Gli spettacoli di caccia nell’antica Roma

Gli spettacoli di caccia nell’antica Roma

L’impiego degli animali per le venationes: cattura, trasporto e custodia

Fra gli spettacoli che nell’antica Roma ottennero maggiore diffusione e apprezzamento si annoverano le venationes, ovvero le “cacce”, anche se al riguardo le fonti letterarie sono discordanti: il termine venatio, infatti, indica indifferentemente il combattimento fra animali, la caccia da parte di carnivori o da parte di uomini e, in alcuni casi, anche la semplice sfilata o esibizione di animali[1]. Inizialmente indipendenti dai munera gladiatoria[2], le venationes finirono col diventare un’appendice del munus e, in seguito, un’integrazione, non obbligatoria, ma in ogni caso considerata necessaria per uno spettacolo di prestigio, tanto che l’abbinamento munus e venatio, datato dopo Augusto, fu definito iustum atque legitimum[3].

Gli animali per le venationes venivano catturati e trasportati dai Romani attraverso vari metodi e tecniche e, una volta giunti a Roma, venivano custoditi nei vivaria.


LA CATTURA DEGLI ANIMALI PER LE VENATIONES

 

I Romani distinguevano gli animali impiegati nelle venationes tra erbivori e carnivori. Gli erbivori, denominati animalia herbatica, ferae herbaticae, herbanae, herbariae[4], costituivano la maggioranza ed erano presenti in Europa (ad esempio il cinghiale, il cervo, il camoscio e la lepre). Questi animali apparivano nelle venationes, tuttavia suscitavano ben poco interesse e trepidazione nel pubblico. Nella maggior parte dei casi, infatti, si preferiva combinare nello stesso spettacolo gli erbivori, come appena detto meno rari e di conseguenza meno costosi, e i carnivori. Questi ultimi erano denominati dentatae o ferae Libycae, bestiae Africanae o Orientales[5]. Il termine ferae Africanae[6] o Libycae indicava, nello specifico, le tre varianti di pardi: il leopardo (pardus leo); il ghepardo (pardus cynaerulus); la pantera (pardus panthera o pardalis[7]).

Nel III secolo a.C., le principali fonti di approvvigionamento di animali per l’Italia erano l’Oriente mediterraneo e l’Africa settentrionale[8]. A partire dal II secolo a.C., però, il rifornimento dall’Oriente sembra diminuire. Durante il periodo dell’Impero, l’Africa, che aveva soppiantato di gran lunga la Siria, forniva il maggior numero di animali per le venationes: oltre ai grandi felini, anche elefanti, iene, onagri, antilopi, gazzelle, struzzi e orsi[9]. Dall’Egitto provenivano ippopotami, rinoceronti e coccodrilli. L’Alto Egitto e l’Etiopia fornivano giraffe e diverse tipologie di scimmie, mentre dall’India provenivano le tigri. La Spagna e la Dalmazia fornivano orsi, mentre dalla Gallia provenivano alci, lupi e orsi. Le montagne dell’Italia, infine, offrivano un’abbondante selvaggina: cervi, caprioli, cinghiali, volpi, lupi, orsi, lepri e tori[10].

Gli animali per le venationes venivano catturati da cacciatori professionisti o da individui che si occupavano di preparare e tendere le trappole. Si trattava perlopiù di emarginati, soprattutto in condizione servile, i quali operavano nelle regioni selvagge o lungo i confini dell’Impero[11]. I metodi di cattura dipendevano dalla tipologia degli animali da catturare: quelli maggiormente diffusi erano la rete, la gabbia con esca e la fossa[12].


IL TRASPORTO TERRESTRE, FLUVIALE E MARITTIMO

 

“Particolare del mosaico di Villa del Casale di Piazza Armerina, raffigurante scene di cattura e trasporto degli animali per le venationes” Fonte: Le Musée absolu, Phaidon, 10-2012/Wikimedia Commons , licenza CC0 1.0)

 

Una volta catturati, gli animali venivano trasportati lungo percorsi terrestri, fluviali e marini, ed erano trasferiti da un mezzo di trasporto all’altro. Il viaggio dal luogo di cattura all’Italia poteva durare mesi: gli animali raggiungevano Roma per via fluviale da Ostia, oppure per via terrestre da Pozzuoli. La cattura avveniva in luoghi e tempi diversi e, di conseguenza, era probabile che, prima di intraprendere il viaggio, gli animali dovessero attendere l’arrivo di altre bestie nel luogo di raccolta. Le fonti letterarie riferiscono che durante i lunghi viaggi bisognava fare i conti con possibili ritardi[13] e con le malattie, che spesso li decimavano o li rendevano inutilizzabili[14].

