Desiderio e asservimento

Desiderio e asservimento

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Prefazione

A cura di Francesco Finucci

Nell’analisi dei rapporti di potere, molto si è detto riguardo ai meccanismi utilizzati dai poteri per mantenere la propria egemonia sui sistemi sociali nei quali si muovono. Nel contributo che segue, tuttavia, la dinamica si articola non solo sul potere in sé, ma anche sul rapporto tra la sua crisi e la crisi di senso, tra la perdita dell’autonomia riguardo a determinate scelte e la perdita dell’autenticità, intesa in senso heideggeriano come dominio del “Si anonimo”.

È così che, orientato in ottica hegeliana e marxiana, il rapporto tra servo e padrone si delinea più in profondità. Non solo nella meccanica dei rapporti di forza, ma anche nella coscienza, individuale e collettiva. È nelle forme di questa seconda modernità, quindi, che la percezione delle catene viene a sfumarsi, disegnando un filo rosso tra le vecchie compensazioni consumistiche delle “passioni tristi” spinoziane e la nuova, più massiccia e penetrante “ingegneria dei desideri e degli affetti”. È qui che il “Si anonimo” si dimostra strumento di compensazione esistenziale, leva per le prospettive di vita degli individui, argine perché quelle già citate passioni tristi non strabordino. Tanto si parla della diarchia distopica di Orwell e Huxley – tra distopia della disperazione e distopia dell’euforia – ma è nella dinamica “servo-signore” che si offre forse uno strumento diverso, autenticamente dialettico e politico, perché si possano dirimere le relazioni che costituiscono questo potere, oggi meno visibile, meno disposto a essere platealmente tale, più discreto, ma anche a tratti più inquietante.

Tanto inquietante, questo potere, perché percepito come strumento non solo di gestione delle risorse, ma di persuasione, partecipazione a un ideale condiviso quanto artefatto. Se, come emerge dal saggio, “il denaro è divenuto il nuovo Dio”, verrebbe da aggiungere che l’azienda è il suo profeta. L’azienda è infatti nodo centrale, tempio dell’assegnazione di valori che l’individuo possa percepire come condivisi, ma anche di posizioni in un “gradiente del dominio” esteso a sufficienza perché il servo abbia a sua volta un proprio servo. E tanto sembra bastargli.

È questa, infatti, una domanda che pervade l’intero saggio, alimentandone la natura inquieta: può questo bastare? Se la dialettica “servo-signore” sembra permanere ed è, forse, inevitabile, straniante è il pensiero che sia sufficiente offrirci un servo per dimenticare la nostra stessa servitù. Quale, dunque, l’ambito della nostra autonomia? Domande tanto destabilizzanti in quanto legate a doppio filo alla consapevolezza della natura pervasiva di tale struttura del potere, che a volte appare soffocante e infestante, a volte sembra una risposta radicata profondamente nell’esistenza umana, nella chimica più recondita della sua sussistenza come società.

The Scarecrow (Fonte: Rant 73/Flickr)


Impersonalità

Quella che oggi viene definita “crisi economica” appare essere, in prima istanza, una crisi determinata da una perdita di capacità di consapevolezza da parte dell’individuo contemporaneo. Questi è sempre più esposto a messaggi e contenuti predicanti progresso e benessere, intesi come forme costitutive di un’unica realtà possibile, realtà che in verità non esiste se non come un “prodotto”, a volte privo di senso, dove è impossibile situarsi in modo autentico.

In un mercato dove l’onnipotenza astratta e l’impotenza concreta coesistono dialetticamente, gli individui tendono a collocarsi atomisticamente, sempre meno in relazione tra di loro e sempre più ripiegati su se stessi. Questa condizione esistenziale tutta contemporanea, orientata a una condotta individualistica finalizzata al perseguimento del proprio utile, se da una parte genera l’illusione di essere liberi e moralmente legittimati in tale perseguire, di fatto “getta” l’essere nella assoluta medietà del “Si impersonale”: il “Si dice”, “Si deve”, “Si fa” divengono, infatti, modalità positive inautentiche che denotano una adesione formale al sistema simbolico condiviso. Il dominio del Si, in assenza del negativo, impone subdolamente ciò che mediamente conviene al potere; detto in altri termini, ogni affermazione è negazione di una porzione della libertà individuale di poter essere.

