Il dissenso in Unione Sovietica: la “nuova destra russa”- Parte I

Il dissenso in Unione Sovietica: la “nuova destra russa”- Parte I

Il marxismo-leninismo: storia e definizione

A dispetto dell’enorme mole di studi condotti sull’argomento fin dal lontano 1917, sono ancora molte le imprecisioni storiografiche relative alla parabola settuagenaria dell’URSS. Tra i falsi miti più difficili da sfatare merita un discorso a sé l’inesistenza di ideologie parallele al marxismo-leninismo, a sua volta prodotto di quel centralismo democratico imposto dai bolscevichi all’indomani della Rivoluzione d’ottobre. A scanso di equivoci che rischierebbero di vanificare la comprensione dell’articolo, è bene chiarire come la genesi della prima formula risalga al 1934, quando Iosif Vissarionovič Stalin (1879-1953), uscito vincitore dalla lunga lotta per la leadership del VKP (b)[1], elaborò una dottrina che ne legittimasse l’operato presentandolo in qualità di unico custode degli insegnamenti leniniani. Pietra angolare dell’intero progetto risultava essere il dogma dell’infallibilità del Partito, maestro di vita e guida indiscussa delle masse proletarie, invero subordinato alla volontà di un capo carismatico conosciuto con l’appellativo di vožd[2]. Un’ulteriore conferma di questo monolitismo sarebbe arrivata dai movimenti che scelsero di aderire, nella primavera del 1919, alle 21 condizioni imposte dalla Terza Internazionale, solerti nell’estromettere chiunque avesse rifiutato di adeguarsi alle direttive provenienti da Mosca. Piuttosto emblematica fu la vicenda dell’italiano Amadeo Bordiga (1899-1970), espulso dal PCdI[3] nel marzo del 1930 per aver difeso Lev Trockij (1879-1940) dall’accusa di deviazionismo.

Tipico esempio di propaganda marxista-leninista: Stalin, a destra, rivendicava il ruolo di guida del proletariato in quanto discepolo di Lenin, a sinistra (Fonte:Flickr)


Il dissenso e la “nuova destra russa”

Perché in Occidente giungessero le prime voci di orientamenti estranei all’ortodossia marxista-leninista, in genere ricondotti all’interno dell’espressione generica di dissenso, bisognò attendere la seconda metà degli anni ’50: a partire da quel lustro, infatti, diverse figure appartenenti all’intelligencija[4] approfittarono dell’allentamento della censura per denunciare il regime e le continue violazioni dei diritti umani. Tra i personaggi più importanti occorre menzionare Boris Pasternak (1890-1960), autore del celebre romanzo Il dottor Živago; il fisico Andrej Sacharov (1921-1989), sovrintendente del progetto per la bomba all’idrogeno sovietica; Aleksandr Solženicyn (1918-2008), drammaturgo di fama mondiale consacrato dal capolavoro letterario Arcipelago Gulag.

Ancora più sconvolgenti furono tuttavia le rivelazioni dell’accademico Alexander Yanov, che attraverso la raccolta dei documenti pubblicati dalle autorità e delle stampe circolanti nella samizdat[5] si adoperò per dimostrare una tesi all’apparenza incredibile: il sostanziale allineamento tra la nuova destra dissidente, formula utilizzata per indicare una frangia specifica del nazionalismo russo, e quella dell’establishment.


Alexander Yanov: un profilo

Nato a Odessa il 18 aprile 1930, Yanov aveva a lungo collaborato con le maggiori testate del regime, salvo poi approdare su posizioni critiche dell’immobilismo brežneviano. L’esperimento della dirigenza collettiva, intrapreso nell’ottobre del 1964 all’indomani della defenestrazione di Chruščëv (1894-1971), non aveva infatti risolto le deficienze alla base del sistema sovietico, nello specifico la scarsa competitività dell’economia e il progressivo indebolimento del collante ideologico. Da qui la convinzione secondo cui tali dinamiche avrebbero portato, in un futuro non troppo remoto, allo scontro diretto tra i sostenitori dell’iniziativa individuale e i nostalgici dello stalinismo. Con riferimento a questi ultimi, lo storico ucraino affermava che il richiamo a una politica di austerità e di enormi sacrifici dovesse realizzarsi tramite una mobilitazione in chiave nazionalista, magari attingendo a quel repertorio ben collaudato che attribuiva alla Russia, nelle forme del cristianesimo ortodosso e dalla letteratura messianica del XIX secolo, il compito di salvare il mondo dal “naufragio dell’Occidente”[6].

