C’era una volta il terrorismo

C’era una volta il terrorismo

Questo articolo è estratto dalla rivista Policlic n. 1 pubblicata il 27 maggio.

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Vivere ai tempi del terrore, vivere ai tempi della COVID

Nella mente della generazione di chi scrive, nata a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, nulla può definire meglio del terrorismo il concetto di “minaccia”. Per decenni la trattazione di questo concetto è stata investita principalmente in tale fenomeno, divenuto così caratterizzante dell’epoca. Dimenticata in quegli anni l’era della lotta tra l’impero americano e quello sovietico, il mondo si era trovato senza nemici, in quell’età dell’oro che aveva generato l’ormai noto dibattito tra gli ottimisti della “fine della storia”, guidati da Francis Fukuyama, e i pessimisti dello “scontro delle civiltà”, guidati da Samuel Huntington. Come in ogni analisi della contemporaneità, è poi arrivato l’inatteso: due aerei di linea colpiscono e abbattono le Torri Gemelle, uno colpisce il Pentagono. Un quarto si schianta in un campo della Pennsylvania, grazie all’opera di passeggeri che, in un ultimo atto di eroismo, ne impediscono lo schianto sul Campidoglio di Washington.

Se è vero che ogni generazione – e ogni individuo – sceglie da sé i simboli ai quali legare la propria esperienza storica, poco si può dire su questa generazione per quanto riguarda l’opera evocativa esercitata dall’11 settembre. Il terrorismo non era affatto un fenomeno nuovo, né si trattava dell’unica crisi generale che abbia sconvolto il sistema politico in questi anni: a esso si potevano affiancare la crisi finanziaria del 2008, la crisi politica europea del 2011, la Brexit, l’ISIS in Medioriente e in Europa, la crisi migratoria. Eppure nessuna immagine può sorpassare in feroce potenza simbolica il crollo delle torri.

Guardare al COVID da questa speciale angolazione – quella di una generazione senza guerra, ma consapevole dell’erodersi, a volte lento, a volte rapidissimo, della propria tenuta democratica, sociale ed economica – permette di vedere, attraverso la tempesta, qualche idea forse utile per il futuro.


Indietro di qualche passo

La prospettiva a volte aiuta, e dunque facciamo qualche passo indietro. Nel 2001, l’11 settembre poneva un problema estremamente serio, ma più vasto del fenomeno terroristico in sé. Il terrorismo infatti esisteva da almeno un secolo e aveva colpito con ferocia durante la Guerra fredda. L’elemento di novità derivava invece dal modello di relazioni internazionali che veniva colpito e contemporaneamente rinvigorito: il mondo unipolare. Se i gruppi terroristici della Guerra fredda erano spesso allineati ideologicamente alla bipartizione tra Stati Uniti e Unione Sovietica, ciò che veniva accresciuto con al-Qaeda era invece una nuova fiamma, quella del fanatismo religioso. Contrariamente all’esperienza palestinese, poi, sembrava che poco o nulla contassero visioni politiche manipolabili dall’esterno, il mondo di al-Qaeda era solo religione o morte. Esemplificativo era l’Afghanistan dei talebani.

Questa problematica era però solo apparentemente monolitica: sappiamo oggi, come avremmo dovuto sapere allora, che il fenomeno terroristico è solo l’epifenomeno di una realtà sociale in conflitto che il terrorismo mira a spaccare in due, traendo forza insurrezionale dove prima c’era solo l’opera eversiva di un piccolo gruppo. L’ondata che spazza via lo Stato, insomma, viene dalla società e dalla sua reazione al terrorismo, non dall’operato del gruppo in sé. La religione, in qualsiasi modo la si voglia interpretare, è solo uno dei pilastri della via del terrorismo.

In base a quanto considerato, dunque, risulta già emerso l’elemento chiave che si vorrebbe qui sottolineare. Per anni abbiamo trattato di minacce portate da attori non-statali all’integrità dello Stato e alle società umane; oggi ci troviamo di fronte a un fenomeno naturale che, mancando di nemici, non ci è facile gestire. Inoltre, dove di minacce ve ne sarebbero, non sappiamo identificarle.