Ne consegue che ogni individuo, nello sforzo di autoconservazione, cerca di porsi nel contesto sociale di appartenenza attraverso l’accettazione delle logiche imposte dal mercato, perché così “Si conviene”. In questa prospettiva, la soddisfazione del desiderio diviene una modalità individuale che sottintende la tendenza inconscia verso una adesione formale

Riassumendo attraverso il lessico heideggeriano:

il Si anonimo e impersonale, manipolato dalla sovrastruttura simbolica dominante, è il neutro, ciò che è di tutti e di nessuno. Per ciò stesso, esso produce il livellamento di tutte le possibilità di essere: abbassa ogni individuo al grado impersonale della medietà irriflessa e assunta acriticamente come naturale in quanto socialmente data.[1]

Il sistema capitalistico, attraverso le sue strategie di arruolamento imprenditoriale, opera una costante ridefinizione del “se-stesso”, sostituendo al “Sé” il “Si” impersonale e lasciando convergere la declinazione “stesso” verso la medietà. Quest’ultima riflette la proporzione del controllo quotidiano esercitato dai mezzi messi in campo dalla mainstream in tale artefazione del “Se autentico”.

Heidegger sembra suggerirlo nella sua analitica esistenziale:

L’essere nel mondo, cui appartiene con uguale originarietà l’essere-presso l’utilizzabile e il con-essere con gli altri, è sempre in vista di se-stesso. Il se-stesso è però, innanzi tutto e per lo più, un se-stesso inautentico, un Si-stesso. L’essere nel mondo è sempre già deietto. La quotidianità media dell’Esserci può quindi essere determinata come l’essere nel mondo deiettivo-aperto e gettato-progettante, per il quale, nel suo esser-presso il «mondo» e nel con-essere con gli altri, ne va del suo stesso poter-essere più proprio.[2]

Il concetto di cura autentica diviene allora un progetto (in)accurato a cui deve sottostare l’individuo, il quale, nel suo essere gettato, progetta le proprie possibilità d’essere e di agire, secondo l’ordine condiviso, finendo per comprendersi in esso e in base ad esso.


Dialettica servo-signore

Il rapporto “servo-signore” analizzato da Hegel è un passaggio fondamentale per la comprensione di quella che oggi si configura come opposizione tra sistema capitalistico e asservito. Se per Hegel il desiderio è la potenza che spinge gli elementi della contraddizione ad agire l’uno sull’altro attraverso uno sviluppo dialettico che nella sua sintesi (aufhebung) vedrà il servo acquisire consapevolezza e autodeterminazione, nel sistema capitalistico contemporaneo diviene un affetto costruito e introiettato in modo ingegneristico nel corpo sociale.

Hegel definisce il signore la “coscienza essente per sé”, mediata da un’altra coscienza, e all’essenza di quest’altra appartiene l’essere sintetizzata con un essere autonomo, cioè con la cosalità in generale. Il signore, pertanto, si rapporta mediatamente a una cosa in quanto tale, ossia all’oggetto del desiderio, e all’autocoscienza a cui la cosalità è essenziale:

Il signore si rapporta dunque mediatamente al servo attraverso l’essere autonomo. Il servo, infatti, è legato proprio a questo essere, da cui non ha saputo astrarre nel corso della lotta e che adesso costituisce la sua catena: egli si è rivelato non-autonomo proprio perché ha voluto avere la sua autonomia nella cosalità. Il signore, invece, avendo dimostrato nella lotta di considerare l’essere autonomo soltanto come negativo, è la potenza che domina questo essere. Ora, poiché il signore domina su questo essere e questo essere è a sua volta la potenza che domina sull’altro, cioè sul servo, ecco allora che la conclusione di questo sillogismo è: il signore domina su questo altro.[3]

L’autocoscienza autonoma è quella del signore in quanto ha negato la sua autonomia nella cosalità; parimenti, la coscienza non autonoma è quella del servo proprio per aver voluto autonomia nella cosalità. In questo modo, inserendo il servo fra sé e la cosa, il signore riesce a negarla e a goderne allo stato puro:

In parallelo, il signore si rapporta mediatamente alla cosa attraverso il servo. Anche il servo, infatti, in quanto autocoscienza in generale, si rapporta negativamente alla cosa e la rimuove; per lui, però, la cosa è a un tempo autonoma, ed egli pertanto, pur negandola, non può annientarla del tutto: il servo può solo elaborare la cosa, trasformarla con il proprio lavoro. In virtù di questa mediazione del servo, per converso, il rapporto immediato diviene per il signore la negazione pura della cosa, diviene cioè il godimento; e ciò che non era riuscito al desiderio, annientare la cosa e appagarsi nel goderne, riesce adesso al godimento del signore. Il fallimento del desiderio era dovuto all’autonomia della cosa; adesso, invece, inserendo il servo tra la cosa e se stesso, il signore si conclude sillogisticamente solo con la non-autonomia della cosa, e quindi ne gode allo stato puro. Il lato dell’autonomia della cosa egli lo lascia al lavoro del servo.[4]

Questo rapporto finirà per rovesciarsi definitivamente. Il lavoro, sostiene Hegel, forma e coltiva, pertanto la coscienza che lavora giungerà a intuire l’essere autonomo come se stessa; attraverso il lavoro, la coscienza servile finisce per formare e trasformare la realtà imprimendo se stessa nell’oggetto che lavora e produce:

Il rapporto negativo verso l’oggetto diviene adesso forma dell’oggetto stesso, e diviene qualcosa di permanente, proprio perché l’oggetto ha autonomia agli occhi di chi lo elabora. Questo termine medio negativo, cioè l’attività formatrice, costituisce nello stesso tempo la singolarità, il puro essere per sé della coscienza: con il lavoro, la coscienza esce fuori di sé per passare nell’elemento della permanenza. In tal modo, dunque, la coscienza che lavora giunge ad intuire l’essere autonomo come se stessa. […] Ora, questo negativo oggettivo è proprio quell’essenza estranea dinanzi a cui la coscienza servile ha tremato.[5]

L’analisi fornita dal filosofo tedesco, nel suo andamento speculativo generale, delinea un passaggio epocale per l’atteggiamento critico verso i rapporti di forza in ambito sociale. Come è ben noto, il pensiero di Hegel influenzò Marx nelle sue intuizioni riguardo alla condizione di alienazione del lavoratore salariato[6].

Il lavoratore salariato è la figura in cui oggi si declina il servo oggetto della disanima hegeliana; egli, a differenza della figura servile ritratta da Hegel, è in grado di desiderare e appropriarsi della cosa e quindi di goderne con gioia, aderendo inconsciamente al progetto di accumulo su leva “affettiva” proposto dal capitale.

In tale prospettiva, occorre evidenziare un passaggio storico fondamentale, che conduce alla realizzazione del piano metodologico di allineamento degli “affetti” imposto subdolamente dalle politiche neoliberiste: se il progetto fordista arginava le passioni tristi, generate dalla necessità del soddisfacimento dei bisogni primari, attraverso l’illusione prodotta dagli affetti gioiosi determinati dall’accesso allargato alla forma merce, oggi le strategie neoliberali sviluppano veri e propri piani di ingegneria dei desideri:

il morso della fame era un affetto salariale intrinseco, ma era un affetto triste; la gioia consumistica è sì un affetto gioioso, ma è estrinseca; l’ingegneria dei desideri neoliberista, invece, comincia a produrre affetti gioiosi intrinseci. Ovvero intransitivi e non consegnati ad oggetti esterni all’attività del lavoro stesso. È dunque l’attività che occorre ricostruire oggettivamente e nell’immaginario come fonte di gioia immediata.[7]

Il desiderio del lavoro salariato non è più soltanto il desiderio dei beni che il salario consente di acquisire, ma rappresenta anche il desiderio dell’attività stessa condotta dal soggetto, il quale è soggiogato dall’illusione di una finta realizzazione personale che in realtà è quella dell’organizzazione aziendale. Analizzando una espressione di uso corrente, osserviamo come la forma riflessiva “realizzarsi”

tradisce l’illusione soggettivista che, assimilando interamente il soggetto e il suo desiderio – poiché realizzarsi e realizzare il proprio desiderio fanno un tutt’uno – vuole dare ad intendere che il soggetto non possa essere altro che l’origine esclusiva del suo proprio desiderio e coincidervi perfettamente. Una volta contratto questo desiderio, evidentemente tagliato su misura per l’organizzazione ma diventato tutto il suo, l’interessato acconsente. E, di sua sponte, lo fa con gioia.[8]

Così, la società neo-liberale, nell’ambito delle sue strutture, produce suggestioni intrinseche funzionali all’impresa.

