Atto V: la fine della “Prima Repubblica” (1987-1994)

Atto V: la fine della “Prima Repubblica” (1987-1994)

La penosa agonia vissuta dal complesso partitico italiano a cavallo fra gli anni ‘80 e ‘90 sembrò consumarsi all’insaputa dei suoi stessi protagonisti, incapaci di cogliere nell’indebolimento della coalizione governativa e nel vistoso calo fatto registrare dal PCI qualcosa di diverso da una semplice replica degli accadimenti verificatisi un ventennio prima. Eppure un inquietante campanello di allarme era arrivato già al termine di quello che era stato ribattezzato con prematura baldanza “il secondo miracolo economico”, quando gli effetti destabilizzanti della crisi del debito pubblico uniti agli oneri assunti con la CEE per il passaggio alla moneta unica agitarono tra i cittadini l’antico spettro della recessione. Non è certo un caso che l’ipotesi di istituire un apposito governo tecnico, destinato nelle intenzioni dei suoi propugnatori a risolvere quei problemi accumulatisi nel corso delle decadi, abbia assunto a partire da questa delicatissima fase storica una crescente appetibilità. Altrettanto rilevante nel decidere le sorti della cosiddetta Prima Repubblica fu il repentino mutamento dello scenario internazionale in seguito al collasso dell’Unione Sovietica e all’esaurimento del confronto ideologico tra le due superpotenze, determinante nel rendere inattuali la conventio ad excludendum e il ruolo della D.C. come bastione inespugnabile dell’anticomunismo. Il declino di quest’ultima nelle vesti di garante del sistema politico fu per di più accelerato dalla progressiva perdita del sostegno della Santa Sede, imputabile all’ormai cronica emorragia degli iscritti dalle sue liste e ai frequenti episodi di collusione mafiosa che in quel periodo stavano giungendo all’attenzione del grande pubblico.

Il primo aspetto degno di menzione quando si parla della X legislatura fu il ritorno dei democristiani al timone dell’esecutivo, prospettiva obbligata a fronte di un PSI risalito ai livelli del 1958 ma impossibilitato nel compiere quel salto di qualità necessario a trasformarlo in una forza partitica di grandi dimensioni. Fra le conseguenze più immediate connesse all’approdo di De Mita a Palazzo Chigi occorre ricordare l’accantonamento di tutti progetti di riforma istituzionale discussi nel lustro precedente, risultato di un’intesa più equilibrata con i socialisti in materia di lottizzazione delle cariche conosciuta, dalle iniziali dei suoi promotori (Craxi, Andreotti e Forlani), con l’acronimo di CAF. Nondimeno le logiche interne al partito, da sempre ostile alla concentrazione di ampi poteri nelle mani di un solo uomo, avrebbero giocato un ruolo chiave nel costringere il neo-Premier ad abbandonare la direzione del Paese e della stessa D.C. a vantaggio, rispettivamente, di Andreotti e Forlani.

Ancora più precarie apparivano le condizioni del PCI, vittima di uno stato di profondo smarrimento dopo la conclusione della parentesi della solidarietà nazionale e il processo di revisione dell’ortodossia sovietica inaugurato con l’ascesa di Michail Gorbačëv. A scuoterlo da questo insostenibile torpore contribuirono gli eventi che, a partire dall’estate del 1989, incrinarono irrimediabilmente la tenuta del blocco comunista rendendo di fatto obsoleto l’intero apparato dottrinario sul quale aveva costruito la propria identità. Di questo fu consapevole il giovane segretario Achille Occhetto, succeduto l’anno prima ad Alessandro Natta e persuaso della necessità di rifondare l’associazione alla luce del nuovo assetto internazionale che si stava profilando all’orizzonte: nella giornata del 12 Novembre 1989 si era infatti proceduto all’ufficializzazione di un nuovo corso politico, la cosiddetta Svolta della Bolognina, indirizzato al superamento del PCI e alla nascita di un nuovo partito della sinistra italiana che potesse competere per il controllo dell’esecutivo. La vera sfida fu tuttavia quella costituita dal raggiungimento di un’intesa fra le diverse fazioni interne, risvegliatesi dopo decenni di rigido centralismo democratico e divise su innumerevoli questioni quali il nome da attribuire all’organizzazione (ribattezzata in modo non troppo scherzoso La cosa). Piuttosto lunga sarebbe stata la querelle tra gli esponenti dell’ex ala destra, i miglioristi, favorevoli ad una conversione alla socialdemocrazia senza per questo recidere ogni legame con le altre forze dell’Internazionale, e quegli intransigenti di sinistra che auspicavano un rilancio ideologico per raccogliere la pesante eredità accumulata sin dal 1921. L’impossibilità nell’armonizzare queste anime tra loro così diverse avrebbe avuto delle ricadute disastrose sul neonato Partito Democratico della Sinistra (PDS), la cui parabola politica fu quasi immediatamente segnata dalla scissione del gruppo egemonizzato da Sergio Garavini conosciuto come Partito della Rifondazione Comunista (12 Dicembre 1991).

