Il crollo del fascismo: racconto di un’uscita di scena

Il crollo del fascismo: racconto di un’uscita di scena

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Tante volte nella nostra vita ci siamo imbattuti nel racconto della seduta del Gran Consiglio del Fascismo del 25 luglio del 1943. Un racconto spesso sommario, ma dal quale alla fine si capiva che Mussolini era stato destituito da quei gerarchi che, in definitiva, tentarono di salvare il Paese o, più semplicemente, di salvare sé stessi. Il giorno dopo Mussolini sarebbe stato arrestato, in seguito al colloquio con il sovrano, come conseguenza di questa decisione del “massimo organo” del regime.

Ma è andata davvero così? È realmente tutto così semplice e lineare? Chiaramente la risposta a queste domande è negativa. Come in tutti gli eventi politici che hanno determinato la fine di un’epoca, anche in questo caso ciò che si mosse dietro le quinte, e che conseguentemente ancora oggi viene sottovalutato, ebbe un’importanza fondamentale.

Cosa determinò quindi la fine di Mussolini? Quale fu il ruolo effettivo dei gerarchi del Gran Consiglio del fascismo e perché fu data loro la possibilità di esprimersi sul proprio capo assoluto? E infine (forse la domanda più difficile di tutte), perché Mussolini lasciò che gli eventi si svolgessero in questo modo? Era consapevole di ciò che stava per accadere?

Lo scopo di questo approfondimento è dunque quello di analizzare gli antefatti, gli eventi, le cause di questi ultimi, nonché il ruolo degli attori principali che hanno caratterizzato la fine del regime fascista; in definitiva, comprendere l’uscita di scena di Benito Mussolini, l’uomo che è stato sostanza e immagine del Ventennio.


Gli antefatti della fine del regime

Le ultime riunioni del Gran Consiglio prima di quella del 25 luglio 1943 si tennero tra il 1º settembre e il 7 dicembre 1939, e riguardarono il secondo conflitto mondiale da poco iniziato in Europa: in merito alla possibilità che l’Italia entrasse in guerra a fianco dell’alleata Germania nazista, il Gran Consiglio si espresse per la “non belligeranza”, data l’estrema impreparazione militare delle nostre forze armate. Ma nel giugno del 1940, quando Mussolini decise l’entrata in guerra per avere un posto da vincitore “al tavolo della pace”, il Gran Consiglio era già entrato nella sua fase “dormiente”, e non fu chiamato a esprimere il proprio parere al riguardo[1].

Il Gran Consiglio fu dunque investito dal processo di concentrazione totalitaria del potere nelle mani del duce, il quale esautorò, oltre all’organo supremo del regime, anche il Consiglio dei Ministri, divenuto negli ultimi anni sempre più un passacarte di Mussolini.

Prima di descrivere cosa successe nella seduta più famosa della storia del Gran Consiglio, è necessario analizzare, nel pur ristretto spazio a disposizione, i motivi e gli eventi che portarono al finale che tutti conosciamo.

Il 10 luglio del 1943 le truppe anglo-americane sbarcarono in Sicilia, iniziando la risalita della penisola che avrebbe portato in due anni alla liberazione dal nazifascismo. Questa era la conseguenza di una serie di sconfitte subite dall’Italia fascista e dai nazisti in Africa e nel Mediterraneo: il 23 ottobre 1942 l’VIII armata britannica aveva lanciato una devastante controffensiva ad El Alamein, andando a occupare Tripoli in tre mesi; tra l’8 e il 12 novembre era inoltre avvenuto lo sbarco delle truppe anglo-americane in Marocco e in Algeria[2]. In tutto questo non bisogna certamente dimenticare la disastrosa campagna militare in Russia.

Lo sbarco in Italia costituì un tassello fondamentale per il successo degli Alleati e, allo stesso tempo, un gravissimo colpo per il regime e per Mussolini in particolare. Come abbiamo visto, il Duce era ormai depositario di tutte le responsabilità all’interno dello Stato fascista, incluse le disfatte militari: egli aveva infatti ricevuto anche il comando delle operazioni militari all’inizio del conflitto tramite una “delega dei poteri” del re, che per Statuto era il comandante supremo delle forze armate[3].