Similmente alla forma riflessiva considerata, rileviamo il paradosso generato dall’espressione “nessuno ti obbliga”. Come se l’individuo, in opposizione critica, fosse realmente libero di scegliere se aderire o no ai modelli di auto-realizzazione imposti dal sistema azienda, quando la negazione di essi determinerebbe, ipso facto, l’esser “tagliato fuori” dal mondo produttivo.

Se con Hegel l’opposizione dicotomica si articolava su una stratificazione sociale ben definita tra aristocrazia e popolo servile, oggi le strategie capitalistiche tendono a minimizzare tale opposizione, che pur resta latente, attraverso le nuove forme di appagamento personale proposte su scala aziendale, espressioni della illusoria libertà di sentirsi parte in causa nella realizzazione del progetto capitalista.

Ne consegue che l’individuo, nel suo operare quotidiano, vive il proprio atteggiamento e il proprio relazionarsi socialmente come comportamento apparentemente libero, quando in realtà è fortemente condizionato a livello emotivo dall’esterno. Il tutto si inserisce nel solco tracciato dai rapporti di produzione teorizzati dal redivivo Marx. Il desiderio di intraprendere la produzione di beni materiali in forma collaborativa ha determinato la nascita del rapporto salariale, sulla cui base si sono andati configurando i rapporti che strutturano la società contemporanea; successivamente, l’accesso facilitato al denaro ha determinato l’affermazione delle logiche commerciali di natura persuasiva, che fanno leva sulla pulsione individuale diretta al soddisfacimento del desiderio di acquisto e rendono così l’individuo sempre più assoggettato al libero mercato.

Rispetto all’intuizione hegeliana, oggi assistiamo a una convergenza tra il desiderio del signore e il desiderio individuale; in questo incontro, l’individuo si illude di servire se stesso, ma è in realtà asservito al sistema.


L’illusione teologica oggi

Come illustra Deleuze nel suo studio su Spinoza, l’uomo si immagina felice e libero, attraverso il gioco di una triplice illusione:

la coscienza placa la propria ignoranza rovesciando l’ordine delle cose, prendendo gli effetti per cause (illusione delle cause finali). La coscienza fa, dell’effetto di un corpo sul nostro, la causa finale dell’azione del corpo esterno; e fa, dell’idea di questo effetto, la causa finale delle sue proprie azioni. Di conseguenza, essa prenderà se stessa come causa primaria e invocherà il suo potere sui corpi (illusione del libero arbitrio). E quando la coscienza non può immaginarsi come causa primaria, né organizzatrice dei fini, essa invocherà un Dio dotato di intelletto e volontà, operante secondo cause finali o decreti liberi, per preparare all’uomo un mondo a misura della sua gloria e dei suoi castighi (illusione teologica).[9]

Il modo di intendere l’illusione teologica in una società sempre più secolarizzata resta problematico. Tuttavia, è possibile affermare che il denaro è divenuto il nuovo Dio; è l’illusione capitalistica venerata dai suoi adepti.

Nell’ambito di questa analogia teologica, è interessante osservare quanto sostiene Lordon riguardo agli affetti di empatia, attenzione, sollecitudine e sorriso, imposti dalla performance comportamentale richiesta in ambito aziendale, dove le emozioni prescritte devono essere autenticamente provate:

esattamente come la chiesa, dal XVII secolo, per accordare l’assoluzione, non chiede più solo la contrizione, ovvero l’esteriorità di parole profferite con un rito, sempre sospette di derivare da una meccanica insincera, ma l’attrizione, ovvero la presenza nel confessato di un autentico amore di Dio a partire dal quale le parole devono derivare: in altri termini una disposizione “interna”. In conformità alla sua dinamica storica, la Chiesa non fa altro che estendere alla massa dei credenti, del resto a partire dal progetto di diffusione universale che le conferisce il nome di katholikos, pratiche in origine riservate ai virtuosi o agli eletti, come il dono delle lacrime, inteso come segno esterno di una interiorità affettiva autenticamente abitata dalla grazia. Con un salto nel tempo che è di fatto un dispiegamento continuo, il capitalismo neoliberista è l’erede di questo lungo lavoro storico e vi apporta i propri prolungamenti, mettendo per così dire, il dono delle lacrime dentro l’agenda dell’intero lavoro salariato.[10]

Il “sé (in)autentico” costruito sui tavoli aziendali viene introiettato nel sistema capitalista, segnando il tramonto della materia ontologica a favore delle nuove forme di deontologia professionale imposte e funzionali all’utile aziendale.

