenze europee: l’anno precedente aveva dato in concessione la costruzione di una diga sul Lago Tana a una azienda statunitense, facendo venir meno l’influenza britannica su quella regione[17]. Due anni dopo, alla morte di Zauditù, suo cugino venne nominato Imperatore con il nome di Hailé Selassié (“potenza della Trinità”).


L’incidente di Ual Ual

Il Negus Neghesti tentò di introdurre riforme per l’abolizione della schiavitù, già emanate senza successo negli anni precedenti[18], e iniziò un’opera di centralizzazione per cercare di riportare sotto controllo le aree periferiche del paese. In questo senso andavano anche gli sforzi per “riappropriarsi” della regione dell’Ogaden, nell’estremo sud etiope, completamente desertica e priva di importanza, se non per alcune piccole oasi che servivano all’abbeveraggio delle tribù nomadi di etnia somala. Il confine con la Somalia Italiana però non era mai stato tracciato e gli italiani avevano iniziato un’opera di penetrazione che li aveva portati a stabilirsi nel 1930 a Ual Ual, località che contava ben 359 pozzi, dove avevano costruito un piccolo fortino presieduto dai dubat somali al comando del vicino posto di guardia di Uarder.

Selassié iniziò ad armare varie bande di fuorilegge per riprendere con la forza il controllo della regione, ma soprattutto designò una commissione congiunta con i britannici che tracciasse il confine con il Somaliland, probabilmente in vista di uno scambio di territori che concedesse all’Etiopia il tanto agognato sbocco sul mare. Alla fine di novembre 1934, la commissione, guidata dal comandante Clifford e scortata da armati etiopici, arrivò nei pressi di Ual Ual. Il comandante italiano Cimmaruta accorse in breve tempo da Uarder e cercò di evitare uno scontro che si faceva sempre più vicino: alla fine la parte britannica della commissione si ritirò a 20 km da quella località, ma gli etiopi, tra cui il fuoriuscito somalo Omar Samantar (considerato traditore dal governo di Roma), rimasero sulla loro posizione. Il 5 dicembre accadde quanto si prevedeva da tempo: un colpo in aria iniziò uno scontro che vide vittoriosi i dubat italiani[20]. L’incidente di Ual Ual era simile a molti altri che si erano verificati negli anni e che di solito si chiudevano con qualche riparazione in denaro e gli onori alla bandiera del paese europeo “offeso” dagli eventi, ma questa volta gli etiopi si trovarono di fronte il regime fascista.


Le origini della Guerra d’Etiopia

Espansionismo, militarismo, bellicismo, difesa dell’onore, un non velato razzismo di fondo e la volontà di propagandare i propri successi erano componenti fondamentali dell’ideologia fascista, che fino ad allora si era resa responsabile di pochi atti di forza limitati nel tempo (come nel 1923 con l’occupazione di Corfù). Ora dalle parole Mussolini passava ai fatti: il 30 dicembre 1934 il dittatore scriveva di suo pugno il documento segretissimo intitolato “Direttive e piano d’azione per risolvere la questione italo-abissina”[21]:

II problema dei rapporti italo-abissini si è spostato in questi ultimi tempi su un piano diverso: da problema diplomatico è diventato un problema di forza; un problema ‘storico’ che bisogna risolvere con l’unico mezzo col quale tali problemi furono sempre risolti: coll’impiego delle armi.

Al di là del tono bellicoso in apertura di memorandum, la storiografia si è divisa nel comprendere la reale volontà di Mussolini: conflitto vero e proprio, guerra di parata, minaccia per ottenere qualcosa dall’Etiopia o dagli anglo-francesi, semplice “bluff” sfuggito di mano[22]. In nostro soccorso viene però la Storia stessa: il 7 gennaio 1935 a Roma venivano stipulati gli accordi Mussolini-Laval, che ridimensionavano ampiamente i diritti degli italiani di Tunisi[23], cedevano pochi km di territorio somalo[24] all’Eritrea e la striscia di Aozou alla Libia (in ottemperanza al Patto di Londra) e soprattutto implicavano un protocollo segreto che lasciava “mano libera” all’Italia in Etiopia[25]. Anche su quest’ultimo punto la storiografia è divisa: da un’attenta analisi dei documenti diplomatici sembra che Laval[26] abbia realmente lasciato a Mussolini la possibilità di conquistare l’Abissinia senza opposizione francese, anche se in una lettera al dittatore del dicembre 1935 il titolare del Quai d’Orsay avrebbe giurato e spergiurato di aver voluto intendere solo una “penetrazione economica”[27].