Il trasporto per via terrestre avveniva per mezzo di un carro trainato da buoi o da muli[15], probabilmente l’angaria, utilizzato per i carichi pesanti[16]. I carri transitavano per gli insediamenti urbani, nei quali il soggiorno era limitato – per legge – a pochi giorni, sebbene si verificassero dei tremendi abusi[17].

In Italia gli animali sbarcavano generalmente a Ostia e, quantomeno nel I secolo d.C., anche a Pozzuoli. Gli animali venivano in parte impiegati nelle venationes allestite negli anfiteatri campani, e in parte inviati a Roma via terra[18]. Il trasporto via mare poteva avvenire con imbarcazioni a vela o a remi[19], o provviste di entrambe. Tali imbarcazioni erano private e appartenevano ai naviculari[20], ovvero gli armatori. L’esportazione degli animali dall’Africa a Roma era in larga parte gestita da compagnie africane, le quali avevano la sede principale nei grandi porti di Leptis Magna, Hippo Regius, Sabratha, Cartagine, e una sede staccata a Ostia[21].

Gli organizzatori dei trasporti sceglievano condizioni favorevoli per evitare la perdita degli animali, ma condizioni meteorologiche avverse potevano interrompere la navigazione o le strade, causando ritardi nelle consegne. In caso di tempesta, le gabbie potevano rovesciarsi, e quindi i tempi della traversata tra l’Africa del nord e l’Italia dovevano essere ridotti al minimo[22]. Il tragitto tra l’Africa e Ostia poteva essere compiuto in due giorni[23], ma con i venti sfavorevoli il viaggio poteva durare anche due mesi, costringendo le imbarcazioni a costeggiare l’Asia Minore o l’Africa.

Per il trasporto, in particolare verso Roma dal porto di Ostia, si utilizzavano le naves caudicarie trainate – attraverso la tecnica dell’alaggio – su ampie strade appositamente realizzate lungo la riva destra del Tevere da pariglie di buoi e, sovente, da uomini. Le rive del fiume Tevere, a partire dalla zona della Magliana, erano costellate di porti e approdi. I Navalia in Campo Marzio, probabilmente, costituivano uno degli approdi utilizzati per lo sbarco degli animali[24].

Una volta catturati, gli animali venivano trasportati a Roma in gabbie con le sbarre di ferro[25], su carri, o sospese a una pertica poggiante sulle spalle di una o due coppie di uomini[26]. Le fonti descrivono anche la furia degli animali imprigionati, che si spaccavano i denti nel tentativo di spezzare le sbarre metalliche[27]. Le gabbie[28] utilizzate per il trasporto erano suddivise in base alla dimensione e alla natura – mansueta o selvaggia – degli animali[29]. La gabbia era utilizzata solo per gli animali pericolosi; invece, i mansueti (come struzzi, gazzelle ed elefanti) venivano imbarcati liberamente e viaggiavano all’aperto sul ponte della nave, ed erano semplicemente legati[30].


LA CUSTODIA DEGLI ANIMALI: I VIVARIA DI ROMA

 

I vivaria dovettero esistere in tante città dell’Impero, in adiacenza agli anfiteatri e agli stanziamenti dell’esercito, vista la funzione svolta dai soldati nella cattura degli animali[31], ma si conosce meglio il caso di Roma. Gli animali che sopravvivevano alla cattura e al viaggio, una volta sbarcati a Ostia, raggiungevano i vivaria[32]. Il termine vivarium fu introdotto da Fulvius Lippinus, e stava a indicare una riserva per cinghiali o altri animali selvatici[33].

A Roma mancano completamente informazioni relative ai vivaria di epoca repubblicana, mentre per l’epoca imperiale sembra possibile individuare degli ipotetici centri di raccolta degli animali, destinati esclusivamente alle venationes, e utilizzati probabilmente fino all’epoca tardo antica e altomedievale quando, assenti gli imperatori, furono nuovamente le alte cariche dello Stato ad assumersi l’onore di organizzare gli spettacoli[34].