La nuova destra russa – La distensione dopo Brežnev (Foto di Niccolò Meta)

Ormai inviso alla leadership comunista, tanto da dover emigrare negli Stati Uniti, nel corso del 1974 l’autore raccolse i frutti delle proprie ricerche all’interno di un’opera bicefala intitolata La nuova destra russa – La distensione dopo Brežnev (1981). In essa, oltre ai moniti sui pericoli rappresentati dai rigurgiti neo-stalinisti, si accompagnavano considerazioni sulla nascita di una vera e propria aristocrazia dirigente, nonché quesiti legittimi sul suo futuro dopo la scomparsa del Primo Segretario.

 

 


Il nazionalismo russo: storia ed evoluzione

Si è soliti far risalire la nascita del nazionalismo russo alla seconda metà del XIX secolo, quando diversi intellettuali del calibro di Nikolai Danylevski (1822-1885) e di Konstantin Leont’yev (1831-1891) procedettero alla reinterpretazione dello slavofilismo. Questa scuola di pensiero era animata dalla convinzione secondo cui il patrimonio culturale e spirituale dei popoli slavi, risparmiati dalla corruzione dilagante del cosmopolitismo europeo, non fosse riconducibile a una semplice emulazione dell’Occidente, prefigurando al contrario una “via speciale” destinata a guidarli verso la grandezza. Impietoso risultava essere dunque il giudizio sulle riforme introdotte da Pietro il Grande (1672-1725), estranee a quei precetti religiosi sui quali si costruita l’identità nazionale e, di conseguenza, passibili di cancellarne il retaggio. Ad essa antitetica era la fazione degli occidentalisti, espressione di un’unità indissolubile con il Vecchio Continente in quanto modello virtuoso da seguire tramite l’appropriazione delle sue conquiste.

Perché un simile indirizzo assumesse una connotazione politica bisognò attendere la rivoluzione del 1905, quando la Lega del popolo russo, organizzazione filo-zarista nota al grande pubblico con l’appellativo di Centurie nere, si elevò ad avanguardia del movimento russocentrico scatenando una vasta campagna di intimidazioni e di pogrom[7]. Episodi analoghi avrebbero continuato a ripetersi nel periodo sovietico, anche se l’evoluzione della dottrina proseguì soprattutto in ambito accademico grazie al contributo di personaggi come Solženicyn.

Fu nel progressivo avvicinamento tra i vertici dello Stato e la destra sovversiva che Yanov identificò il paradosso del nazionalismo, risultato dell’emergere di posizioni eterodosse all’interno dei due schieramenti e, in seguito, del loro adattamento reciproco per “salvare la Russia” dai vari nemici. Questa tendenza si era riscontrata a partire dal regno di Nicola I, quando gli slavofili pietroburghesi,[8] in risposta all’impossibilità di prevalere sugli occidentalisti, ricercarono l’appoggio degli omologhi moscoviti, altrettanto incapaci di assumere la guida del movimento dissidente. Concludeva in modo piuttosto sibillino lo storico di Odessa:

Ma al centro di questa discussione accademica apparentemente rispettabile […] stava l’affermazione […] che il nuovo movimento nazionalista russo potrebbe ripetere il paradosso del secolo scorso, cioè potrebbe passare da un confronto mortale con il regime a una fraterna unione con esso[9].