Quello da cui però Mussolini non poteva prescindere era un accordo con la Gran Bretagna in vista dell’impresa abissina, ma questa intesa non arrivò mai. L’Etiopia infatti aveva inoltrato formale richiesta all’Italia di risolvere amichevolmente l’incidente di Ual Ual mediante arbitrato, come previsto dal trattato del 1928; al prevedibile rifiuto italiano, Addis Abeba ricorse alla Società delle Nazioni, guidata in quel momento dal Segretario Generale Joseph Avenol[28]. Mussolini non avrebbe mai compreso appieno la portata dell’interesse societario per la vicenda etiopica ma fu proprio questo il problema che portò all’esasperazione una questione che il dittatore giudicava solo “coloniale”, intendendo con questo termine una connotazione completamente marginale rispetto alla politica “vera”, quella europea. Tutta l’azione internazionale della Gran Bretagna invece si fondava sulla Società delle Nazioni e sul rispetto del Covenant, il “patto” fondativo della Lega con sede a Ginevra, che disciplinava una guerra come “giusta” solo in rari casi e dopo una lunga procedura societaria[29]. Pertanto nel 1935 entrarono in collisione lo spirito societario britannico e la politica espansionista e marcatamente sprezzante verso i trattati internazionali del regime fascista, che tuttavia cercò sempre un accomodamento con la Gran Bretagna tale da avere la possibilità di attaccare impunemente l’Etiopia.

I sondaggi dell’ambasciata londinese guidata da Dino Grandi ebbero tutti esito incerto finché Mussolini pensò di aver ottenuto quanto voluto nel convegno di Stresa (11-14 aprile). La Storia infatti aveva deciso di voltare le spalle all’Etiopia: lo stesso giorno in cui il governo dell’Imperatore presentava un formale appello al Consiglio della Società delle Nazioni sostenendo di poter essere vittima di un’aggressione[30], la Germania violava il Trattato di Versailles ripristinando la coscrizione obbligatoria (16 marzo). La Lega, che si poggiava sostanzialmente su tale accordo di pace[31], si “dimenticò” dell’Etiopia mettendosi in moto per condannare il Terzo Reich, che oltretutto aveva lasciato la Società delle Nazioni nel 1933 in spregio alla sua presunta politica antitedesca. Per volontà britannica venne organizzato l’incontro di Stresa che portò alla stesura di un comunicato finale in cui si leggeva che Francia, Gran Bretagna e Italia si impegnavano al “mantenimento della pace d’Europa”: le ultime due parole furono aggiunte personalmente da Mussolini e adottate per silenzio-assenso, interpretato dal dittatore come un lasciapassare di Londra per muovere guerra in Africa[32]. Le cose non potevano essere più lontane da quanto preventivato. Solamente il giorno seguente, infatti, il ministro degli Esteri britannico Simon affermò apertamente nel Consiglio della Società delle Nazioni che Italia ed Etiopia dovevano inaugurare l’arbitrato entro un mese o altrimenti la Lega si sarebbe incaricata di analizzare l’insieme delle relazioni tra i due paesi, che Mussolini considerava l’ipotesi peggiore. La “commissione di conciliazione” incominciò i suoi lavori con due arbitri per parte e venne utilizzata da Roma solo per procrastinare una sentenza a settembre, quando venne nominato come quinto arbitro il greco Politis, in modo da continuare i preparativi bellici[33]. Da febbraio 1935, infatti, erano in corso massicci invii di truppe e materiali soprattutto in Eritrea sotto il comando del generale Emilio De Bono; minori ma ugualmente importanti furono i preparativi in Somalia, dove erano organizzati da Rodolfo Graziani. Il 18 maggio Mussolini scrisse a De Bono comunicandogli che l’attacco sarebbe avvenuto nei primi giorni di ottobre[34], al termine della stagione delle piogge e a cavallo dell’importante festività etiopica del Mascal[35].


Tentativi di accomodamento

Giugno vide un importante cambiamento nella politica britannica: il governo MacDonald (con Simon agli Esteri) venne sostituito dall’esecutivo Baldwin, che vedeva Samuel Hoare a capo del Foreign Office e Anthony Eden ministro per la Società delle Nazioni. Questa divisione sarà di fondamentale importanza per la questione etiopica: il governo britannico, infatti, rimase costantemente diviso tra una linea conciliatrice (capeggiata da Hoare) e una intransigente (guidata da Eden), facendo prevalere l’una o l’altra a seconda delle esigenze. Un primo timido tentativo di accomodamento ci fu proprio in quei giorni. Il 24 giugno Eden, senza darne preavviso a Laval, si recò a Roma per offrire a Mussolini una via d’uscita dalla questione abissina: l’Italia avrebbe ricevuto l’Ogaden mentre la Gran Bretagna avrebbe ceduto all’Etiopia il porto somalo di Zeila e un corridoio al mare[36]. Il dittatore rifiutò sdegnato, perché accettare avrebbe significato ricevere un territorio tramite un paese terzo, facendo oltretutto diventare l’Etiopia una potenza navale concorrente. Eden gli chiese apertamente cosa volesse e Mussolini, su una carta geografica, smembrò il paese, chiedendo l’annessione all’Italia di tutti i territori conquistati da Menelik e il protettorato sul nucleo amarico dell’Abissinia.