In questo contesto il progetto di sostituzione di Mussolini era maturato già alla fine del 1942 all’interno degli alti comandi militari, che vedevano nel suo allontanamento l’unica ancora di salvezza per l’Italia in caso di disfatta militare. Nello specifico, il generale Ambrosio, nuovo capo di Stato Maggiore, il generale Castellano e il generale Cerica, comandante generale dei Carabinieri, compresero che era venuta l’ora di disfarsi di Mussolini e presero un’iniziativa in tal senso. Il sovrano agì tramite il ministro della Casa Reale, il duca Acquarone, che già il 19 luglio si accordò con l’ex capo della Polizia Carmine Senise. Quest’ultimo elaborò il piano di arresto da attuare nei confronti di Mussolini, in cui erano previsti il blocco delle centrali telefoniche, lo scioglimento del partito fascista, la militarizzazione della polizia, della milizia, dei ferrovieri e dei postelegrafonici. Come conclusione dell’operazione si sarebbe insediata una dittatura militare presieduta da Badoglio[4].

Tale piano rimase ignoto ai gerarchi che organizzarono la sfiducia politica nei confronti di Mussolini nel Gran Consiglio del 24 luglio del 1943. Certamente esso fu utilissimo al re, che poté così giustificare la sua decisione con la volontà di un organo costituzionale del regime stesso. Più precisamente, si può dire che il sovrano sciolse qualsiasi riserva relativa all’attuazione del piano solo dopo la votazione del Gran Consiglio.

I massimi gerarchi del regime fascista furono spinti a un colloquio con il duce dalla gravissima situazione che si era ormai chiaramente delineata dal punto di vista delle vicende belliche. L’incontro tra Mussolini e il segretario del partito Scorza, insieme ad altri gerarchi, fu organizzato su iniziativa di questi ultimi, in seguito alla decisione del duce di convocare delle adunate nei capoluoghi di regione finalizzate ad alzare il morale della popolazione. Tale convocazione fu il pretesto per una riunione tra alcuni gerarchi durante la mattina del 16 luglio: essi chiesero poi di essere ricevuti nel pomeriggio da Mussolini[5]. Farinacci chiese per primo che il Gran Consiglio fosse nuovamente convocato per discutere della grave crisi militare e politica in cui era sprofondato il Paese[6]. L’ex segretario Giuriati spiegò che l’attuale situazione era conseguenza diretta della mancata applicazione delle leggi fondamentali del regime, come ad esempio la legge di costituzionalizzazione del Gran Consiglio. Fu poi Bottai a esplicitare il senso che i gerarchi avevano intenzione di conferire alla successiva riunione del Gran Consiglio:

Noi chiediamo che la rivoluzione ricostituisca i suoi organi, per agire come l’ora comporta. Non siamo qui a chiedere di diminuire i tuoi poteri, anzi il tuo potere; né per dividere, cioè sezionare, frammentare, la tua responsabilità. Siamo qui, nel rinnovato e ribadito riconoscimento del tuo potere di capo, a chiedere, di condividere, la tua responsabilità.[7]

Mussolini li congedò con l’impegno di convocare il Gran Consiglio. In realtà la decisione effettiva di far riunire il supremo organo del regime fu presa dal duce solo dopo i bombardamenti su Roma, che avvennero il 19 luglio, mentre Mussolini si trovava a Feltre a colloquio con Hitler per discutere della situazione militare italiana[8].


Il Gran Consiglio del Fascismo. Fonte: Wikimedia Commons.

Il 25 luglio 1943

Il 21 luglio venne comunicata la convocazione dal segretario del partito ai membri del Gran Consiglio per sabato 24 luglio alle ore 17. Bisogna tenere infatti presente che gli eventi riassunti nella data “25 luglio” si svolsero in realtà nelle ventiquattro ore comprese tra le 17 di sabato 24 e le 17.30 di domenica 25, quando Mussolini fu arrestato dai carabinieri all’esterno di Villa Savoia. Per la riunione fu disposto da Mussolini che sulla stampa non ne fosse data notizia, che non fosse issato il gagliardetto del partito fascista al di fuori di Palazzo Venezia e che non fosse convocata nemmeno la guardia d’onore.