Una analisi sull’argomentazione teologica non può prescindere dal considerare quanto teorizzato da Max Weber. Il sociologo di Erfurt, nel suo celebre saggio L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, si pone criticamente nei confronti di Marx considerando insufficiente e riduttiva la sua spiegazione materialistica dell’affermazione del capitalismo nel mondo occidentale. Quello che Weber mette in discussione è la visione strutturale fornita da Marx, secondo cui le idee vengono alla luce come “riflessi” o “soprastrutture” di situazioni economiche.

Weber, pur non rinnegando l’importanza dei fattori materiali addotti da Marx, non crede nell’esistenza di leggi generali alla base dell’agire sociale. Questo suo convincimento determina l’elaborazione di un modello di spiegazione pluricausale, in base al quale l’azione della religione sull’etica economica è non una causa unilaterale che produce come effetto finale il capitalismo, bensì solo una delle sue determinazioni.

Secondo Weber, l’impulso al capitalismo si è sviluppato maggiormente in quelle realtà socio-culturali dove ha prevalso la religione protestante, in particolare il calvinismo. Il modello calvinista sposa il dogma della predestinazione, da cui deriva un “apprezzamento della vita professionale” nonché un modello di ascesi mondana che conferisce un profondo significato morale non solo all’attività imprenditoriale ma anche al successo economico[11]. In tal modo la dottrina avvalora lo “spirito del capitalismo”, ossia l’atteggiamento dell’imprenditore a vivere il proprio intraprendere non come mero impulso al guadagno, bensì come una vocazione spirituale.

L’analisi fornita da Weber, pur ponendosi da una angolazione differente rispetto a quella adottata in questa sede, rappresenta un importante nucleo teorico e passaggio fondamentale per lo studio del legame storico che caratterizza il rapporto tra religione ed economia.

The Skyscraper (Fonte: Rant 73/Flickr)


Il conatus come forza sociale

Spinoza definisce il conatus come la forza con la quale ciascuna cosa si sforza di preservare nel suo essere. Il conatus è la vita, è energia del desiderio. In tal senso, Lordon osserva come

la libertà di intraprendere, nel senso del conatus, non è altra cosa dalla libertà di desiderare e di lanciarsi a perseguimento del proprio desiderio. Ed è la ragione per cui, fatte salve le restrizioni che un corpo sociale ritiene giusto elencare, tale libertà gode di una certa evidenza a priori.[12]

Questa evidenza è soggettiva e riguarda tutte le parti in causa nei rapporti di forza: l’imprenditore, nella sua facoltà e libertà di intraprendere, declama il suo conatus. Quello che non è a priori è la libertà di scegliere i modi attraverso i quali ingaggiare una tale potenza. Per quanto riguarda il lavoratore, questa energia è stata da sempre canalizzata nell’azione collettiva, azione che ancora oggi si articola attraverso le associazioni sindacali, il cui impatto socio-culturale risulta depotenziato rispetto al passato a causa degli effetti nefasti di una attuazione politica di natura utilitaristica e clientelare.

Oggi, in ambito aziendale, assistiamo all’uso di strategie di mediazione mirate a confondere e stemperare i potenziali conflitti tra azienda e lavoratore. Osserviamo il caso emblematico dell’organizzazione aziendale di tipo verticale in contrapposizione al modello circolare. Essa si compone di una serie di ruoli integrati fra loro e con responsabilità sempre più crescenti, con retribuzioni differenti, che ridefiniscono di continuo le gerarchie interne in senso meritocratico; si genera così nel lavoratore il convincimento di essere parte attiva e libera nel processo di attuazione della mission aziendale, il quale in realtà è finalizzato alla crescita dell’utile in bilancio.

A tal riguardo, Lordon osserva come l’antagonismo bipolare analizzato da Marx, costituito dal padrone proprietario e da una massa di proletari inquadrati come “capo reparto” (emblema della menzionata scala gerarchica), ha lasciato il posto a strutture aziendali sempre più stratificate per quanto riguarda la divisione del lavoro e delle specializzazioni interne:

a ogni livello della catena stanno degli agenti che vivono il rapporto salariale nella forma ambivalente subordinato-subordinante, poiché ciascuno è sottoposto ad ordini proprio mentre sottopone altri ai suoi ordini. Così la forma canonica del rapporto che oppone un dominante alla massa di dominati esplode in un groviglio gerarchico di dipendenze che designa una specie di gradiente quasi continuo del dominio.[13]

Questo ha determinato una logica di asservimento verso l’alto, in cui ogni elemento del rapporto che costituisce la struttura piramidale è condizionato dal benestare del suo superiore, il quale, a sua volta, subordina il proprio subordinato al proprio volere.