Guerra ai terroristi e guerra ai regimi

Il terrorismo, alla stregua di altri fenomeni, è fortemente caratterizzato dalla natura dei propri portatori. Nella miriade di definizioni utilizzate da esperti e istituzioni, un elemento chiave è quello della natura semiclandestina dei terroristi[1], in alcuni casi legati, ma difficilmente inquadrati nelle gerarchie politiche e militari di uno Stato. Si disegna qui una linea di demarcazione tra fenomeni che violano nel profondo le norme del diritto di guerra (sia di ius in bello che ius ad bellum), ma che sembrano appartenere a entità diverse.

Da una parte, vige il codice della partecipazione pacifica dei privati alla vita politica del paese, la cui lesione è operata tramite il terrorismo. Dall’altra, vige la sfera dei crimini di guerra, dei crimini contro l’umanità e del genocidio, intese come strumenti di violazione del diritto e della coesistenza umana in cui sono gli Stati a essere attori primari. Naturalmente, la distinzione è più che porosa, dato che gli Stati possono dotarsi di supporti esterni o anche finanziare il terrorismo, mentre i gruppi terroristi possono caratterizzarsi per una natura mista che può portarli a partecipare in azioni di più ampia portata, con conseguenze vicine, se non al genocidio, certamente alla pulizia etnica. In questo senso, basti pensare alla longevità e letalità del terrorismo di matrice etno-nazionalista[2] di cui molti sono gli esempi noti, dall’Irlanda del Nord (IRA), allo Sri Lanka (Tigri Tamil), alla Spagna (ETA).

Emerge qui di nuovo la centralità del rapporto tra terrorismo, Stato e società. Se ricordiamo gli eventi successivi all’11 settembre, ricordiamo dunque anche come il contrattacco americano non sia iniziato subito, ma solo dopo settimane di attesa. Gli Stati Uniti cercavano, infatti, non una semplice rappresaglia, ma un piano più sofisticato e complesso[3]. L’attacco non era mosso semplicemente ad al-Qaeda, ma allo Stato che ne aveva resa possibile l’ascesa a potere internazionale, l’Afghanistan retto dal regime dei talebani. Un attacco, insomma, volto non solo all’attore non-statale che aveva perpetrato lo sterminio di New York, ma anche all’attore statuale che lo aveva ospitato e nutrito.

La ritirata del regime imponeva però un problema: se il regime, una volta benvenuto, veniva ora osteggiato per la sua natura integralista, imporre l’ordine nel territorio afgano era cosa tutt’altro che facile[4]. Apparentemente risolta la questione militare – con talebani e qaedisti nascosti in attesa di una buona occasione – rimaneva quella dell’ordine pubblico. Vincere una battaglia non equivale a vincere la guerra, specialmente quando si tratta di terrorismo[5].

La meccanica della violenza politica è tutto lì, nella potente e misteriosa scatola nera dove le forze, le paure, le rabbie e le speranze di milioni di individui definiscono il futuro di una o più nazioni. Se già nel dicembre 2001 i morti in Afghanistan avevano raggiunto quelli dell’11 settembre[6], negli anni che seguirono, ogni tentativo di ritirata americana dal paese, come quelle tentate in Iraq, hanno di nuovo posto sulla gola di milioni di esseri umani il terrore di una nuova guerra civile. Il regime-change aveva lasciato le sue tracce di complessità, le sue esternalità negative, i suoi “unknown unknown”, tutte quelle cose, cioè, che non sapevamo di non sapere. La scatola nera era ancora lontana dal poter essere scoperchiata affinché se ne rivelassero le meraviglie al mondo e quindi ci arrabattavamo alla ricerca del barbuto Osama, che poi alla fine fu trovato nell’ormai famosa villa di Abbottabad, nell’alleato Stato pakistano.


Democrazia e terrorismo

Mentre il mondo era alle prese con la minaccia terroristica, le istituzioni crescevano e si adattavano a una minaccia che, se capace di colpire con tanta potenza al cuore dell’America, si ergeva legittimamente a sostituta ideale del nemico sovietico.