Le fonti forniscono alcune informazioni per individuare i vivaria lontani dai centri del potere e dalle zone altamente frequentate[35]. Nonostante queste precauzioni, le fonti documentano il verificarsi di numerosi incidenti, come avvenne ad esempio a Costantinopoli. In caso di fuga di animali selvatici, i passanti, colti dalla paura, cercavano riparo e si chiudevano in casa[36], e spesso venivano divorati dalle bestie[37]. Da Roma abbiamo un’unica notizia in merito a uno di questi incidenti, avvenuto alla fine dell’epoca repubblicana: lo scultore Pasiteles stava scolpendo la figura di un leone e, mentre era intento a osservare il suo modello chiuso in una gabbia davanti a lui, fu assalito da una panthera fuggita da un’altra gabbia[38].

La legge prevedeva il risarcimento dei danni causati dagli animali custoditi nei vivaria: le ordinanze emesse dagli edili erano ancora vigenti in epoca imperiale[39]. In base a queste ordinanze, tutti gli animali pericolosi – sciolti o legati – non potevano essere portati sulla pubblica via, per salvaguardare le persone. In caso di inosservanza della legge, si prevedeva quanto segue: in caso di morte, una multa di duecento solidi; in caso di ferita, un risarcimento; in caso di danni a un possedimento, il doppio del valore del possedimento danneggiato[40].

Ad oggi sono testimoniati tre vivaria a Roma. Il primo, nonché il maggiormente antico, nacque da un riadattamento, nella zona di Campo Marzio, di una parte del complesso dei Navalia (porto in gran parte in disarmo attorno alla meta del I secolo a.C.[41]). Il secondo[42] è indicato da Rodolfo Lanciani nella tav. 11 della Forma Urbis Romae in adiacenza ai Castra Praetoria, ma non ne restano evidenze archeologiche[43]: si trattava presumibilmente di un vivarium imperiale, la cui custodia degli animali per pubbliche e private venationes era delegata ai pretoriani, affiancati dalle coorti urbane. I pretoriani, probabilmente, attendevano al loro compito dal momento dello sbarco, o dell’arrivo via terra, degli animali a Roma, effettuando una sorta di presa di consegne, fino all’arrivo nell’Anfiteatro, il giorno dedicato alle venationes, quando terminava il loro compito[44]. In seguito all’abolizione del corpo dei pretoriani sotto Costantino, il vivarium imperiale, pubblico e privato, potrebbe essersi spostato, nell’ambito delle ristrutturazioni del complesso del Sessorium, nell’Anfiteatro Castrense, attrezzato a quest’uso probabilmente dall’epoca costantiniana, quando viene menzionato nei Cataloghi Regionari: si tratta del terzo vivarium noto a Roma.

Le dimensioni dei vivaria imperiali dovevano essere proporzionate al numero di animali custoditi: si ricordino le undicimila bestie esibite nelle venationes offerte da Traiano per celebrare il trionfo dacico e gli animali presentati nelle venationes allestite da Gordiano III[45].

Nel Colosseo, le belve erano trasportate in una gabbia dalla quale uscivano per essere convogliate lungo lo stretto corridoio perimetrale, dove sostavano fino all’apertura dei montacarichi. Nel corso di una stessa mattinata erano centinaia gli animali che apparivano nell’arena: bisogna quindi immaginare un lavoro a catena di arrivo delle gabbie, apertura delle stesse, allontanamento, arrivo di altre gabbie e via discorrendo fino ad esaurimento degli animali. Lo stoccaggio doveva avvenire all’esterno del Colosseo; si presume che un possibile luogo di raccolta degli animali sorgesse nelle vicinanze del Ludus Matutinus[46].

I vivaria erano suddivisi per tipologia: gli elefanti, di cui l’imperatore aveva l’esclusiva, erano custoditi in un vivarium a Laurentum, sotto la custodia di un procurator ad elephantos[47]. Grazie alle fonti conosciamo anche un addetto agli erbivori[48] e un altro che si occupava delle bestie feroci[49], entrambi inquadrabili all’epoca di Marco Aurelio e Commodo; vi era poi un praepositus camellorum, in epoca flavia. Si trattava di liberti della famiglia imperiale. Tra i funzionari sembra essere esistita una gerarchia: di grado elevato era il procurator, responsabile del vivarium di Laurentum, mentre di grado inferiore erano i praepositi[50].