Ecco come il concetto di mediazione strategicasi realizza in un tracciato sempre meno diretto tra il soggetto desiderante e l’oggetto desiderato, delineandosi attraverso una serie sempre più ramificata di intermediari dove ciascuno va riverito e curato. Per “strategico” dobbiamo intendere allora la logica stessa del desiderio e le sue modalità di appagamento in quanto basate sull’adozione di strategie motivazionali oggettive da parte dell’azienda, che fanno leva sulla pulsione individuale alla scalata verso posizioni superiori.

Rispetto alla prospettiva dell’evidenza soggettiva del conatus finora considerata, Antonio Negri, nel suo libro Spinoza e Noi, offre una reinterpretazione ontologica della filosofia spinoziana illustrandone una prospettiva rivoluzionaria. Egli osserva come il conatus possa divenire un unicum, non più una potenza soggettiva che si manifesta singolarmente bensì una energia e forza sociale che, più di preservarsi nella singolarità, si afferma nel sue essere comunitario come potenza in grado di sovvertire i rapporti di forza imposti. Il tutto parte dalla constatazione di Deleuze, che estende la concezione di sostanza univoca di Spinoza attraverso il dispiegamento di un piano di comune immanenza in cui stanno tutti i corpi, tutte le anime, tutti gli individui; un corpus sociale nell’ambito del quale ristabilire le giuste espressioni di forza collettiva:

l’essere è un dispositivo per la distruzione della tristezza, il desiderio è un dispositivo di costruzione collettiva di libertà e gioia e la “democrazia assoluta” (cioè quella delle lotte) l’unica forma concepibile di libertà ed eguaglianza.[14]

Ma cosa rappresenta il concetto di desiderio per Spinoza? Possiamo considerarlo come forza produttrice ridefinita in modo non funzionale al capitalismo apolide? Può la strategia della cupiditas mostrare lo squilibrio tra potentia e potestas, ossia l’irriducibilità dello sviluppo del desiderio costituente alla produzione delle norme del comando?[15]

Spinoza, nella sua disamina sugli affetti, osservò come questi condizionano la libertà dell’agire umano. L’impatto affettivo sui meccanismi decisionali è inevitabile ed è parte della natura finita dell’uomo; un uomo infinito vivrebbe furori dal tempo raggiungendo l’assoluta libertà di non agire, perché l’azione comporta sempre uno scompenso tra libertà e sentimento.

Se con Cartesio si realizza la separazione tra Res Cogitans e Res Extensa e, di fatto, l’autonomia del pensiero quale sostanza autonoma e indipendente, Spinoza considera le due Res perfettamente integrate:

Non può essere concepito secondo verità alcun attributo della sostanza dal quale segua che la sostanza possa essere divisa.[16]

Spinoza prosegue affermando:  

La sostanza assolutamente infinita è indivisibile.[17]

La sostanza è un unicum indivisibile che può essere visto da due angolazioni differenti; la ragione e le idee adeguate, l’estensione e le idee inadeguate danno vita a un’eterna lotta che non renderà mai l’uomo pienamente libero. Gli affetti sostengono la ragione, che altrimenti resterebbe nell’ambito meramente speculativo rendendo problematico spiegare come possa avvenire il passaggio all’atto pratico. Secondo Spinoza, la potenza umana è del tutto limitata e infinitamente superata dalla potenza delle cause esterne:

l’ideale della ragione non potrà essere mai realizzato pienamente nel tempo. Lo impediscono due ostacoli insormontabili: il fatto che l’uomo è una parte della natura, sempre vinto da altre parti più potenti di lui, e il fatto di non poter raggiungere conoscenza piena del vero bene e del vero male. […] Sappiamo che la mente umana, in quanto frammento finito della natura, ospiterà sempre idee inadeguate e sarà sempre scossa da passioni.[18]

Le passioni distraggono e oscurano la nostra visione intellettuale e critica verso la realtà socialmente data, limitando in essa le libertà individuali di azione; esse ci rendono schiavi e “ingegneristicamente” controllati da cause esterne prodotte ad arte dalle moderne politiche governative neoliberali. Tuttavia, possiamo affrancarci da questo sottile gioco tanto più la nostra determinazione a opporci scaturisce da scelte adeguate, libere dai condizionamenti “affettivi” limitanti.

