Il decisionismo craxiano alla prova del governo

Il decisionismo craxiano alla prova del governo

Questo articolo è estratto dalla rivista Policlic n. 1 pubblicata il 27 maggio. 

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L’attuale emergenza COVID-19 sta mettendo a dura prova l’assetto delle democrazie occidentali. La necessità di decidere nella maniera più veloce e semplice possibile ha dato vita, fino a questo momento, a un processo di accentramento evidente del potere politico nelle mani del governo. Tutto ciò è comprensibile, se si pensa all’unicità storica della sfida da affrontare, ma pone delle altrettanto giustificabili riflessioni su “ciò che avverrà alla fine della tempesta”.

A proposito di decisione e centralità del governo, corsi e ricorsi storici ci porteranno, attraverso questo articolo, ad analizzare il potere politico nella stagione italiana caratterizzata dal decisionismo di stampo craxiano. Gli anni Ottanta furono anni di riflusso della partecipazione politica, di relativa crescita economica (soprattutto nella prima parte) ma anche del protagonismo di un capo partito e poi capo del governo decisamente peculiare come Bettino Craxi. È interessante capire, attraverso l’analisi dell’epopea politica di Craxi, quanto ci sia in essa della dottrina schmittianamente definita come “pura volontà politica da parte del legislatore”.


Il Comitato Centrale del MIDAS

Il principio dell’ascesa politica di Craxi, che in pochi anni lo portò a Palazzo Chigi, può essere individuato nel Comitato centrale del Partito Socialista del luglio 1976. Si era in piena fase di costruzione del cosiddetto “compromesso storico” tra DC e PCI, Moro stava tessendo la sua tela con Berlinguer, quando nella costellazione socialista irruppe una figura destinata a cambiare la storia, socialista e italiana:

In un infuocato Comitato centrale (12-16 luglio 1976) all’hotel Midas di Roma, gli schieramenti interni, da tempo cristallizzati, si frantumano in un caleidoscopio di posizioni. La corrente di maggioranza di osservanza demartiniana si sfalda, demolita dalla defezione guidata da Enrico Manca che assume il ruolo di regista nella scelta del nuovo leader. Un’inedita coalizione composta da sinistra lombardiana, autonomisti nenniani, ex demartiniani e manciniani insedia alla guida del partito il candidato meno appariscente, più giovane e più debole (in quanto esponente della piccola corrente autonomista), Bettino Craxi. L’elezione di Craxi, a lungo segretario della Federazione di Milano, seguace di Nenni e dal 1972 giovane vicesegretario nazionale, è in sintonia con il rinnovamento dei dirigenti socialisti e l’affacciarsi della terza generazione dopo quella storica dei Nenni e dei Pertini e quella intermedia dei De Martino e dei Mancini. […] Quella che avrebbe dovuto essere una segreteria di transizione si rivela invece la più stabile e la più solida della storia del Psi.[1]

Probabilmente in pochi avrebbero previsto il percorso politico di Craxi da quel luglio 1976. Uno che forse ci credeva già da allora è Claudio Martelli[2], che nel suo libro di recente edizione sul leader socialista esprime in modo emblematico la drammaticità della situazione del partito al momento dell’insediamento di Craxi:

Quando nel luglio 1976 Craxi diventa segretario del PSI al termine di un Comitato Centrale più importante di un congresso, il PSI è un partito prostrato. Inchiodato ancora una volta al 9,6% dalle elezioni di giugno, sembra un vaso di coccio tra la DC, che ha confermato il proprio primato, e il PCI di Berlinguer, che ha conquistato il 34% dei voti. Un vaso di coccio che rischia di diventare un inutile soprammobile nello scenario inedito dell’incontro e dell’accordo tra i due giganti. La “congiura” generazionale tra i quarantenni, che dopo le dimissioni di Francesco De Martino e della direzione ha eletto Craxi, deve rispondere all’indifferibile necessità di una svolta, a un bisogno drammatico di rilancio e rinnovamento.[3]

L’ansia di rinnovamento e soprattutto l’esigenza di sopravvivere per poi proporre un rilancio caratterizzarono questi anni frenetici all’interno della compagine socialista. L’ascesa del nuovo segretario alla guida dello storico partito fondato nel 1892 fu rapida e impetuosa e passò attraverso la necessità di decidere in merito a due elementi strategici fondamentali: le alleanze nel partito e la strategia politica del partito.