LE VENATIONES A ROMA

 

Particolare del mosaico pavimentale della villa romana di Nennig (Germania), raffigurante dei venatores contro un orso (240-250 d.C.) Fonte: TimeTravelRome/Flickr, licenza CC BY 2.0

 

Molto probabilmente, l’introduzione delle venationes coincise con le guerre d’espansione che portarono i Romani a contatto con Paesi esotici[51]: sembrano difatti derivare dalle battute di caccia agli animali a cui i Romani assistettero in Africa nel 202 a.C., all’epoca della battaglia di Zama[52]. La prima venatio pubblica accertata dalle fonti si svolse a Roma nel 186 a.C. e fu offerta da M. Fulvius Nobilior per celebrare la sua vittoria sull’Etolia[53], con la partecipazione di leoni e pantere[54].

Gli spettacoli di caccia aumentarono alla fine del II sec. a.C. e nel corso del I a.C. quando, in concomitanza con il consolidamento dell’espansionismo imperiale di Roma, divenne più facile reperire gli animali[55]. Le fonti attestano esibizioni di animali esotici, combattimenti fra animali, numeri con animali ammaestrati[56] e vere e proprie cacce, in cui si impiegarono leoni, pantere, elefanti, tori, orsi e coccodrilli e, man mano che la zona d’influenza di Roma si ampliava, nuove varianti di animali esotici[57].

Tra il periodo tardorepubblicano e la prima età imperiale i protagonisti della scena politica furono molto generosi nell’offrire venationes[58]: furono impiegate varie centinaia di animali, in particolare felini, e alcune centinaia di elefanti o animali rari. Gli spettacoli con animali provenienti da regioni lontane (talvolta al di fuori dell’Impero), in concomitanza con l’espansionismo imperiale di Roma, esprimevano il suo dominio sul mondo[59].

Il rifornimento di animali era facilitato dalla presenza dei governatori provinciali, i quali svolgevano spesso il ruolo di intermediari per i loro amici di Roma cui offrivano volentieri la propria collaborazione. Cicerone, ad esempio, in quanto governatore della Cilicia, dopo aver subito pressanti richieste, andò in aiuto dell’amico M. Caelius Rufus, eletto edile curule per il 50 a.C., il quale desiderava offrire una venatio con delle pantherae[60]. La fornitura di animali, inoltre, poteva essere favorita anche dai buoni rapporti con i sovrani locali che, a loro volta, dovevano trarne consistenti guadagni[61].

Inizialmente, le venationes potevano essere organizzate sia dai magistrati competenti, spinti dall’ambitus (l’ambizione politica) che richiedeva l’acquisizione del consenso popolare, sia dai privati cittadini. In epoca repubblicana, le occasioni per l’allestimento di venationes furono molteplici e raggiunsero un posto di sempre maggiore importanza nella vita cittadina. In epoca tardorepubblicana, invece, si assistette all’accorpamento della venatio al munus, in seguito sancito dalla costruzione del Colosseo o “teatro per le venationes[62], come luogo concepito e attrezzato per questi spettacoli[63].

In epoca imperiale, le venationes furono fissate al mattino[64], seguite dai summa supplicia[65] all’ora di pranzo e i munera gladiatoria, considerati di maggiore prestigio, nel pomeriggio[66]. Augusto, nel 22 a.C., decise di regolamentare a proprio vantaggio l’edizione degli spettacoli: pur lasciando ad alcuni magistrati[67] il permesso di offrire spettacoli periodici, impose dei limiti quantitativi. A partire dall’epoca dei Flavi le venationes furono organizzate dagli imperatori[68]: i privati cittadini smisero di allestirle e l’edizione da parte di magistrati, che si spinse fino al Basso Impero, fu notevolmente ridotta col venir meno di ogni forma di evergetismo[69], a seguito dei cambiamenti politico-amministrativi. In questo modo, l’imperatore rimase il vero padrone di questo veicolo di propaganda politica di Roma che costituiva un’occasione privilegiata per testare il rapporto del potere con i sudditi, vera cassa di risonanza degli umori del popolo nei confronti del principe. E così, mentre il regolare svolgimento degli spettacoli era garantito dai magistrati, in forma intenzionalmente modesta, il vantaggio che da essi solitamente derivava in termini di consenso rimaneva appannaggio esclusivo dell’imperatore. Le venationes, meno prestigiose dei munera gladiatoria, stimolarono in misura minore l’ambizione degli editores, e quindi furono meno soggette a limitazioni. Inoltre, la maggiore e difficile organizzazione ridusse notevolmente il rischio di competizione con l’imperatore[70].