In tal senso Spinoza, considerando la potenza naturale infinitamente più grande dell’uomo, finisce per ribaltare la prospettiva antropocentrica che vuole l’essere umano legislatore assoluto del reale, moralmente legittimato ad agire e piegare il mondo all’esclusivo interesse personale – idea che, nel corso storico del mondo occidentale, ha portato al concetto di Stato Liberale, nell’ambito del quale si sono affermate le logiche capitalistiche. Egli non considera il concetto di libertà come il sottrarsi dell’uomo alle leggi della natura che lo governano, bensì come un piegare queste potenze ai propri scopi, alla propria utilitas, espandendo così la propria potentia critica. La capacità autonoma di agire sarebbe così determinata partendo dalla maggiore consapevolezza di “se stesso” derivante dalla conoscenza completa della propria natura affettiva, ossia attraverso un processo di razionalizzazione che vede al proprio centro la cupiditas.

È questo, secondo Antonio Negri, il momento nel quale estendere la fisicità dell’appetitus e la corporeità del conatus dalla singolarità all’esperienza sociale. In questo caso, la gioia sarebbe quella di agire in senso comunitario per affermare l’ideale di libertà e uguaglianza; gioia autentica e non più un affetto indotto causalmente.

L’insegnamento di Spinoza aiuta alla comprensione di noi stessi e dei nostri impulsi, rendendoci così più autonomi. Se il comportamento semplicemente passionale, dettato da idee oscure e confuse, genera passività[19], il comportamento razionale, alimentato da forme di conoscenza adeguate, schiude l’uomo alla possibilità di collocarsi come soggetto attivo in quel processo di costruzione del sociale aperto alla condivisione. Ecco quindi che, nel pensiero spinoziano, è possibile cogliere una prospettiva orientata al governo della moltitudine inteso come una istituzionalizzazione del comune che libera l’essere dal radicalismo individualista.

Massimiliano Palumbo per www.policlic.it


[1] D. Fusaro, Pensare altrimenti, Einaudi Editore, Milano 2017, p. 53.

[2] M. Heidegger, Essere e Tempo, Longanesi, Milano 2018, pp. 221-222.

[3] G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, Bompiani, Milano 2015, p. 285.

[4] Ibidem.

[5] Ivi, p. 289.

[6] Il lavoratore è alienato rispetto al prodotto della sua attività, in quanto egli produce un oggetto che non gli appartiene; il lavoratore è alienato rispetto alla sua stessa attività, la quale prende la forma di un lavoro forzato in cui è strumento di fini estranei, come il profitto del capitalista; il lavoratore è alienato rispetto alla sua stessa essenza, che è quella del lavoro libero, creativo, universale e non del lavoro forzato, ripetitivo, unilaterale; il lavoratore è alienato rispetto al prossimo per il rapporto conflittuale con il capitalista e quindi con l’umanità in generale.

[7] F. Lordon, Capitalismo, desiderio e servitù. Antropologia delle passioni nel lavoro contemporaneo, Derive Approdi, Roma 2015, p. 74.

[8] Ivi, p. 103.

[9] G. Deleuze, Spinoza. Filosofia pratica, Orthote edizioni, Napoli-Salerno 2016, p. 21.

[10] F. Lordon, op. cit., p. 109.

[11] Cfr. R. De Biasi, Che cos’è la sociologia della cultura, Carocci Editore, Roma 2008, pp. 18-19.

[12] F. Lordon, op. cit., p. 16.

[13] Ivi, p. 38.

[14] A. Negri, Spinoza e noi, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2012, p. 27.

[15] Cfr. ivi, p. 26.

[16] B. Spinoza, Etica, Bompiani, Milano 2017, p. 29.

[17] Ivi, p. 31.

[18] E. Scribano, Guida alla lettura dell’Etica di Spinoza, Editori Laterza, Bari 2021, p. 133.

[19] Con il termine “passività” si fa qui riferimento a tutte quelle evidenze di prevaricazione e di asservimento discusse nel corso del presente contributo.

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