12 Novembre 1989: Achille Occhetto (in piedi, al centro) annuncia a sorpresa il nuovo corso politico intrapreso dal PCI (Fonte: Wikimedia Commons)

Conscia dell’impossibilità di sbloccare dall’interno il cronico stallo istituzionale, una nutrita cerchia di uomini di cultura coagulatasi attorno alla figura del democristiano Mariotto Segni (figlio dell’ex Presidente della Repubblica Antonio Segni, in carica fra il 1962 e il 1964) individuò nello strumento referendario l’arma vincente per aggirare i veti imposti dalle varie forze politiche. Il successo del suo Manifesto dei 31 e delle proposte da esso avanzate fra il 1991 e il 1993 quali la riduzione del numero di preferenze esprimibili alla Camera e l’abrogazione di alcune parti della legge in vigore al Senato, rappresentarono l’inequivocabile spia dello scollamento in atto tra la società civile e quei vecchi partiti incapaci di dare soddisfazione alle reiterate istanze riformiste. I primi anni ‘90 si sarebbero inoltre caratterizzati per lo scontro frontale tra la magistratura e l’establishment sul tema della corruzione, dove le indagini condotte nel corso del decennio precedente avevano svelato una fitta trama di relazioni tra il mondo dell’imprenditoria, della politica e della malavita. Tale confronto si sarebbe colorato di tinte ancora più fosche in seguito all’intervento del Capo di Stato Francesco Cossiga, investitosi del compito di guidare la transizione del Paese verso nuovi assetti sistemici senza curarsi delle recriminazioni provenienti da Destra e da Sinistra.

La prova tangibile del declino vissuto dalla Democrazia Cristiana arrivò dai frequenti episodi di defezione ad opera di personalità di primo piano quali Leoluca Orlando, il popolare sindaco di Palermo ostracizzato per via delle denunce sulle infiltrazioni mafiose e sulla corruzione dilaganti in Sicilia, nonché il già citato Segni, il cui Movimento per la Riforma Elettorale aveva riscosso le simpatie di importanti associazioni laicali come l’Azione Cattolica. Non meno precaria risultava essere la posizione del Partito Socialista che, nonostante la lenta progressione fatta registrare nelle elezioni europee del 1989 e nelle amministrative dell’anno successivo, scontava il danno d’immagine derivante dalle accuse di appropriazione indebita di risorse finanziarie. È alla luce degli eventi poc’anzi descritti che bisogna interpretare la decisione di chiudere anticipatamente la legislatura, invero goffo escamotage per sottrarsi ad una tempesta oramai inevitabile di fronte all’uscita dei Repubblicani dalla maggioranza pentapartitica, all’approssimarsi della tornata elettorale del 1992 e, soprattutto, alla conflagrazione del caso Tangentopoli.

Termine coniato negli ambienti del giornalismo italiano per descrivere un sistema di corruzione politica così diffuso da rappresentare, nella memoria collettiva di coloro che vi assistettero, l’essenza più intima della Prima Repubblica, l’affare Tangentopoli esplose nella giornata del 17 Febbraio 1992 quando il Pubblico Ministero Antonio Di Pietro chiese ed ottenne un ordine di cattura per Mario Chiesa, presidente della casa di riposo Pio Albergo Trivulzio ed esponente di primo piano del PSI milanese. Grazie alle rivelazioni di Luca Magni, imprenditore la cui azienda aveva “vinto” una gara di appalto per un ammontare complessivo di centoquaranta milioni, Chiesa era stato infatti sorpreso nel momento di ricevere una tangente dell’ordine di sette milioni di Lire. Nonostante i tentativi di Craxi di minimizzare l’accaduto definendo il collega “un mariuolo isolato”, le indagini condotte nell’ambito di Mani pulite provarono l’esistenza di un vero e proprio circuito delinquenziale dove il versamento delle famigerate bustarelle era divenuto la conditio sine qua non per influenzare le delibere della pubblica amministrazione. Ormai stanchi dei continui scandali e delle promesse non mantenute per decenni, i cittadini trovarono nel voto di protesta l’espediente ideale per esprimere la loro frustrazione: ciò sarebbe risultato evidente durante le elezioni del 5-6 Aprile, segnate dal trionfo indiscusso dei movimenti più giovani come i Verdi e la Lega Nord. Quest’ultima in particolare, nata nel 1989 dalla fusione della Liga Veneta con la Lega Lombarda, aveva saputo sfruttare a proprio vantaggio le grame giudiziarie della D.C. grazie alla conduzione carismatica del suo leader Umberto Bossi (è di questo periodo l’iconico slogan Roma ladrona!). Fra le altre vittime illustri finite sotto la lente d’ingrandimento dei PM occorre menzionare non soltanto il PSI e il suo onnipotente segretario, il quale si era visto sfumare davanti agli occhi una probabile riconferma a Palazzo Chigi, ma anche quel Partito Socialdemocratico squassato dagli scandali finanziari e indebolito dalla copiosa emorragia verso l’area socialista. La frenetica evoluzione dello scenario politico nazionale e internazionale non avrebbe risparmiato nemmeno il MSI, impegnato in un’opera di estesa ristrutturazione ideologica sotto la vigile sorveglianza del nuovo segretario Giancarlo Fini.