Sotto Diocleziano, Roma perse il suo ruolo di capitale e residenza imperiale, e gli spettacoli imperiali divennero molto rari rispetto a prima[71]. Dopo Costantino, il costoso onere dell’edizione degli spettacoli ricadde sull’aristocrazia senatoria. La stessa ripartizione delle 177 giornate di spettacoli indicate nel calendario del 354 d.C. indica il declino dei combattimenti anfiteatrali. D’altra parte, al tempo di Costantino ebbe inizio la battaglia della Chiesa per l’abolizione degli spettacoli che andarono diminuendo fino a scomparire: in particolare le venationes cessarono quasi un secolo dopo[72].


CONCLUSIONI

 

Gli spettacoli di caccia nell’antica Roma ottennero, come attestato dalle fonti letterarie, un gran successo, soprattutto durante l’Impero. In questo periodo, infatti, numerosi imperatori decisero di organizzare venationes, talvolta particolarmente spettacolari, tanto da suscitare lo stupore nel pubblico. A destare meraviglia non fu soltanto il numero di animali impiegati o, in alcuni casi, la provenienza esotica, ma anche le “imprese” dei venatores. Tra questi, ricordiamo il venator Carpophorus, domatore di venti belve, protagonista indiscusso delle venationes inaugurali e definito superiore addirittura a Ercole[73]. Ma non solo, la passione per gli spettacoli di caccia era tale che persino gli imperatori Commodo e Caracalla vollero esibirsi in qualità di venatores: il primo fu soprannominato “Ercole romano” dai suoi adulatori[74] e, coperto da una pelliccia di leone, si divertiva a uccidere leoni con la clava[75]; il secondo, dopo aver ucciso un leone, volle farsi chiamare “Ercole”[76]. Le venationes, insomma, rappresentarono per i Romani degli spettacoli tanto cruenti quanto terribilmente affascinanti.

Beatrice Boaretto per www.policlic.it


RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

[1] C. Lo Giudice, L’impiego degli animali negli spettacoli romani: venatio e damnatio ad bestias, in “Italies”, n. 12, 2008 (consultato il 25.10.2021).

[2] Giochi gladiatori.

[3] C. Lo Giudice, op. cit. Quando la venatio divenne definitivamente un’integrazione del munus, con questo termine si poteva talvolta indicare anche il solo spettacolo di caccia.

[4] Historia Augusta, Probo, 19; C. Lo Giudice, op. cit.

[5] Cassio Dione, Storia romana, XLIV, 26; LIX, 7; LX, 7; Simmaco, Epistolae, VII, 122; Historia Augusta, Vita dei tre Gordiani, 3.

[6] Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, XXXVI, 40; Varrone, De re rustica, III, 13, 3.

[7] R. Rea, Gli animali per la venatio: cattura, trasporto, custodia, in A. La Regina, Sangue e Arena, Electa, Milano 2001, p. 253.

[8] R. Rea, op. cit., p. 253; C. Lo Giudice, op. cit.

[9] Plinio il Vecchio afferma che in Africa l’orso non si trovava: Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, VIII, 54-131. L’autore viene contraddetto da altre fonti: Marziale, Liber de spectaculis, I, 104, 5; Giovenale, Satire, IV, 99; Cassio Dione, Storia romana, LIII, 27.

[10] R. Rea, op. cit., p. 254.

[11] Ivi, p. 253.

[12] Ivi, pp. 254-262.

[13] Plinio il Giovane, Epistolae, VI, 34, 3.

[14] Simmaco, Epistolae, II, 76; IX, 117; Apuleio, Metamorfosi, IV, 72; R. Rea, op. cit., p. 263.