Inoltre, la ripresa dell’agitazione nazionalista dopo anni di passività non costituiva un’anomalia nel panorama storico russo, bensì una risposta fisiologica agli squilibri di un sistema alla perenne ricerca di un’alternativa dialettica: coloro che nel marzo del 1953 avevano pronosticato la perpetuazione dello stalinismo dovettero ricredersi di fronte all’ascesa della troika composta da Lavrentij Berija (1899-1953), Georgij Malenkov (1902-1988) e Vjačeslav Molotov (1890-1986), a sua volta rimpiazzata dal dinamico Segretario Nikita Chruščëv. Questo continuo avvicendamento tra fasi “morbide” e “convulse” affondava le proprie radici nel lontano 1462, anno in cui Ivan III era salito al trono dell’allora Granducato di Mosca, e da allora si era ripresentato a intervalli ciclici almeno per altre dieci volte.

Parata delle Centurie Nere, prima declinazione politica del nazionalismo russo (Fonte: Wikimedia)


L’Unione Russa Sociale per la Liberazione del Popolo (VSKhSON)

Con l’avvento degli anni Sessanta, la frenesia antimarxista sembrò aver contagiato non solo gli esponenti più anziani dell’intelligencija moscovita, nostalgici di un’epoca ormai lontana dove lo spirito nazionale si era elevato al rango di religione civile, ma anche un gruppo di giovani le cui visioni politiche spaziavano dal totalitarismo di destra allo sciovinismo. L’esempio più emblematico fu quello costituito dall’Unione Russa Sociale Cristiana per la Liberazione del Popolo (VSKhSON), un’organizzazione clandestina operante a Leningrado che si era proposta un obiettivo alquanto ambizioso: rovesciare l’impostura sovietica nel nome della Santa Russia e del cristianesimo ortodosso.

Tra gli elementi di maggiore novità rispetto alle formazioni sovversive che l’avevano preceduta spiccava la convinzione secondo cui il regime comunista, affamatore di genti e manifestazione della decadenza morale imperante al tempo, fosse sull’orlo del collasso. Le ragioni dietro un simile declino andavano ricercate nella natura stessa del sistema, privo di qualunque legame con il contesto d’appartenenza perché prodotto di un’ideologia trasmigrata dalla Germania[10]. Scriveva a tal proposito Yanov:

Il comunismo è considerato dal VSKhSON come un fenomeno antinazionale e non russo per sua stessa natura […] di conseguenza si dà per scontato che il regime sovietico in un certo senso “stia sospeso in aria”, senza radici significative nella società russa[11].

Propaganda anti-bolscevica durante la guerra civile russa. (Fonte: Wikimedia)

Per soverchiare un nemico così temibile, forgiato da anni di repressione poliziesca e di propaganda martellante, i cospiratori identificarono nell’opzione golpista e nell’arruolamento di un esercito di liberazione nazionale gli strumenti più idonei. Una volta estirpata la piaga del bolscevismo a pieno vantaggio dell’intera cristianità, la nuova Russia emersa dalle ceneri della dittatura proletaria avrebbe potuto completare la propria catarsi spirituale, divenendo il faro di un’umanità finalmente libera dalle catene della coercizione e della violenza.

 


Un programma teocratico

Diverse furono le misure predisposte per l’edificazione di quest’utopia confessionale: il coinvolgimento dei cittadini nella cosa pubblica attraverso l’autogoverno locale, da sempre carattere distintivo della tradizione politica russa; il corporativismo, propedeutico alla neutralizzazione dei conflitti tra gli operai e i datori di lavoro; il passaggio a una forma di Stato teocratico-sociale[12]; l’istituzione di un apposito organo di vigilanza chiamato Sinodo Supremo. Quest’ultimo, composto per un terzo dall’alta gerarchia ecclesiastica e per il restante da membri di nomina popolare eletti a vita, avrebbe dovuto esercitare funzioni della massima importanza, come il diritto di veto sulle proposte di legge e la nomina del Capo dello Stato[13]. Ampio spazio era inoltre riservato all’elenco dei diritti riconosciuti alla persona in quanto tale, primi fra tutti quello alla vita, alla dignità, al lavoro, all’espressione del proprio pensiero, l’uguaglianza di fronte alla legge, l’intangibilità della sfera privata e la soppressione della polizia segreta.[14]