Negli Stati Uniti nasceva un nuovo, piccolo Pentagono da 700 miliardi di dollari di spesa in dieci anni, il Department of Homeland Security. Venivano inoltre espansi i poteri di polizia[7] e venivano introdotte nuove misure di sorveglianza. È anche questo ormai un cliché del dibattito pubblico americano, ma vale la pena sottolinearlo: l’opera di riallineamento metteva ai margini problematiche di safety meno appariscenti, ma sicuramente più letali. Dopotutto, Il terrorismo, come il virus, scava a fondo nel nucleo più intimo della vita politica di una comunità, rivelandone, tra le altre cose, anche la segreta classificazione delle tipologie di morte. Rivestita del manto di invisibilità donato alla morte dalle società tendenzialmente benestanti, tale lista riordina le morti in base a un criterio di normalità/accettabilità strettamente legato alle idee più profonde che animano tali società. È normale morire su di un aereo schiantato contro un grattacielo? È normale morire di malattie cardiovascolari per un’alimentazione insalubre? È normale morire in un incidente stradale? E morire in un cantiere per l’assenza di misure di sicurezza?

Ognuna di queste domande scopre un modello organizzativo, un settore economico, uno stile di vita diffuso, un implicito modello di accettazione della mortalità. Il terrorismo, in quanto modalità di violenza politica, scoperchia tutte queste domande, sperando che da ciò ne derivi un riallineamento sociale che li veda favoriti, creando una linea di divisione che permetta ai terroristi di impiantarsi in uno dei due campi avversi, divenendo una forza rilevante nella comunità.

Certo, va detto che molto deriva dalla nostra capacità di concettualizzare ed esprimere tali domande. Ma va anche detto che queste si esprimono implicitamente, anche quando non le esprimiamo. Se le parole sono il modo in cui proviamo a decidere del nostro mondo, è pur vero che il percepito – il sentito e non espresso, non messo in parole – continua a incidere profondamente su di noi. Anch’esso orienta, discute, decide. Quell’11 settembre abbiamo deciso che il terrore era un nemico che poteva essere sconfitto e che il terrorista era il suo feticcio: bastava bruciare tale feticcio nella notte, perché i terrori potessero così fuggire e noi essere rimessi dai nostri peccati. Ciononostante, il terrorismo come fenomeno criminale è ancora lì, placidamente disponibile all’opera continua di analisi, prevenzione e repressione animata da migliaia di esperti e professionisti. Viceversa, il terrore non si può sconfiggere, ponendosi come elemento essenziale e profondo della natura umana. Anche il terrore, però, dovrebbe oggi essere l’oggetto privilegiato della nostra analisi, perché infesta oggi un altro ospite, l’untore. Come il terrorismo dovrebbe suggerire, l’ulteriore sacrificio e la conseguente fiamma non emenderanno l’umanità dalla paura dello stare al mondo.


Guerra al terrore

Parliamo dunque di terrore – che dopo la morte è un filo rosso di questo allegro articolo – e potremmo cominciare dicendo qualcosa forse noto a chi studia terrorismo: l’iperproduzione letteraria sull’argomento, conseguenza dell’evento di cui sopra.

L’iperproduzione è qualcosa di noto a studiosi che da decenni ormai hanno costruito veri e propri pilastri degli studi sul terrorismo, nomi che i Terrorism Studies li hanno creati dove prima non c’erano. E che oggi, intervistati da “The Atlantic” sanno ancora aggiungere materiale. Così accade, tra gli altri, a Brian Jenkins, che spiega l’iperproduzione non tanto come legata al fenomeno in sé, quanto alla moda e alla nostra ansia collettiva. L’ansia è in questo senso strumentale alla paranoia, alla xenofobia e alle politiche illiberali, aggiunge Bruce Hoffman, ma non aiuta alla prospettiva storica. Gli “old timers” degli studi sul terrorismo, ricorda sempre Jenkins, potrebbero non avere una risposta:

Fui invitato a testimoniare di fronte al Congresso per la prima volta nel 1974 […] ricordo che una delle prime domande che un membro mi rivolse fu “signor Jenkins, come poniamo fine al terrorismo?”. Credo che mugugnai per diversi minuti, indicando che ci sono cose al di là anche del potere del Congresso degli Stati Uniti. Se mi dovessero porre la stessa domanda oggi, non sono sicuro che saprei offrire una risposta diversa

In questo è insita la natura problematica, affascinante e profonda del terrorismo. Non dà certezze assolute, ma invece scava nella natura umana, nella politica, nella storia e nelle scelte collettive e individuali che infine portano al fenomeno che spesso associamo istintivamente al terrorismo, cioè l’attacco. Prima, attorno e dopo l’attacco, però, c’è una società.