Il pubblico ministero Antonio Di Pietro, protagonista insieme a Gherardo Colombo dell’inchiesta “Mani Pulite” (Fonte: ANSA.it)

Il tracollo dell’ormai decrepito edificio partitico fu sicuramente accelerato dall’offensiva scatenata dalla mafia contro diverse personalità appartenenti al mondo della politica e della giustizia. Le radici del sodalizio con la Repubblica italiana si perdono in quel fenomeno di speculazione edilizia cominciato a Palermo nei tardi anni’50 quando Salvo Lima e Vito Ciancimino, assessori ai lavori pubblici e membri della D.C., concessero migliaia di licenze ad esponenti legati al mondo della malavita organizzata. Nel ventennio successivo invece le attività criminose di Cosa Nostra si sarebbero orientate in direzione del traffico di stupefacenti e del riciclaggio di denaro grazie al sostegno di istituti di credito come lo IOR e il Banco Ambrosiano, attività che a cavallo del 1981 e del 1983 avrebbero permesso al clan dei Corleonesi di assumere una posizione di egemonia rispetto alle altre cosche rivali. Cruciale nel consentire l’attuazione di una simile strategia fu l’assassinio, grazie alla sostanziale impunità garantita dai propri referenti, di quelle figure passibili di interferire con gli interessi delle Famiglie (il pensiero non può che andare ai vari Peppino Impastato, Carlo Alberto dalla Chiesa, Carmine Pecorelli, Giorgio Ambrosoli, Pio la Torre e molti altri ancora).

Nondimeno sul finire degli anni ’80 l’accordo in vigore fra le parti sembrò essere entrato in una spirale negativa: la condanna di numerosi delinquenti al termine di quello che venne definito Maxiprocesso (1986-1992), l’esplosione del fenomeno del pentitismo e la maggior consapevolezza dimostrata dall’opinione pubblica nazionale avevano inferto un colpo durissimo alla Cupola guidata da Salvatore Riina, la quale nei mesi conclusivi del 1991 maturò la decisione di consegnare al Governo e alla società civile un messaggio inequivocabile. Il 12 Marzo 1992 il luogotenente di Andreotti sull’isola, Salvo Lima, venne ucciso a colpi d’arma da fuoco, mentre il 23 Maggio seguente le auto su cui viaggiavano il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e i tre uomini della scorta saltarono in aria assieme ad un tratto della A29. Ad essi avrebbero fatto seguito, il 19 Luglio di quello stesso anno nei pressi di Via d’Amelio, il magistrato Paolo Borsellino e i cinque agenti di polizia incaricati di proteggerlo. La parabola dello stragismo mafioso proseguì con rinnovata intensità l’anno successivo quando un’autobomba avente per obiettivo il popolare conduttore televisivo Maurizio Costanzo deflagrò in Via Fauro senza uccidere nessuno, mentre nelle stragi di Via dei Georgofili e di Via Palestro fu il patrimonio culturale italiano a finire nel mirino degli attentatori. Il 27 Luglio due Fiat Uno imbottite di tritolo vennero fatte esplodere davanti alle chiese di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro, trascinando nell’equazione anche la Santa Sede. L’atto finale di questa stagione luttuosa si consumò nella giornata del 31 Ottobre con la scoperta, nei pressi dello Stadio Olimpico di Roma, di un ordigno esplosivo il cui malfunzionamento scongiurò il ripetersi dell’ennesimo bagno di sangue. Poi, dopo un biennio costellato di decine di morti, rappresaglie contro bersagli strategici e liquidazioni di civili inermi, la quiete.