Principi incontestabili sul piano teorico, parzialmente ispirati al manifesto redatto dai decabristi[15] e alle riflessioni di Nikolaj Berdjaev (1874-1948), Fëdor Dostoevskij (1821-1881) e Pëtr Tkačëv (1844-1886), ma, all’atto pratico, spie di inquietanti velleità liberticide: in nessuna riga del programma era infatti possibile cogliere riferimenti all’annoso problema delle minoranze, realtà aliene alla tradizione russa per questioni legate agli aspetti etnico-religiosi, né tantomeno al destino di un’eventuale opposizione governativa. Piuttosto indicativo risulta essere il confronto tra la Costituzione del 1936 e l’elaborato del VSKhSON, accomunati non soltanto dalla formale tutela delle libertà poc’anzi descritte, ma dall’assenza di meccanismi che ne garantissero una concreta applicazione[16].

Non meno feroce dell’anticomunismo militante risultava essere l’ostilità nei confronti del sistema capitalistico, antenato diretto di quel marxismo-leninismo che si era proposto di correggerne le incoerenze sociali. Se l’Occidente liberale aveva identificato nello scontro tra libertà e oppressione il motore primo della storia umana, visione reinterpretata dal filosofo di Treviri e dai suoi seguaci in chiave classista, per i nazionalisti russi una simile ricerca andava traslata sul piano metafisico e, in particolar modo, nella lotta fra il bene (Dio) e il male (Satana).

Foto di Nicolaj Berdjaev, risalente al 1912 (Fonte: Wikimedia)

Alla luce di quanto appena scritto, si possono cogliere svariati punti di contatto con le elaborazioni filosofiche dell’“età argentea”. Tale formula sta a indicare un periodo di grande fermento letterario dove, alla denuncia del vuoto di potere apertosi in Russia nei primi anni del XX secolo, si era accompagnata l’idea di una piena reinterpretazione della quotidianità sotto l’egida del cristianesimo. Inoltre, in un discorso tenuto nell’estate del 1923 dal massimo esponente di questo indirizzo, Nicolaj Berdjaev, veniva auspicato il superamento della dialettica parlamentare grazie alla rappresentanza delle corporazioni di mestiere.[17] Le evidenti analogie tra la retorica mussoliniana e le proposte del letterato russo, a sua volta ispiratore del manifesto dell’Unione Sociale, avrebbero spinto lo storico John Dunlop a prospettare la sostituzione del giogo bolscevico con uno pseudo-fascista, dimostrando la sostanziale impermeabilità dell’intelligencija verso qualunque declinazione del liberalismo. Ribadiva in proposito Yanov:

Il programma del VSKhSON vede la salvezza della Russia nella conversione del suo popolo all’Ortodossia russa e nella realizzazione di una teocrazia […] la sola forma di organizzazione politica in grado di prevenire la “satanocrazia” che minaccia il mondo.

Il mito della “Grande Russia” da Stolypin a Stalin

Pëtr Arkad’evič Stolypin, padre spirituale della “Grande Russia” (Fonte: Wikimedia)

Un elemento di continuità con i regimi precedenti risultava essere quello della “Grande Russia”, formula suggestiva le cui origini si perdono nell’opera di modernizzazione patrocinata agli inizi del Novecento dal Primo Ministro Pëtr Stolypin (1862-1911). Oltre ad aver predisposto un’ampia gamma di provvedimenti coercitivi per ridurre al silenzio le opposizioni, il celebre statista si era imbarcato in un ambizioso programma di riforma dell’amministrazione rurale avallando, tra il 1906 e il 1911, la compravendita dei terreni appartenuti ai grandi latifondisti. Nelle intenzioni del suo promotore, la nascita della piccola proprietà agraria avrebbe dovuto risolvere l’annoso problema delle rivolte contadine, persuadendo i braccianti ad appoggiare i piani per la grandezza dell’impero. È bene tuttavia sottolineare come tale ambizione ripudiasse qualunque deriva panslava o gingoista[19], invero responsabili dell’isolamento diplomatico che aveva condotto la Russia, nell’ottobre del 1904, sulla via della disfatta militare contro il Sol Levante.