[15] Claudiano, De consulatu Stilichonis, III, 325-332.

[16] R. Rea, op. cit., p. 263.

[17] Nel 417 d.C. una carovana, formata dal dux del limes dell’Eufrate, rimase ferma a Hierapolis (in Siria) per ben tre mesi o quattro, a spese dei notabili locali. In seguito a una protesta inviata dal governatore della provincia, fu emanata un’ordinanza con la quale si ricordava a tutti i duces delle frontiere che, sotto pena d’ammenda, le carovane non potevano soggiornare oltre i sette giorni nei centri urbani e che questi non erano tenuti a fornire gabbie per gli animali: Codice Teodosiano, XV, 11, 2; R. Rea, op. cit., p. 263.

[18] R. Rea, op. cit., p. 269.

[19] Le varie tipologie di imbarcazioni sono state individuate nel Mosaico della Grande Caccia di Villa del Casale di Piazza Armerina, nel sarcofago di Villa Medici e nel mosaico di Althiburos (in Tunisia).

[20] Ruolo fondamentale nell’economia dell’Impero, testimoniato nel piazzale delle Corporazioni di Ostia.

[21] R. Rea, op. cit., p. 267; W.C. Epplett, Animal Spectacula of the Roman Empire, The University of British Columbia, Vancouver, Canada 2013, p. 148.

[22] W.C. Epplett, op. cit., p. 145.

[23] Plinio il Vecchio, op. cit., XIX, 4.

[24] Ibidem.

[25] Simmaco, Epistolae, II, 77: «ferreis caveis».

[26] R. Rea, op. cit., p. 265.

[27] Lucano, Pharsalia, X, 445-6; R. Rea, op. cit., pp. 263-4.

[28] Le varie tipologie di gabbie sono state individuate nelle raffigurazioni dei mosaici africani e della Grande Caccia.

[29] R. Rea, op. cit., p. 263-5; W.C. Epplett, op. cit., pp. 140-2.

[30] R. Rea, op. cit., p. 265.

[31] C. Lo Giudice, op. cit.

[32] Ibidem.  

[33] Plinio il Vecchio, op. cit., VIII, 78; R. Rea, op. cit., p. 269.

[34] R. Rea, op. cit., pp. 269-270.

[35] Crisostomo, Omelia, LIX.

[36] Libanio, Orazione ad Artemis, XIV.

[37] Tertulliano, Ad Martyras, V.

[38] Plinio il Vecchio, op. cit., XXXVI, 40; R. Rea, op. cit., p. 271.

[39] Digesto, XXXI, 1, 40-2.

[40] R. Rea, op. cit., p. 271.

[41] Plinio il Vecchio, op. cit., XXXVI, 40.

[42] Procopio, La guerra gotica, I, 22, 10; 23, 13-23.

[43] R. Rea, op. cit., pp. 271-2.

[44] Ivi, p. 272.

[45] R. Rea, op. cit., pp. 273-4.

[46] Ibidem.

[47] Epoca di Claudio o Nerone. Giovenale, Satire, XII, 100-7.

[48] «Praepositum herbariarum».

[49] «Adiutor ad feras», C. Lo Giudice, op. cit.

[50] R. Rea, op. cit., p. 274.

[51] Ibidem.

[52] R. Rea, op. cit., p. 246.

[53] Regione storica della Grecia centrale.

[54] Tito Livio, Ad Urbe condita, XXXIX, 22, 2.; R. Rea, op. cit., p. 246; C. Lo Giudice, op. cit.

[55] C. Lo Giudice, op. cit.

[56] Per gli animali ammaestrati: Marziale, Epigrammi, I, 6, 14, 22, 48, 51, 60, 104.

[57] C. Lo Giudice, op. cit.