Come si spiega una simile inversione di rotta? Cosa può aver spinto la mafia ad arrestare di punto in bianco la propria offensiva ai danni l’ordine costituito, ad abbandonare la linea dello scontro frontale per ritirarsi dietro una familiare cortina di silenzi assordanti? La risposta, per quanto incredibile possa sembrare, risiederebbe nel raggiungimento dei target prefissati alla vigilia dell’attacco. Stando infatti alle dichiarazioni rilasciate nel 2009 da Massimo Ciancimino, figlio del sopracitato Vito e testimone chiave nell’ambito della trattiva Stato-mafia, esponenti del mondo delle istituzioni e della malavita avrebbero aperto già nel corso dall’estate del 1992 dei canali di comunicazione informali per il raggiungimento di un’intesa duratura, un accordo (papello) di coesistenza più o meno pacifica basato su reciproche concessioni. Ed ecco che dai meandri della storia repubblicana emergerebbe, ancora una volta, un quadro a dir poco inquietante dove una potente organizzazione criminale sarebbe riuscita ad imporre le proprie condizioni innalzandosi ai livelli di un’entità politica sovrana: un obiettivo nel quale avevano fallito persino le Brigate Rosse ai tempi del caso Moro.

L’eco della strage di Capaci fu così vasto da spingere le diverse forze politiche ad avallare la nomina di Oscar Luigi Scalfaro alla Presidenza della Repubblica, investendolo del gravoso compito di selezionare il nuovo Presidente del Consiglio tra i papabili indicati da Craxi. La scelta sarebbe ricaduta su Giuliano Amato, leader di un esecutivo indebolito da faide interne e pesantemente criticato per il varo di misure impopolari come il prelievo forzoso del sei per mille dai conti correnti delle banche italiane e la manovra finanziaria da 100.000 miliardi di lire. L’abrogazione del meccanismo delle preferenze multiple alla Camera e di alcune parti della legge per il Senato aveva nel frattempo spianato la strada ad una riforma elettorale in senso maggioritario, propedeutica all’attivazione di quel circuito virtuoso per l’alternanza inutilmente perseguito nel decennio precedente: conosciuta con l’appellativo di Mattarellum dal nome del suo relatore Sergio Mattarella, le disposizioni n. 276 e 277 promulgate il 4 Agosto 1993 introdussero un modello misto per cui i 2/3 dei seggi sarebbero stati assegnati in base ad un sistema uninominale secco, i rimanenti tramite un proporzionale a liste bloccate.

Con le dimissioni di Amato nel mese di Aprile le redini del Paese passarono invece nelle mani dell’ex governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi, la cui investitura rappresentò una svolta epocale nella storia repubblicana in quanto aliena a tutti i principi che avevano regolato sino ad allora la formazione dei ministeri. La decisione di istituire un apposito governo tecnico può essere compresa solo tenendo conto della delegittimazione morale gravante sul cosiddetto Parlamento degli inquisiti, decimato dalle inchieste condotte dai pubblici ministeri nell’ambito di Mani Pulite, nonché del maggior coinvolgimento del Capo di Stato nella definizione delle intese. Fu in questo breve lasso di tempo che si consumò in via definitiva la parabola discendente delle Democrazia Cristiana, affossata dagli avvisi di garanzia diretti contro i suoi maggiori esponenti come Antonio Gava, Cirino Pomicino e Giulio Andreotti (processato fra il 1993 e il 2004 per collusione mafiosa ma prosciolto dalle accuse per decorrenza dei termini) oltre che dalla sonora sconfitta patita nelle elezioni amministrative di Giugno. La sommatoria di tali elementi aveva infatti palesato la necessità di rifondare il partito il quale, seppur ridimensionato dalla scissione di quel Centro Cristiano Democratico guidato da Pier Ferdinando Casini e da Clemente Mastella, sarebbe sopravvissuto al naufragio della Prima Repubblica riassumendo l’antica denominazione di Partito Popolare Italiano (PPI). Destino non condiviso dal vecchio PSI, condannato dalla strategia miope adottata dall’ex-segretario e dal clamore delle indagini aperte dalla magistratura ad una morte lenta e ingloriosa. Il colpo di grazia per qualunque velleità di rilancio sarebbe arrivato nel Maggio del ’94 quando Craxi, di fronte all’emergere di prove schiaccianti nei procedimenti istruiti a suo carico e all’ineluttabile perdita dell’immunità parlamentare, fuggì precipitosamente nella città tunisina di Hammamet per sottrarsi alla cattura. Un segnale inequivocabile circa l’esaurimento dell’esperienza partitocratica sarebbe infine arrivato dal Movimento Sociale Italiano, concorde durante il Congresso di Fiuggi del Gennaio di quello stesso anno nell’abbandonare gran parte dei propri riferimenti ideologici al fascismo trasformandosi in Alleanza Nazionale.