Seppur sconfessato all’indomani della Rivoluzione d’ottobre perché incompatibile con i precetti dell’internazionalismo proletario, il movimento nazionalista trovò un appoggio insperato in alcune figure legate al nuovo establishment. Fra queste occorre menzionare l’onnipotente Iosif Vissarionovič Stalin che, negli anni in cui ricoprì l’incarico di Commissario per il popolo alle nazionalità, favorì la creazione di diverse élite locali imperniate sul concetto di comunità. Potente catalizzatore per lo sviluppo del patriottismo socialista sovietico fu inoltre la querelle tra i fautori della rivoluzione permanente e quelli del socialismo in un solo Paese: i primi avevano visto nell’URSS una piattaforma di lancio dalla quale guidare la riscossa del proletariato; i secondi, memori del coinvolgimento dell’Intesa durante la guerra civile (1918-1922), propendevano invece per un approccio più cauto e difensivo.

Furono però gli anni del secondo conflitto mondiale a sugellare l’imperitura consacrazione della “Grande Russia”, dal momento che la minaccia costituita dall’avanzata tedesca finì per accelerare il riavvicinamento tra i patrioti sovietici e i nazionalisti russi. Per l’intera durata dello sforzo bellico, la crociata contro l’invasore fascista venne presentata non soltanto alla stregua di un confronto ideologico tra due sistemi inconciliabili, ma come una missione liberatrice gravante su tutti i cittadini dell’Unione Sovietica.

Con la sconfitta del Terzo Reich e il profilarsi della rivalità con l’Occidente capitalistico, il focus del regime si sarebbe spostato ancora una volta sul terreno del marxismo-leninismo, rendendo di colpo sediziosa la strumentalizzazione dell’idea nazionale. Una prima avvisaglia di quest’ennesima inversione di rotta era arrivata nel maggio del 1944, quando i Tatari di Crimea, popolo di origine turca colpevole di aver preso contatti con il governo di Istanbul nell’ambito di un progetto irredentista[20], vennero trasferiti forzosamente in Asia Centrale e il loro territorio occupato da coloni inviati da Mosca.


L’Unione Russa Sociale Cristiana per la Liberazione del Popolo Russo: un bilancio

Con riferimento al programma dell’Unione Sociale Cristiana, l’articolo 73 postulava quanto segue:

[Il VSKhSON] si riconosce come un’organizzazione patriottica di rappresentanti disinteressati di tutte le nazionalità della Grande Russia […]

Mentre nel numero 83 si affermava il principio secondo il quale:

I Paesi in cui sono temporaneamente stazionate le truppe sovietiche possono essere aiutati nell’autodeterminazione nazionale sulla base della cristianità sociale

Tali esercizi retorici offrivano nondimeno una risposta parziale ad alcuni importanti interrogativi, in primis il destino delle minoranze situate nei territori di questa grande realtà multietnica dove la componente russa, l’unica menzionata nel documento, costituiva il 53% della popolazione totale.[23] Un’altra testimonianza allarmante delle posizioni vigenti nell’organizzazione fu quella offerta da B. Karavačkii, adepto della prima ora che, nelle sue memorie, descrisse l’ampia diffusione dell’antisemitismo fra i quadri dirigenti e la base militante.

Il giudizio finale su questa declinazione del nazionalismo russo non può quindi che essere negativo: pur auspicando il superamento della dittatura del PCUS e la riscoperta di un retaggio mai del tutto cancellato nonostante gli sforzi profusi dal regime, esso si limitava a contrapporle una distopia teocratica dove elementi di intolleranza religiosa si amalgamavano a un’implicita negazione delle libertà politico-civili.

Niccolò Meta per Policlic.it


 

[1] L’acronimo VKP (b), utilizzato in Russia dal 1925 al 1953, stava a indicare il Partito Comunista dell’Unione Sovietica.