La prevedibile reazione del ministro britannico fu un completo irrigidimento, non scosso neanche dallo scontro con Laval avuto a Parigi sulla via del ritorno. I francesi infatti erano ancora furibondi per l’accordo navale stipulato tra Gran Bretagna e Germania il 18 giugno a loro insaputa[37], che aveva mostrato l’abilità di Londra nel tenere aperte più possibilità per la difesa dei propri interessi. La Francia, coerentemente con gli accordi del 7 gennaio, cercò di non impegnarsi troppo a fondo nell’evitare lo scoppio del conflitto, ma non poteva abbandonare una politica societaria (e quindi anglofila) necessaria a difendere il territorio metropolitano dal revanscismo tedesco. Per questo Laval accettò la proposta di Hoare al Consiglio della Società delle Nazioni di tenere a Parigi dei colloqui a metà agosto nell’ambito del Trattato Tripartito, in modo da costringere l’Italia a sedersi al tavolo delle trattative: se avessero avuto esito negativo, il 4 settembre la Lega avrebbe preso in esame la vertenza italo-etiopica e la sentenza della commissione di arbitrato. Anche questa possibilità non diede alcun risultato, perché le offerte anglofrancesi non si avvicinarono neanche lontanamente alle richieste del governo italiano[38], prospettando solo una possibile zona di influenza economica. Il 4 settembre il Consiglio della Società delle Nazioni si preparava a prendere in esame la questione etiopica quando Aloisi, il delegato italiano, tirò fuori il suo “asso nella manica”: un memorandum composto da decine di pagine in cui si elencavano le motivazioni che avrebbero dovuto portare all’espulsione dell’Etiopia dalla Lega ginevrina, colpevole oltretutto di “aggressione continuata” ai danni delle colonie italiane. Il documento si reggeva soprattutto sulla questione della schiavitù. La propaganda italiana[39] infatti già da tempo urlava a gran voce che tale istituto era intollerabile e si doveva intervenire per spazzarla via: “Faccetta nera”, che ricordava agli italiani la liberazione della “moretta schiava tra gli schiavi”, era stata composta nell’aprile di quell’anno. Aloisi si spinse però troppo oltre, asserendo di non voler prendere parte alle riunioni del Consiglio finché fosse stato presente “l’indegno” delegato etiopico Uoldemariàm[40], atteggiamento che irritò notevolmente i diplomatici presenti[41]. Il 18 settembre un comitato composto da Francia, Gran Bretagna, Turchia, Spagna e Polonia propose di sottoporre l’Etiopia a una riforma radicale del suo ordinamento, ponendola sotto mandato internazionale a partecipazione italiana, ma anche questa ipotesi venne rifiutata da Mussolini. Il dittatore era inoltre estremamente preoccupato dallo spostamento di una parte della Home Fleet britannica nel Mediterraneo avvenuto quattro giorni prima per porre sotto pressione il governo di Roma. Non sapeva però che la Società delle Nazioni era già stata condannata da coloro che si erano incaricati di difenderla.


L’inizio della fine per la Società delle Nazioni

L’11 settembre, in piena notte, Laval, Hoare e Eden concordarono il piano d’azione in vista della guerra che sarebbe scoppiata di lì a poco: la Società delle Nazioni avrebbe emanato un piano di sanzioni economiche non appena l’Italia fosse stata dichiarata paese aggressore evitando il ricorso a qualsiasi misura militare, come la chiusura del canale di Suez alle navi italiane o un blocco navale alla penisola[42]. L’unica possibilità per le sanzioni di funzionare era così mutilata fin dal principio, anche se quel giorno accadde ancora qualcosa di inatteso. Nella seduta dell’11 settembre i delegati di tutti i paesi riuniti in Assemblea celebrarono un vero e proprio trionfo dei principi societari dopo aver ascoltato il discorso di Hoare, che non aveva fatto altro che ricamare all’estremo il concetto di “responsabilità collettiva alla base della sicurezza collettiva”: ciò che la platea credette di sentire era invece una dura presa di posizione che poneva Londra a capo della coalizione antitaliana. Hoare accettò il fatto compiuto, come dimostrò il discorso di Laval due giorni dopo nella stessa sede, e la Gran Bretagna assunse un ruolo che il suo ministro degli Esteri non voleva[43]. Alla fine di settembre, la situazione era ormai completamente compromessa e Selassié decise di mobilitare le sue truppe facendole arretrare di 30 km nei confini etiopici per evitare qualsiasi scontro[44]. A quel punto Mussolini decise di attaccare[45]. Il 2 ottobre la popolazione italiana venne chiamata a raccolta dal dittatore per ascoltare le sue parole:

Quando, nel 1915, l’Italia si gettò allo sbaraglio e confuse le sue sorti con quelle degli Alleati, quante esaltazioni del nostro coraggio, e quante promesse. Ma dopo la vittoria comune, alla quale l’Italia aveva dato il contributo supremo di 670 mila morti, 400 mila mutilati, e un milione di feriti, attorno al tavolo della pace esosa non toccarono all’Italia che scarse briciole del ricco bottino coloniale.
Abbiamo pazientato tredici anni, durante i quali si è ancora più stretto il cerchio degli egoismi che soffocano la nostra vitalità. Coll’Etiopia, abbiamo pazientato quaranta anni! Ora basta!
Alla Lega delle Nazioni, invece di riconoscere i nostri diritti, si parla di sanzioni.
Sino a prova contraria, mi rifiuto di credere che l’autentico e generoso popolo di Francia possa aderire a sanzioni contro l’Italia […] Io mi rifiuto, del pari, di credere che l’autentico popolo di Gran Bretagna, che non ebbe mai dissidi con l’Italia, sia disposto al rischio di gettare l’Europa sulla via della catastrofe, per difendere un paese africano, universalmente bollato come un paese senz’ombra di civiltà.
Alle sanzioni economiche opporremo la nostra disciplina, la nostra sobrietà, il nostro spirito di sacrificio. Alle sanzioni militari risponderemo con misure militari, ad atti di guerra risponderemo con atti di guerra.
È superfluo sottolineare quanto le parole di Mussolini abbiano un effettivo riscontro nella realtà secondo la prospettiva del regime fascista. Diverso è il caso del riferimento alle sanzioni: in sostanza il dittatore accettava supinamente l’imposizione della Società delle Nazioni, brandendo il bastone della minaccia per allontanare l’eventualità che tali limitazioni economiche fossero davvero efficienti. Il piano bellico è però rivelatorio di quali fossero le vere intenzioni di Mussolini: De Bono doveva avanzare repentinamente per occupare quanto più territorio possibile nel Tigrè e poi mettersi sulla difensiva per aspettare l’eventuale reazione britannica[46]. In effetti le cose andarono proprio in questo modo: il 6 ottobre venne occupata Adua e il 16 lo fu la città santa di Axum – con la sottomissione di tutto il clero copto – e la spinta si esaurì. Pochi giorni prima, ras Gugsa, genero dell’Imperatore, era passato dalla parte degli italiani.

La Società delle Nazioni non era rimasta inerme: il 7 ottobre l’Italia venne dichiarata paese aggressore e l’11 vennero promulgate le sanzioni con un voto quasi unanime in Assemblea (su 54 paesi votarono contro solo Albania, Austria e Ungheria, tradizionali alleate dell’Italia). Tecnicamente, le misure riguardavano il divieto di importazione di materiale bellico – che l’Italia produceva da sé – e alcune materie prime, mentre bloccavano completamente le esportazioni italiane, fonte di valuta forte da spendere sui mercati internazionali. Le sanzioni potevano ancora essere efficaci se si fosse arrivati all’embargo sul petrolio, proposto dal delegato canadese Riddell su pressione britannica all’inizio di novembre, in quanto tale misura avrebbe bloccato le operazioni in Africa nel giro di qualche giorno. Non si arrivò all’embargo a causa dell’atteggiamento degli Stati Uniti, legati al Neutrality Act promulgato il 31 agosto, che impediva solo di commerciare materiale bellico con paesi in guerra: Washington non ebbe la forza (e forse la volontà) di impedire ai produttori di petrolio americani i lucrosi affari con l’Italia dopo la chiusura dei rubinetti britannici, e Roosevelt non volle imporsi anche se era a favorevole a un inasprimento delle sanzioni. Le misure ginevrine divennero operative il 18 novembre e l’Italia non reagì, a parte qualche schermaglia diplomatica e la raccolta di oro alla patria del 18 dicembre. Il 14 novembre intanto le urne avevano premiato il Partito Conservatore in Gran Bretagna, rafforzando il governo Baldwin, e a quel punto Hoare aveva deciso di scendere in campo. Il 7 dicembre si recò a Parigi per alcuni colloqui con Laval che portarono al piano che reca i loro nomi[48]: all’Italia veniva offerta l’annessione del Tigrè (eccetto Axum) e dell’Ogaden in cambio di uno sbocco al mare all’Etiopia ad Assab, mentre Roma otteneva anche una zona di sfruttamento economico nel sud abissino[49]. Il progetto doveva rimanere segreto, ma venne pubblicato da “L’Écho de Paris” e dal periodico “L’Oeuvre” il 9 dicembre: l’ipotesi più probabile è che qualcuno al Quai d’Orsay lo avesse fatto trapelare per sabotarlo, cosa che puntualmente avvenne. Mussolini era riluttante perché accettarlo avrebbe posto fine alla guerra e alle sanzioni, portando l’Italia a concrete annessioni e a una ipoteca sul futuro dell’Etiopia, che nel frattempo aveva rifiutato il piano Laval-Hoare. L’opinione pubblica britannica insorse: il progetto era un premio all’aggressore e come tale andava respinto senza alcuna remora. Anche la Società delle Nazioni venne scossa dalla rivelazione, perché i piccoli stati avevano seguito Londra sulla strada pericolosa dell’interruzione dei legami commerciali con l’Italia e ora vedevano frustrati tutti i loro sacrifici. Hoare venne abbandonato al suo destino dal governo Baldwin e si presentò dimissionario ai Comuni il 19 dicembre per difendere il suo operato; quello stesso giorno il Gran Consiglio del Fascismo emanava un comunicato in cui sosteneva che il piano Laval-Hoare era stato superato dagli eventi e non poteva essere vagliato. Nuovo ministro degli Esteri britannico divenne proprio Eden e non fu più possibile alcuna conciliazione. Il governo Laval cadde invece il 24 gennaio 1936.