Cavalieri, pirati e terroristi

Si potrebbe pensare che il terrorismo sia di per sé un fenomeno unico nella sua capacità di rimettere in discussione i rapporti tra attori non-statali, società e potere statuale. Il terrorismo, infatti, mostra una sua dinamica temporale di invidiabile complessità. Gode di precursori (zeloti, assassini e thugs), di un nobile predecessore statuale (il terrore rivoluzionario francese), di prime forme contemporanee già a inizio Novecento[8]. Va evidenziato però che altri fenomeni hanno seguito parabole simili, nel corso della storia.

Il primo di essi riguarda certamente i cavalieri. Noti e idealizzati oggi come parte del sistema feudale, i cavalieri furono destinati, con la caduta di tale sistema, a vedere finita la propria esperienza storica. Già con lo sviluppo delle cosiddette “città libere” in seno al Sacro Romano Impero, la nascente spinta borghese-capitalista aveva scavalcato la piramide gerarchica feudale. Le città libere, infatti, volevano relazionarsi direttamente con il sovrano[9].  Ad esse andavano così privilegi giuridici e fiscali. I signori feudali, invece, dovevano affrontare la depressione economica del XIV secolo e il calo dei prezzi cerealicoli, spingendosi così a utilizzare il proprio controllo del territorio per imporre dazi doganali[10]. In questo contesto, la piccola nobiltà era ridotta al puro utilizzo delle armi, spesso esercitato nelle forme del brigantaggio e della rapina, a volte proprio per conto delle città libere[11]. Al concludersi del periodo feudale e all’avvento di quello capitalista, i signori, che del sistema feudale vivevano, erano già di fatto in conflitto con il nuovo mondo che stava prendendo piede.

In una Germania già tormentata dalla Riforma luterana, prendeva forma un caso esemplare della caduta dei cavalieri. È l’anno 1522, quando viene fondata l’“alleanza fraterna” tra cavalieri delle zone renane e franche dell’impero[12]. In un tentativo di riprendere qualche forma di controllo, l’alleanza decise di portare l’assalto all’arcivescovo di Treviri, ma mancando dell’atteso supporto popolare, i cavalieri dovettero attestare lo stato di stallo, stringendo Treviri in assedio. In soccorso dell’arcivescovo, giunsero però i principi protestanti di Hessen e Palatinato. È qui che il simbolismo si congiunge con la storia, perché l’intervento non pone solo fine a un assedio militare tra i tanti. Mentre il feudatario a guida dell’azione, Franz von Sickingen, fugge e trova la morte nel proprio castello, si esaurisce l’ultima fiammata dei cavalieri tedeschi:

[…] contemporaneamente, un’altra robusta azione militare a vasto raggio, compiuta dalle truppe sveve di Giorgio Truchsess von Waldburg contro le bande di cavalieri franchi e svevi, portò ad una “bonifica” del territorio costata distruzione e incendi dei castelli e roccaforti di questi cavalieri. Con la fine dell’estate del 1523 il problema sociale dei cavalieri non esisteva più. L’alleanza impensabile tra prìncipi cattolici e protestanti per sconfiggere il Sickingen dimostrava come, più della nuova religione, l’aristocrazia imperiale fosse attenta all’ordine interno e che, pro o contro Lutero che fosse, le conseguenze sociali che ne sarebbero scaturite dovevano essere rigorosamente e concordemente controllate.[13]

Così finiva nell’Impero quella che per secoli era stata un’idea di gestione del territorio e della sicurezza pubblica, affidata a privati che potessero con la violenza mantenere un qualche tipo di ordine. La letteratura ne riporterà in auge la memoria, in parte romanticizzando in un intento iconografico, in parte ridicolizzando proprio tale moda. Una parabola che si conclude simbolicamente proprio con il Don Chisciotte di Cervantes, sul filo tra princìpi morali e follia[14].