[2] Nella tradizione storico-politica russa, il vožd è una guida illuminata investita del compito di condurre il popolo verso la salvezza. Ad esso risulta spesso associato il concetto di “culto della personalità”, il quale si perde a propria volta nei meandri dello zarismo.

[3] Partito Comunista d’Italia.

[4] L’espressione intelligencija sta a indicare un gruppo ben definito di persone che esercitano un’attività intellettuale, sia essa scientifica, artistica o letteraria.

[5] Samizdat è un termine utilizzato per descrivere un fenomeno socioculturale diffusosi in Russia a partire dalla seconda metà degli anni ’50, ossia la diffusione clandestina di scritti messi a bando dal regime.

[6] Con la formula “naufragio dell’Occidente” si intende la convinzione diffusa tra diversi letterati del periodo tardo imperiale secondo cui l’Europa, orfana del fervore religioso e offuscata dal falso mito del progresso, fosse condannata a un destino tragico da cui solo la Russia avrebbe potuto uscire indenne.

[7] L’espressione pogrom (dal russo погром o “devastazione”) sta a indicare una violenta sollevazione popolare contro le comunità ebraiche fomentata dalle istituzioni.

[8] Gli slavofili pietroburghesi costituivano la cosiddetta “destra dell’establishment”, quelli moscoviti la “destra dissidente”.

[9] A. Yanov, La nuova destra russa – La distensione dopo Brežnev, Sansoni Editori, Firenze, 1981, p. 21

[10] Tale convinzione venne in parte ripresa dal movimento nazional-bolscevico. Con questo termine si è soliti indicare la dottrina sorta all’indomani della guerra civile russa (1917-1922) e costruita sulla convinzione per cui il bolscevismo, seppur degenerazione del marxismo e sottoprodotto della cultura tedesca, potesse essere impiegato per fini nazionalistici. Tra gli esponenti più importanti occorre ricordare Nikolai Ustryalov (1890-1937) e Aleksej Nikolaevič Tolstoj (1883-1945).

[11] A. Yanov, La nuova destra russa – La distensione dopo Brežnev, Sansoni Editori, Firenze, 1981, p. 40.

[12] Vserossiisjii cit, La nuova destra russa – La distensione dopo Brežnev,  p. 74.

[13] Ivi, p. 75.

[14] Ivi, pp. 76-78

[15] Il termine decabrismo indica quella corrente politica sviluppatasi negli anni ’20 del XIX secolo dopo la creazione delle società segrete del Nord e del Sud. Tra gli obiettivi più ambiziosi perseguiti dai congiurati figurava la liberazione dei servi della gleba, la costituzionalizzazione della forma di governo, la nascita di una federazione comprendente i popoli slavi e, soprattutto, la fondazione di uno Stato repubblicano. I piani per la deposizione di Nicola I si sarebbero nondimeno infranti nel dicembre del 1825, quando la rivolta venne sedata dalle forze lealiste e i suoi promotori condannati a morte.

[16] A. Yanov, La nuova destra russa – La distensione dopo Brežnev, Sansoni Editori, Firenze, 1981, p. 43.

[17] Il corporativismo, pietra angolare dei sistemi autoritari-fascisti del XX secolo, è una forma di organizzazione sociopolitica basata su gruppi di interesse (corporazioni) distinti per settore. Si fonda sull’interpretazione organicista della società.

[18] A. Yanov, La nuova destra russa – La distensione dopo Brežnev, Sansoni Editori, Firenze, 1981, p. 49.

[19] Con il termine gingoismo si è soliti indicare quella corrente ideologica sviluppatasi negli USA durante il XIX secolo. L’Oxford English Dictionary lo riassume nella formula “patriottismo estremista sotto forma di violenta politica estera”.

[20] B.G. Williams, The Crimean Tatars: The Diaspora Experience and the Forging of a Nation, Boston, 2001, pp. 382-384

[21] A. Yanov, La nuova destra russa – La distensione dopo Brežnev, Sansoni Editori, Firenze, 1981, p. 50.

[22] Ibidem

[23] https://en.wikipedia.org/wiki/Soviet_Census_(1970).

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