La svolta bellica

Intanto la guerra in Etiopia continuava. De Bono, che si rifiutava di avanzare oltre le linee di rifornimento, era stato sostituito da Badoglio per volontà di Mussolini il 12 novembre. A Graziani, che comandava il fronte somalo, non pervenne altra direttiva che restare sulla difensiva e aspettare gli eventi. Al conflitto partecipavano anche le alte sfere del fascismo, probabilmente attratte da facili allori, come Italo Balbo, Ettore Muti, Achille Starace. Roberto Farinacci, Galeazzo Ciano e i figli di Mussolini, Bruno e Vittorio, fecero la guerra comodamente dal cielo con la brigata aerea La Disperata. Prese parte ai combattimenti anche il futurista Filippo Tommaso Marinetti. Chi uscì peggio dalla guerra fu Farinacci, che perse la mano destra a maggio perché ebbe la brillante idea di pescare usando delle granate. Tuttavia, a causa del fallimento delle discussioni riguardo l’embargo sul petrolio, la vittoria italiana era dall’inizio del conflitto solo una questione di tempo. L’esercito contava più di 550mila uomini tra metropolitani e coloniali, 6mila mitragliatrici, 700 pezzi di artiglieria, 150 carri armati e un pari numero di aerei. Gli etiopi disponevano invece di 350 mila uomini (di cui solo un quarto con istruzioni militari), 400mila fucili di ogni epoca, duemila mitragliatrici, duecento vecchi cannoni e circa cinquanta cannoncini antiaerei, quattordici aerei (di cui solo 8 efficienti ma non armati) e una quindicina tra autoblindo e carri armati[50]. La sproporzione non bastò a Mussolini, che diede direttive precise per l’utilizzo di gas vescicanti e urticanti, che il governo italiano ha ammesso pubblicamente solo nel 1996, in violazione del Protocollo di Ginevra firmato dal regime fascista nel 1925 e ratificato nel 1928[51]. Il 22 e 23 dicembre avvennero i primi bombardamenti con le C.500.T[52] caricate a iprite[53] sui guadi del Tacazzè, così da respingere la controffensiva etiopica. Il 30 dicembre Selassié denunciò alla Società delle Nazioni l’accaduto: Roma negò, poi fece parziali ammissioni sostenendo che erano una ritorsione per l’utilizzo di pallottole esplosive da parte degli etiopi. Altro fatto grave fu il primo bombardamento aereo nella storia effettuato su un ospedale da campo della Croce Rossa Internazionale, riconoscibile dall’alto grazie al simbolo dell’organizzazione, deciso da Graziani alla fine del 1935. Lo stesso generale, al comando del fronte somalo, decise di irrigare con l’iprite i pozzi oltre le linee nemiche, e utilizzò anche bombe al fosgene[54], incendiarie ed esplosive. In tutta la campagna vennero sganciate complessivamente 1020 bombe C.500.T nel settore nord mentre sul fronte sud ne vennero utilizzare 267 ad iprite e 271 al fosgene[55].


La vittoria italiana

Furono i primi mesi del 1936 a essere decisivi per la rapida vittoria dell’esercito italiano. Mentre la diplomazia languiva, Badoglio avanzava: il 24 gennaio, dopo quattro giorni di combattimento, terminava la Prima battaglia del Tembien. Il 15 febbraio arrivò un’altra vittoria italiana nella Battaglia dell’Endertà presso il massiccio dell’Amba Aradam[56], mentre il 29 febbraio gli etiopi vennero sconfitti nella Seconda battaglia del Tembien. L’ultima vittoria a seguito dell’avanzata assurse agli italiani il 4 marzo sullo Scirè: c’era solo l’esercito personale di Selassié tra Badoglio e Addis Abeba. Sul fronte sud, dopo la vittoria di Graziani nella Battaglia del Ganale Doria (12-15 gennaio) gli etiopi si erano trincerati dietro la “linea Hindenburg”[57] e lì rimasero fino ai primi di aprile. Qualcosa si stava però muovendo in Gran Bretagna. Eden decise di provare il tutto per tutto e riportò in auge la possibilità di imporre l’embargo sul petrolio in un discorso alla Società delle Nazioni tenuto il 3 marzo. Anche in questo caso però la Storia non fu dalla parte dell’Etiopia: quattro giorni dopo, Hitler procedeva alla rimilitarizzazione della Renania, mettendo la parola fine alle clausole militari di Versailles. La Lega ginevrina, come l’anno precedente, si occupò di formulare una condanna del Terzo Reich, ma l’Italia non vi si associò, segno che qualcosa stava cambiando negli orientamenti di Palazzo Chigi[58]. Il 31 marzo, l’Imperatore attaccò l’esercito italiano riportando una sconfitta decisiva: dopo la Battaglia di Mai Ceu le forze di Selassié finirono in rotta e si ritirarono disordinatamente verso il Lago Ascianghi. Il 4 aprile vennero raggiunti dall’esercito italiano e dai furiosi Azebò Galla, che odiavano profondamenti gli Amhara: gli abissini che non vennero massacrati cercarono rifugio nella foresta e tornarono nei pressi del lago durante la notte per abbeverarsi. L’acqua era però contaminata dall’iprite e morirono dopo atroci sofferenze con Selassié che non poteva far altro che guardarli da una grotta nascosta. L’Imperatore si recò a pregare a Lalibelà fino al 15 aprile, tornando poi ad Addis Abeba dopo due settimane di marcia. La capitale era in aperta rivolta e aspettava solo l’arrivo degli italiani. L’Imperatore e la sua famiglia si recarono a Gibuti in treno lasciando l’Etiopia al suo destino. Selassié aveva giurato di difendere il suo paese fino alla morte e la sua fuga gli attirò critiche soprattutto in ambiente societario; una nave britannica lo avrebbe poi condotto a Gerusalemme e poi in esilio in Inghilterra, dopo aver denunciato ancora una volta le azioni italiane a Ginevra il 30 giugno. Badoglio intanto stava giungendo ad Addis Abeba con la “marcia della ferrea volontà” e il 5 maggio fece il suo ingresso trionfale nella capitale. Quello stesso giorno le truppe italiane di Graziani entravano ad Harar e il 9 maggio gli uomini dei due eserciti si incontravano a Dire Daua. La guerra d’Etiopia, costata 12 miliardi e 111 milioni di lire, 4500 morti italiani, 3500 coloniali e più di 60 mila etiopi, era finita.