Una storia non troppo diversa viene raccontata dalla pirateria moderna. Guardando al fenomeno, in particolare quello caraibico, risulta evidente una parabola molto simile. La pirateria, infatti, nasce anche come strumento di controllo dei mari nelle aree non raggiungibili dagli Stati europei. Verso la fine del XVII secolo, però, con il rafforzamento e l’accentramento di potere nelle mani degli Stati, la pirateria diveniva sempre più un elemento di conflitto, più che di mantenimento di un “qualche ordine”. Ai pirati si chiedeva di recedere dai propri crimini, garantendo così l’espansione sull’Atlantico dei traffici commerciali e del movimento di uomini. Finiva così l’età dell’”imperialismo piratesco”, abbandonando lo stato di ambigua tolleranza che aveva accompagnato la storia di questo fenomeno solitamente considerato ostile allo sviluppo umano. Non sembra qui casuale che una delle branche più importanti del diritto internazionale sia proprio il diritto del mare, un diritto che si occupa cioè di quella estesa porzione di mondo che – almeno in alto mare – riconosciamo come res communis omnium, un bene appartenente a ciascuno[15].

Quando anche per i pirati giunse il momento della fine, non venne giù solo un fenomeno criminale di enorme diffusione e di implicazioni globali, venne meno anche quel mondo che aveva dato vita a realtà come Tortuga, capace da sola di esemplificare i complessi rapporti tra attori non-statali e governi. Parliamo infatti di un’isola che, minacciata dagli spagnoli, aveva visto il proprio avamposto reso inespugnabile da Jean Le Vasseur, inviato ai bucanieri dal governatore di St. Kitts. Quest’ultimo, però, si sarebbe poi dichiarato leader di Tortuga, avrebbe reso l’isola indipendente da St. Kitts e sconfitto i nemici spagnoli. Un mescolarsi di poteri tanto complesso quanto indicativo del difficile rapporto tra potere statuale e legittimità, specialmente in territori non fattivamente governabili.

Con lo sviluppo dei commerci e l’ascesa degli Stati, però, tale ingovernabilità non sembra più né auspicabile, né imprescindibile. È dalla fine del Seicento che, dunque, i pirati divengono senza eccezioni nemici dell’umanità, depredando ogni possibile nemico e subendo al contempo l’abbandono del supporto da parte degli Stati europei, ora forti politicamente, militarmente ed economicamente. La Royal Navy, vedendo l’azione pirata svolgersi anche contro i vascelli inglesi, viene chiamata all’azione.

Non bastò ovviamente lo sforzo inglese, solo molto lentamente affiancato da quello francese e in parte vanificato dalla presenza pirata nelle colonie americane. Servirono anche le pubbliche esecuzioni, le condanne espresse dal clero e dai magistrati, perché fosse noto alla popolazione cosa succedeva a scegliere la via della pirateria. Però, con il raggiungimento di un fragile accordo tra gli Stati per la fine del perpetuo conflitto sul mare, nel quale i pirati si erano inseriti, finiva l’era della pirateria nei Caraibi.

Insieme a cavalieri e pirati, il terrorismo condivide un complesso rapporto con l’autorità pubblica, spesso rappresentato dall’alternarsi di fenomeni di legittimazione (il cavaliere come parte del sistema feudale, il pirata corsaro, il freedom fighter) e di abiura (il cavaliere senza causa, il pirata e il terrorista). Con la fine di un qualsiasi sistema di sicurezza internazionale vigente, deriva inevitabilmente la dannazione di tali pratiche, divenute verso il loro epilogo mere pratiche di privati, prive di ogni impatto globale. Il terrorismo è oggi, con la pirateria, un crimine riconosciuto a livello internazionale, anche se la sua natura consuetudinaria è meno chiaramente riconosciuta[16].


I frammenti dello Stato e la lotta per il potere

Il terrorismo oggi è sicuramente rallentato, ma, spiega Lydia Khalil su “War on the Rocks”, non si è fermata la nostra tendenza a sovrastimare il suo impatto, anche di fronte al fatto globale causato dalla pandemia, che dovrebbe farci rimettere nella giusta priorità i fattori di rischio. Non solo, per la COVID vengono usati gli stessi strumenti usati per il terrorismo.