[58] Silla: Plutarco, Silla, V; Plinio il Vecchio, op. cit., VIII, 20, 53; M. Aemilius Scaurus: Plinio il Vecchio, op. cit., VIII, 24, 64 e 40, 96; Pompeo: Cicerone, Epistulae ad familiares, VII, 1, 3; Cassio Dione, op. cit., XXXIX, 38, 2; Plinio il Vecchio, op. cit., VIII, 7, 20-1; 20, 53; 24, 64; 28, 70; 29, 71; 34, 84. Cesare: Cassio Dione, op. cit., XLIII, 22 – 23, 1-3; Plinio il Vecchio, op. cit., VIII, 7, 22; 20, 53; 27, 69; 70, 182; Svetonio, Cesare, XXXIX, 4; Velleio Patercolo, Storia romana, II, 56; Augusto: Cassio Dione, op. cit., LI, 22, 5; LIV, 26, 1; LV, 10, 7-8; Plinio il Vecchio, op. cit., VIII, 25, 65; Nerone: Cassio Dione, op. cit., LXIII, 9, 1; Calpurnio Siculo, Bucoliques, VII, 23-84; Plinio il Vecchio, op. cit., XXXVII, 3, 45.

[59] C. Lo Giudice, op. cit.

[60] Cicerone, op. cit., VIII, 9, 3; 8, 10; R. Rea, op. cit., p. 249; C. Lo Giudice, op. cit., 2008.

[61] C. Lo Giudice, op. cit.

[62] Definizione di Cassio Dione, Storia romana, LXIV, 25, 1.

[63] C. Lo Giudice, op. cit.

[64] Quest’ordine si riflette nella denominazione del Ludus Matutinus, edificio dove si allenavano i venatores, che talvolta erano chiamati matutini.

[65] Pene capitali eseguite con modalità atroci e ignominiose, come la damnatio ad bestias, ovvero l’esposizione a bestie fameliche.

[66] C. Lo Giudice, op. cit.

[67] Prima solitamente gli edili curuli e i pretori urbani; ora, sembra, i soli pretori; dopo Caligola solamente i questori. G. L. Gregori, Aspetti sociali della gladiatura romana, in A. La Regina, Sangue e Arena, Electa, Milano 2001, p. 17. 

[68] Tito: Svetonio, Tito, 7, 3; Eutropio, Breviarium ab Urbe condita, 7, 21, 4; Marziale, Epigrammi, I, 104; Marziale, Liber de spectaculis, 4, 35; 9; 10; 12, 13, 14; 19; 31; Domiziano: Svetonio, Domiziano, IV, 1-2; Marziale, Epigrammi, I, 6, 14, 22, 48, 51, 60, 104; Traiano: Cassio Dione, op. cit., LXVIII, 15,1; Adriano: Historia Augusta, Adriano, 3, 7; Antonino Pio: Historia Augusta, Antonino Pio, 10, 9; Marco Aurelio: Historia Augusta, Marco Aurelio, 17; Commodo: Erodiano, Storia dell’impero dopo Marco Aurelio, 1, 15, 2-6; Cassio Dione, op. cit., LXXII, 10,3; 18, 1; 19, 1; Historia Augusta, Commodo, 12; 13; 15, 3; Settimio Severo: Historia Augusta, Settimio Severo, 14; Cassio Dione, op. cit., LVI, 1,7; LXXV, 16, 5; Caracalla: Cassio Dione, op. cit., LXXVII, 6, 2; Eliogabalo: Cassio Dione, op. cit., LXXIX, 9, 2; Gordiano I: Historia Augusta, Gordiano, 3, 5-8; Gordiano III: Historia Augusta, Gordiano, 33, 1-3; Gallieno: Historia Augusta, Gallieno, 33, 1-3; Aureliano: Historia Augusta, Aureliano, 33-34; Probo: Historia Augusta, Probo, 19, 2-7.

[69] Pratica per cui un cittadino privato, in modo apparentemente disinteressato, compiva buone azioni, elargendo alla comunità regalie necessarie per il rifornimento alimentare, la costruzione di edifici, la ristrutturazione di strade, l’allestimento di spettacoli etc.

[70] C. Lo Giudice, op. cit.

[71] R. Rea, op. cit., p. 233; C. Lo Giudice, op. cit.

[72] C. Lo Giudice, op. cit.

[73] Marziale, Epigrammi, I, 15, 22, 23, 28; R. Rea, op. cit., p. 228.

[74] Historia Augusta, Commodo, 8; Cassio Dione, op. cit., LXII, 15, 5.

[75] Historia Augusta, Commodo, 9.

[76] Historia Augusta, Caracalla, 5, 5, 9; C. Lo Giudice, op. cit.

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