9 maggio 1936-9 maggio 1945: i motivi di un legame inscindibile

Il 9 maggio 1936, dalla finestra di Palazzo Venezia, Mussolini annunciava la nascita dell’Impero, con l’Etiopia andata incontro ad una annessione pura e semplice che scatenò le ire della Francia, ora governata dal Fronte Popolare di Blum[59]. Il panorama europeo era ormai irrimediabilmente compromesso e della grande intesa tra Roma, Parigi e Londra non rimaneva che il ricordo: a giugno Mussolini rinunciò al ministero degli Esteri nominando titolare del dicastero Galeazzo Ciano, in quel momento fautore di una linea filotedesca[60]. La Società delle Nazioni cercava di rimettere insieme i pezzi ma aveva ormai acclarato il suo fallimento: il 4 luglio la Lega votava la fine delle sanzioni, diventata effettiva due settimane dopo. L’11 luglio, con il benestare italiano, la Germania compiva un passo decisivo verso l’Anschluss con la firma del trattato con l’Austria che disciplinava la Gleichschaltung, la soluzione “un popolo-due stati”, con cui Vienna si impegnava ad agire in politica estera “come stato tedesco”. Il 17 luglio la Home Fleet veniva ritirata dal Mediterraneo e quello stesso giorno scoppiava la Guerra civile spagnola. In poco più di 18 mesi l’Italia aveva completamente sovvertito i precari equilibri europei sorti dalle ceneri del primo conflitto mondiale: Mussolini, non pago, avrebbe proclamato la costituzione dell’Asse il 1° novembre 1936, legando in maniera praticamente definitiva i destini del paese con quelli del Terzo Reich.

Saranno questi gli eventi che concorreranno pesantemente a portare il mondo sull’orlo del baratro durante la Seconda guerra mondiale, per cui il fascismo italiano non ha colpe minori rispetto al nazismo tedesco. Il 9 maggio 1936 Roma era una città in festa, il 9 maggio 1945 Berlino era una città fantasma, eventi collegati tra di loro più di quanto la distanza temporale potrà mai indicare.

Christian Carnevale per www.policlic.it


Bibliografia

George W. Baer, La guerra italo-etiopica e la crisi dell’equilibrio europeo, Laterza, Bari 1970.

James Barros, Betrayal from Within: Joseph Avenol, Secretary-General of the League of Nations, 1933-1940, Yale University Press, New Haven 1969.

Renzo De Felice, Mussolini il duce. Vol. I: Gli anni del consenso, 1929-1936, Collana Biblioteca di cultura storica, Einaudi, Torino 1974.

Angelo Del Boca, Gli italiani in Africa orientale, vol. I, Dall’Unità alla marcia su Roma, Laterza, Bari 1979.

Angelo Del Boca, I gas di Mussolini: il fascismo e la guerra d’Etiopia, Editori riuniti, Roma 2007.

Eugenio Di Rienzo, Il gioco degli Imperi: la guerra d’Etiopia e le origini del secondo conflitto mondiale, Dante Alighieri, Roma 2016.

Eugenio Di Rienzo, Ciano. Vita pubblica e privata del ”genero di regime” nell’Italia del Ventennio nero, Salerno, Roma 2018.

Mario Luciolli, Mussolini e l’Europa: la politica estera fascista, Leonardi, Milano 1945 (riedito da Le Lettere, Firenze 2009).

Anthony Mockler, Haile Selassie’s war: the Italian-Ethiopian Campaign, 1935-1941, Random House, New York 1984.

Renato Mori, Mussolini e la conquista dell’Etiopia, Le Monnier, Firenze 1978.

Pietro Pastorelli, Dalla Prima alla Seconda guerra mondiale. Momenti e problemi della politica estera italiana (1914-1943), Led, Milano 1998.

Rosaria Quartararo, Roma tra Londra e Berlino. La politica estera fascista dal 1930 al 1940, Bonacci, Roma 1980 (riedita da Jouvence, Milano 2001).