Nel frattempo, il Consiglio europeo ha riportato in auge il problema del bioterrorismo, una tipologia di terrorismo già estremamente marginale, ma molto adatta a catturare l’immaginario comune, sulla scia della paura del “superterrorista” capace di tutto. Riprende così la marcata – pessima – tendenza a trattare eventi anomali come esemplari del terrorismo. Una tendenza iniziata con l’11 settembre e il suo spaventoso numero di vittime e oggi ripresa con l’attacco alla metropolitana di Tokyo, un evento terroristico quasi unico, per il suo uso terribilmente efficace delle armi biologiche.

La COVID potrebbe – dovrebbe – dirci che viviamo da decenni sotto un’indefinita cappa, rappresentata dalla grande infatuazione per la sicurezza contro terzi, quella security muscolare che dà il senso di avere il controllo e quindi di poter essere uomini d’azione contro altri uomini (maligni) d’azione. Mentre sprechiamo costantemente tutto questo eroismo da wrestling, dobbiamo guardarci dal rischio che i cocci dello Stato vengano presi in mano da chi li utilizzerebbe per tagliare in pezzi la società, facendo dello Stato stesso la leva per il proprio potere. E non parleremmo di attori non-statali, ma di presunti uomini delle istituzioni, pronti a un proprio, nuovo feudalesimo.

Contemporaneamente, un altro pericolo prosegue nell’erodere lo spazio abitabile del pianeta, pur offrendo limitato conforto allo spirito d’azione eroico che vorrebbe tutto dominare e tutto inibire in virtù della sua capacità di far prevalere il controllo sul caos. Questo fenomeno potremmo chiamarlo con i molteplici nomi delle minacce non naturali, ma che non sanno “giovare” di nemici armati da neutralizzare. Per quanto possa essere terrificante la quarantena, nulla come essa ci ha spinto a cambiare le nostre vite come fenomeni che già reclamano migliaia di morti. In Italia si muore, principalmente, di malattie cardiovascolari, cerebrovascolari, tumori. In Italia si muore di incidenti stradali. Si muore, pur di meno, sul posto di lavoro. Se dunque con un meme abbiamo chiesto agli Stati Uniti di salvare il mondo “like in the movies” (“come nei film”), un altro meme dovrebbe esserci d’aiuto nel considerare che gli studi sul terrorismo sono belli e affascinanti, ma c’è già un elefante nella stanza, e potrebbe farci estinguere. Se vogliamo resistere alla COVID, il terrorismo può farci capire che il nostro mondo è molto più complesso, ambiguo, sfaccettato e potentemente più vivo ed evocativo di quanto le nostre paure possano anche solo immaginarlo. La vera, prima speranza è che tali paure siano rivolte nella direzione più giusta e – soprattutto – che con questo nuovo terrore, giunga la consapevolezza che il terrore può servire solo se riorienta le priorità verso ciò che è necessario.

Francesco Finucci per www.policlic.it


[1] A. Schmid, Terrorism – The Definitional Problem, in “Case Western Reserve Journal of International Law”, XXXVI (2004), pp. 375-419, url: https://scholarlycommons.law.case.edu/cgi/viewcontent.cgi?article=1400&context=jil [visitato il 14/05/2020].

[2] L. Richardson, What terrorists want, John Murray, Londra 2006, p. 69.

[3] P. Rogers, A war on terror, Pluto Press, Londra 2004, p. 3.

[4] P. Rogers, A war on terror, Pluto Press, Londra 2004, pp. 26-27.

[5] L. Richardson, What terrorists want, John Murray, Londra 2006, pp. 220-221.

[6] P. Rogers, A war on terror, Pluto Press, Londra 2004, p. 36.

[7] W. Bloss, Escalating U.S. Police Surveillance after 9/11: an Examination of Causes and Effects in “Surveillance and Criminal Justice”, IV (2007).

[8] L. Richardson, What terrorists want, John Murray, Londra 2006, pp. 40-56.

[9]  A. Aubert, P. Simoncelli, Storia moderna: dalla formazione degli Stati nazionali alle egemonie internazionali, Cacucci, Bari 2011, p. 27.

[10] Ivi, p. 28.

[11] Ibidem.

[12] Ivi, p. 133.

[13] Ibidem.

[14] Ivi, p. 606.

[15] A. Cassese, Diritto Internazionale, Il Mulino, Bologna 2006, p. 78.

[16] A. Cassese, Diritto Internazionale, Il Mulino, Bologna 2006, pp. 184-187.

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