Il vuoto lasciato dalla conclusione anticipata dell’XI legislatura e dalla scomparsa di quegli attori che avevano animato il primo cinquantennio della storia repubblicana alimentò l’illusione di una drastica rottura con il recente passato, invero confutata dalla mancata alterazione degli assetti istituzionali nonostante l’incognita della nuova legge elettorale. Con grande sorpresa la tornata del Marzo del 1994 si concluse con la netta vittoria del partito Forza Italia e del suo leader, l’imprenditore milanese Silvio Berlusconi, il cui primo coinvolgimento nell’agone politico risaliva alle elezioni amministrative del 1993 con l’appoggio offerto al candidato missino Gianfranco Fini: determinante per il loro successo fu un insieme di fattori costituito dalla scelta di presentare due coalizioni fra loro collegate (il Polo delle Libertà e quello del Buon Governo), dalla sottovalutazione dell’avversario ad opera del PDS e, soprattutto, dall’impiego spregiudicato dei mass media come le emittenti televisive private. Molte sarebbero le considerazioni da avanzare alla luce degli sviluppi collegati all’ormai celeberrima discesa in campo dell’ex Cavaliere, avvenimento che nel bene o nel male ha rivoluzionato per sempre il modo di fare politica nel nostro Paese, poco lo spazio a nostra disposizione senza deviare dal filo logico-tematico tracciato in questa lunga serie di articoli. Di conseguenza, forse a ragion veduta, forse commettendo una grave leggerezza, mi limiterò a menzionare il fatto senza dilungarmi in spiegazioni che potrebbero risultare aliene ai fini della nostra analisi.

10 Maggio 1994: alla presenza del Capo di Stato Oscar Luigi Scalfaro, il nuovo Presidente del Consiglio dei Ministri Silvio Berlusconi fonda il suo primo governo. Resterà in carica fino al Gennaio successivo (Fonte: Corriere della Sera)

Siamo così giunti al termine del nostro lungo viaggio, un’epopea durata oltre quattro decadi dove al desiderio di libertà che nella stagione della Resistenza aveva guidato la lotta al nazifascismo, alla volontà di ricostruire un Paese differente che rigettasse la dolorosa eredità del mussolinismo, alle grandi speranze alimentate dal miracolo economico e alla paura imperante negli anni di piombo si sono accompagnati la cronica instabilità governativa, il germe inestirpabile della corruzione e lo spettro ripugnante dello stragismo. Se mi fosse stato possibile racchiudere in un’unica parola l’essenza più intima della storia repubblicana, il suo spirito autentico, credo che la scelta finale sarebbe ricaduta sull’aggettivo contraddittorio: perché un regime che si è sempre definito democratico pur reggendosi sull’assenza di un’effettiva competizione elettorale non può che essere figlio di un’insanabile contraddizione di fondo, il frutto malato di un contesto tossico dove le logiche sovranazionali hanno sempre avuto la prima e l’ultima parola. Ancora, uno Stato che vigila sul rispetto dell’ordine pubblico condannando il ricorso alla violenza non può sfruttare l’arma del terrorismo politico contro i suoi stessi cittadini senza apparire ipocrita, non può combattere la criminalità organizzata dimostrandosi al tempo stesso aperto al compromesso per il ritorno ad un confortevole status quo, non può tollerare l’esistenza di frange deviate all’interno delle istituzioni incaricate di difenderlo. Non può, ma lo ha fatto.

Quello della Prima Repubblica è stato il classico esempio di un edificio costruito su fondamenta troppo fragili per reggere il peso degli anni e degli agenti esterni, una costruzione instabile attraversata da crepe così profonde da richiedere una ristrutturazione estensiva e non una semplice passata di stucco in attesa dell’inevitabile crollo. È in queste anomalie croniche, nelle incoerenze riscontrabili tra la base e il vertice, tra le parole e le azioni, nell’eterna dicotomia fra ragion di Stato e moralità, che possiamo scorgere un interminabile filo conduttore a collegamento delle due Repubbliche. Sempre ammesso che, dopo il 1994, l’arena di gioco sia effettivamente cambiata.

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