[1] “France libre”, le forze sotto il comando del Generale De Gaulle, per distinguerle da quelle collaborazioniste della Francia di Vichy, formalmente il legittimo governo francese in carica, guidato da Philippe Pétain e Pierre Laval.

[2] Armenia, Azerbaigian, Bielorussia, Bulgaria, Bosnia ed Erzegovina, Georgia, Israele, Kazakistan, Kirghizistan, Moldavia, Montenegro, Russia, Serbia, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan.

[3] “Re dei re”: infatti era possibile la presenza di più “negus”, sovrani di staterelli etiopici che però obbedivano al supremo Imperatore. È interessante notare che il titolo sia condiviso da molti imperi quale quello bizantino (“Βασιλεὺς Βασιλέων, Basileùs Basiléōn”) e quello persiano (“Shahanshah”, usato addirittura fino a Reza Pahlavi).

[4] Nell’articolo si userà questo termine quale sinonimo di “Etiopia”, comune nell’italiano corrente e soprattutto nella fraseologia fascista, anche se l’etimologia è diversa.

[5] Gli amhara sono una delle etnie etiopiche, sicuramente la preponderante dal punto di vista politico. Praticano il cristianesimo e parlano amarico.

[6] La Chiesa d’Etiopia era sottoposta al Patriarca Copto di Alessandria d’Egitto fino al 1948 e in realtà condanna il monofisismo come eresia, preferendo la nozione di “miafisismo”: Cristo ha le caratteristiche di umanità e divinità, ma fuse e inseparabili in “una natura unica”, mentre il Cattolicesimo professa la duplice natura (duofisismo). La Chiesa d’Etiopia pertanto chiama se stessa con il termine Tewahedo, che nella lingua liturgica ge’ez significa “unificato”.

[7] Il Mareb è situato nella parte nord del confine eritreo-etiopico, mentre la parte sud è la depressione della Dancalia, su cui l’Italia vantava mire espansionistiche che non permisero di fissare il confine se non in maniera approssimativa (cfr. art. del Trattato di Uccialli).

[8] Art. 17 del Trattato di Uccialli.

[9] Capitale etiope proprio dal 1889, ma era poco più che un villaggio all’epoca.

[10] A. Del Boca, Gli Italiani in Africa Orientale, Vol.1, Milano 1992, p. 349.

[11] A. Mockler, op. cit., prologo.

[12] Ibidem. Morirono Giuseppe Arimondi, Vittorio Dabormida, Giuseppe Galliano e ne uscirono malconci Matteo Albertone e Giuseppe Ellena.

[13] Ivi p. XXXI.

[14] E. Di Rienzo, Il “Gioco degli Imperi”, Società Editrice Dante Alighieri, Roma 2016, p. 26.

[15] Le fonti sono discordi. Baer propende per la conversione (cfr. G. W. BAER, La guerra italo-etiopico e la crisi dell’equilibrio europeo, Laterza, Bari 1970, p. 6). Mockler è più cauto (cfr. Mockler, Haile Selassie’s War, New York 1984, pp. 5-7).

[16] G. W. Baer, op. cit., pp. 13-18.

[17] Ivi p. 19.

[18] A. Del Boca, La Guerra d’Abissinia 1935-1941, Feltrinelli, Milano 1965, pp. 32-37.

[19] G. W. Baer, op. cit, p. 61.

[20] La bibliografia abbonda, si veda alla fine dell’articolo.

[21] Documenti Diplomatici Italiani, settima serie, vol. XVI, doc. 358. Consultabile online al sito http://www.farnesina.ipzs.it/series/

[22] Anche in questo caso ogni autore riporta la sua versione cercando di far coincidere la causa al conflitto da questi identificata: De Felice sostiene che Mussolini volesse l’annessione delle aree periferiche, Quartararo che fu trascinato dagli eventi nella volontà di opporsi alla Gran Bretagna, Rochat collega la guerra ai problemi economici italiani, Chabod sostiene che il fascismo volesse una vittoria trionfale e facile, Baer ritiene che il conflitto dipendesse soprattutto dal panorama internazionale. Per la bibliografia si veda la fine dell’articolo.

[23] La questione non è marginale: una vasta minoranza dava diritto a una possibile azione di forza (e quindi ad una conquista) per “difendere” i propri connazionali minacciati dal governo locale. Un caso del genere portò all’annessione dei Sudeti al Terzo Reich nel 1938.

[24] Costa Francese dei Somali, l’odierna Gibuti.

[25] DDI, cit., doc. 403.

[26] Pierre Laval era Ministro degli Esteri della Repubblica Francese e a giugno sarebbe diventato anche Presidente del Consiglio. Indipendente ma di tendenze cattolico-ultraconservatrici, si adoperò per evitare il rafforzamento della Germania, ma alla capitolazione della Francia nel 1940 divenne il secondo della Repubblica di Vichy. Condannato a morte nel 1945, morirà fucilato dopo un fallito tentativo di suicidio con il cianuro.

[27] R. Mori, Mussolini e la conquista dell’Etiopia, Le Monnier, Firenze 1978, pp. 8-9.