Alla vigilia della riunione stessa Mussolini era consapevole del fatto che la popolazione fosse sempre più insofferente nei suoi confronti: egli era ritenuto responsabile, non senza ragioni, della crisi militare e politica, e ormai pochi si esimevano dal fare considerazioni negative nei suoi riguardi[9]. Questo è un dato da tener presente per poter comprendere le possibili ragioni alla base del comportamento del duce nel corso della riunione.

Dino Grandi. Fonte: Wikimedia Commons

L’ordine del giorno che portò alla destituzione di Mussolini fu elaborato da Dino Grandi. Il presidente della Camera dei fasci si incontrò con il segretario del partito Scorza, verosimilmente nella serata del 20 luglio, e gli mostrò la prima stesura del testo dell’ordine del giorno, che il segretario, pur disapprovandolo, sottopose nella giornata successiva a Mussolini. In tale versione, alla quale ne seguì una seconda ancora più dettagliata e poi una terza, quella definitiva, si prevedeva l’abolizione del regime totalitario, la libertà per i partiti di opposizione, la conseguente eliminazione del partito unico e dello stesso Gran Consiglio[10]. Solo dopo l’incontro con Bottai furono apportate sostanziali modifiche, come l’eliminazione della richiesta di soppressione del Gran Consiglio, mentre il punto relativo alla libertà politica per gli altri partiti era già stato cancellato nella seconda versione[11].

Nel suo primo intervento, Grandi lesse il testo del suo ordine del giorno:

Il Gran Consiglio, riunendosi in questi giorni di supremo cimento, volge innanzi tutto il suo pensiero agli eroici combattenti d’ogni arma, che fianco a fianco con la fiera gente di Sicilia, in cui più alta risplende l’univoca fede del popolo italiano, rinnovano le nobili tradizioni di estremo valore e l’indomito spirito di sacrificio delle nostre gloriose Forze armate; esaminata la situazione interna ed internazionale e la condotta politica e militare della guerra, proclama il dovere sacro per tutti gli italiani di difendere ad ogni costo l’unità, l’indipendenza, la libertà della Patria, i frutti dei sacrifici e degli sforzi di quattro generazioni dal Risorgimento ad oggi, la vita e l’avvenire del popolo italiano; afferma la necessità dell’unione morale e materiale di tutti gli italiani in quest’ora grave e decisiva per i destini della nazione; dichiara che a tale scopo è necessario l’immediato ripristino di tutte le funzioni statali attribuendo alla Corona, al Gran Consiglio, al Governo, al Parlamento, alle Corporazioni i compiti e le responsabilità stabilite dalle nostre leggi statali e costituzionali; invita il Capo del Governo a pregare la Maestà del Re, verso la quale si rivolge fedele e fiducioso il cuore di tutta la Nazione, affinché egli voglia, per l’onore e per la salvezza della Patria, assumere, – con l’effettivo comando delle forze armate di terra, di mare e dell’aria, secondo l’articolo 5 dello Statuto del Regno, – quella suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a Lui attribuiscono e che sono sempre state, in tutta la storia nazionale, il retaggio glorioso della nostra Augusta Dinastia di Savoia.[12]

Mussolini, nonostante non fosse obbligato a porre ai voti l’ordine del giorno e nonostante ne fosse stato presentato uno anche da Scorza, che si riferiva semplicemente alla necessità di riforme nell’ambito del Governo, alle due di notte decise di mettere in votazione quello del presidente della Camera: esso fu approvato con diciannove voti contro sette[13].

La mattina del 25 luglio 1943, Dino Grandi informò il duca Acquarone di ciò che era successo in Gran Consiglio. Mussolini giunse a Villa Savoia alle 16.55 per il consueto incontro con Vittorio Emanuele III. Alcune parole della sua conversazione con il sovrano sono riportate dal generale Paolo Puntoni, primo aiutante di campo del re. Nonostante Mussolini ribadisse la natura consultiva del Gran Consiglio, il sovrano, avendo già preso una decisione, comunicò al duce la nomina di Badoglio a capo del governo, avvenuta la mattina stessa[14]. Appena uscito dalla residenza reale, Mussolini venne invitato dai carabinieri a salire su un’autoambulanza, al cui interno erano presenti altri membri dell’Arma. Con questo arresto aveva fine il regime fascista.