[28] Joseph Avenol era francese e di tendenze cattolico-ultraconservatrici. Tenne sempre informati gli italiani nella volontà di trovare una soluzione che non indebolisse la Società delle Nazioni. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale il suo comportamento cambiò completamente: sostenne si dovesse realizzare un nuovo ordine europeo con la collaborazione tra Terzo Reich e Francia di Vichy tramite la Lega ginevrina.

[29] Art. 12 del Covenant.

[30] L’art. 10 del Covenant sosteneva che l’aggressione verso un paese della Società delle Nazioni era equiparata ad un attacco verso tutti gli stati della Lega.

[31] Il Covenant venne inserito nel trattato di pace con la Germania cosicché tutti i paesi lo firmassero, adottandolo.

[32] G. W. Baer, op. cit, p. 163; R. Quartararo, Roma tra Londra e Berlino, Jouvence, Roma 2001, vol. I, pp. 156-157.

[33] Gli arbitri furono Aldrovandi e Montagna per l’Italia, Potter (americano) e La Pradelle (francese) per l’Etiopia. Ad agosto lo stallo portò alla nomina del quinto arbitro, Politis, amico e confidente di Hailé Selassié. La sentenza della “commissione di conciliazione e arbitrato” sarebbe arrivata il 3 settembre senza che spiegasse quale dei due contingenti avesse sparato il primo colpo a Ual Ual.

[34] DDI, serie ottava, vol. I, doc. 247.

[35] Festività della “invenzione della Croce”, ovvero il suo ritrovamento da parte di Elena, madre dell’Imperatore romano Costantino, che si celebra alla fine di settembre o all’inizio di ottobre: il calendario etiopico non segue quello gregoriano.

[36] DDI, serie ottava, vol. I, doc. 430.

[37] G. W. Baer, op. cit., p. 245.

[38] DDI, serie ottava, vol. I, documenti n. 744, 752, 753, 757, 763.

[39] Anche la diplomazia fece lo stesso: costanti furono i riferimenti alla schiavitù di ambasciatori, membri dell’organigramma di Palazzo Chigi o di alti esponenti del regime fascista.

[40] Embaié Uoldemariàm era un diplomatico di religione cattolica che aveva studiato alla Sorbona e in Vaticano.

[41] G. W. Baer, op. cit., p. 413.

[42] G. W. Baer, op. cit., 427. In pratica decisero di applicare le sanzioni secondo l’art. 16 par. 1 ma non secondo il par. 2, che disciplinava il ricorso a misure militari.

[43] Ivi pp. 428-433.

[44] Ivi p. 484.

[45] Non ci fu una dichiarazione di guerra perché l’Italia presentava l’azione come “di polizia coloniale”.

[46] DDI, serie ottava, vol. I, doc. 788.

[47] A. Del Boca, La guerra d’Abissina, cit., pp. 44-50

[48] Anche la genesi del piano Laval-Hoare è dibattuta: Quartararo ritiene fosse opera di Grandi e Vansittart (Segretario Permanente del Foreign Office) mentre Mori sostiene addirittura che sia stato opera dei sovrani Giorgio VI e Leopoldo del Belgio.

[49] DDI, serie ottava, vol. 2, doc. 839.

[50] Le cifre sugli eserciti e le loro dotazioni belliche utilizzate nell’articolo sono in A. Del Boca, La guerra d’Abissinia, cit. Lo stesso vale per i dati relativi alle battaglie.

[51] I dati sull’utilizzo dei gas sono in A. Del Boca, I gas di Mussolini, Editori Riuniti, Roma 1996.

[52] La sigla significa pressappoco “bombe chimiche a tempo equivalenti a quelle da 500 kg”. Conteneva 212 kg di iprite, 1,5 kg di tritolo (e quindi due cariche), con un peso totale di 280 kg. La bomba era regolata per esplodere a 250 m dal suolo.

[53] Solfuro di etile biclorurato. L’iprite è individuabile all’olfatto in quantità 28 volte inferiori a quelle irritanti, mantiene le sue capacità aggressive da uno a otto giorni, ma è idrosolubile.

[54] Cloruro di carbonile. Gas tossico utilizzato a partire dalla Prima guerra mondiale.

[55] Graziani e Badoglio vennero citati in giudizio nel secondo dopoguerra dell’Etiopia come criminali di guerra, ma l’Italia non li consegnò. De Bono sarà fucilato dopo il processo di Verona.

[56] Alla battaglia si deve il modo di dire che associa la parola “ambaradam” a qualcosa di confusionario.

[57] Il nome deriva dall’originale Linea Hindenburg, il sistema di fortificazioni che proteggeva la Germania nel corso della Prima guerra mondiale.

[58] Sede del Ministero degli Esteri.

[59] Alleanza elettorale di comunisti e socialisti in ossequio alla politica decisa dal VII Congresso della Terza Internazionale tenuto dal 25 luglio al 30 agosto 1935 a Mosca.

[60] Sulla complessa vicenda di Galeazzo Ciano si veda E. Di Rienzo, Ciano. Vita pubblica e privata del ”genero di regime” nell’Italia del Ventennio nero, Salerno, Roma 2018.

 

 

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