È interessante cercare di comprendere quale ruolo ebbero i vari attori che abbiamo citato nella destituzione e nell’arresto di Mussolini.

Per quanto riguarda i gerarchi, è possibile affermare, nonostante dichiarazioni postume di alcuni di loro vadano in direzione opposta, che la maggioranza di essi non voleva assolutamente eliminare politicamente il duce e tanto meno farlo arrestare. Certamente essi puntarono su un’accusa al regime totalitario e su una restaurazione di alcuni poteri costituzionali, in primis quello monarchico con tutte le sue prerogative, ma per alcuni sarebbe stato un modo per salvare il regime oltre che il Paese, coinvolgendo il sovrano nell’organizzazione della resistenza militare. I gerarchi non erano consapevoli del piano di colpo di Stato preparato dai militari. È dunque possibile affermare che la fine politica e l’arresto di Mussolini non furono una conseguenza diretta della seduta del Gran Consiglio, in quanto erano stati preventivati dai militari al di là dei risultati della seduta stessa[15].

In conclusione resta da spiegare perché Mussolini, pur essendo a conoscenza dell’ordine del giorno Grandi, pur sapendo dei tentativi dei militari finalizzati a un capovolgimento della situazione politica e pur sostenendo che la situazione disastrosa del Paese non fosse derivante dai suoi errori, ma dalla sfortuna e dalle mancanze dei suoi generali, decise di convocare comunque il Gran Consiglio e soprattutto di mettere ai voti l’ordine del giorno Grandi, cose che avrebbe potuto facilmente evitare. La spiegazione che si dà Emilio Gentile, nel suo libro 25 Luglio 1943, è che Mussolini, avendo compreso di aver perduto il proprio carisma agli occhi del popolo italiano e, dopo il colloquio del 16 luglio, anche dei gerarchi, si rassegnò al voto del Gran Consiglio in quanto esso fu la conferma di una perdita definitiva di fiducia nei suoi confronti anche da parte dei suoi più fedeli servitori[16]. Accettò la propria fine politica “come un suo proprio atto di abdicazione per estrema amarezza e ripugnanza, anche se era stato deciso dal re”[17].

Di certo c’è che il Gran Consiglio, organo che negli ultimi tre anni del regime non era stato più convocato ed era quindi stato emarginato dalla vita politica dello Stato fascista, tornò a essere centrale nella storia d’Italia, portando indirettamente alla fine di una dittatura ventennale di cui era stato esso stesso l’emblema istituzionale, quale organo di partito divenuto organo supremo e costituzionale dello Stato a partire dal 1928.

Marcello Salvagno per www.policlic.it


[1] P. Colombo, La monarchia fascista, Il Mulino, Bologna 2010, p. 76.

[1] Ibidem, pp. 19-20.

[2] R. De Felice, Mussolini l’alleato, L’Italia in Guerra 1940-1943, Giulio Einaudi Editore, Torino 1990, p. 1089.

[3] R. Martucci, Storia costituzionale italiana. Dallo Statuto Albertino alla Repubblica (1848-2001), Carocci Editore, Roma 2002, p. 241.

[4] Ibidem.

[5] E. Gentile, 25 luglio 1943, Editori Laterza, Bari 2018, p. 137.

[6] D. Mack Smith, Mussolini, Rizzoli Editore, Milano 1981, p. 370.

[7] E. Gentile, 25 luglio 1943, cit., p. 137.

[8] D. Mack Smith, Mussolini, cit., p. 371.

[9] E. Gentile, 25 luglio 1943, cit., p. 11.

[10] Ivi, pp. 188-189.

[11] Ivi, pp. 192.

[12] Ivi, pp. 12-13.

[13] D. Mack Smith, Mussolini, cit., p. 372.

[14] R. Martucci, Storia costituzionale italiana. Dallo Statuto Albertino alla Repubblica (1848-2001), cit., pp. 243-245.

[15] E. Gentile, 25 luglio 1943, cit., pp. 260-264.

[16] Ivi, pp. 275-279.

[17] Ivi, p. 280.

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