Per quanto concerne il primo elemento, Craxi si mosse sulla direttrice dell’alleanza con Claudio Signorile, con cui strinse una partnership solida che avrebbe guidato il partito fino alla conclusione della loro collaborazione agli albori del 1980.

Dal punto di vista strategico il leader socialista diede la spinta propulsiva all’elaborazione della cosiddetta linea della alternativa di sinistra:

L’avanzamento della strategia del “compromesso storico” è percepito come una minaccia diretta al ruolo e alla sopravvivenza politica del Psi. Nella seconda metà degli anni Settanta il Psi fa ogni sforzo per contrastare la tendenza al bipolarismo, a un duopolio tra Pci e Dc che azzeri le forze intermedie. Per ritrovare uno spazio d’azione autonomo, vira a sinistra adottando una strategia “mitterrandiana” di alternativa di sinistra. Mentre il Pci corre al centro e deve mettere la sordina alle proteste per accreditarsi come affidabile partner di governo, il Psi lo incalza da sinistra blandendo tutti i movimenti di contestazione (ivi compreso il Movimento del Settantasette), esaltando i fermenti della società civile e riaccendendo una forte polemica sul “socialismo reale” dell’Europa dell’Est.[4]

Seppure non ricollegabile esclusivamente alla tendenza decisionista di Craxi, la strategia del PSI di quegli anni garantì al partito un ruolo di outsider competitivo nell’agone elettorale, anche se i suffragi non salirono mai di troppi punti percentuali. Unita alla posizione peculiare di Craxi e del partito sulla drammatica vicenda del sequestro Moro[5], la strategia dell’“alternativa” portò il PSI a riaccreditarsi come possibile interlocutore nelle dinamiche di formazione delle maggioranze di governo già dai primi anni Ottanta.


Gli anni Ottanta e la guida del governo del Paese

La strategia socialista portò in dote i suoi frutti nel momento in cui la stagione del compromesso storico si rivelò sostanzialmente esaurita. Dopo aver legittimato in maniera evidente il proprio potere all’interno del partito, infatti, Craxi fu pronto a sfidare la DC sul terreno del governo del Paese.

Craxi ricoprì la carica di Presidente del Consiglio in due governi durante la IX Legislatura. Governi detti di “pentapartito” per la presenza di democristiani, socialisti, socialdemocratici, repubblicani e liberali all’interno della maggioranza.

Un osservatore attento noterà una caratteristica peculiare di quegli di anni di gestione craxiana: la contemporanea guida del partito e del governo, che rievoca altre esperienze a noi più vicine dal punto di vista temporale.

Su questo argomento risulta di interesse la versione di Luigi Scoppola Iacopini:

[…] a nostro parere, nel 1983 Craxi commette un errore nel voler mantenere ben salda nelle proprie mani la segreteria. È qui infatti che il partito finisce in modo quasi inevitabile per esser relegato si suoi occhi in un angolino, al quale destinare sempre meno energie e attenzioni, pur mantenendo il profilo di un segretario accentratore che non si fida più di tanto neanche dei suoi collaboratori più stretti, che non delega praticamente nulla bloccando sul nascere qualsiasi pur timida iniziativa di cambiamento interno.[6]

Probabilmente non ci fu espressione più emblematica del decisionismo craxiano di quella che ebbe luogo in occasione della cosiddetta “crisi di Sigonella”. Gli eventi particolarmente intrisi di tensione geopolitica dell’ottobre 1985 misero addirittura in dubbio la storica subordinazione dell’Italia all’alleato americano. Ne parla magistralmente Aurelio Lepre nel suo libro sulla prima Repubblica:

In realtà, nel pentapartito coesistevano linee politiche molto diverse, non solo per quanto riguardava i rapporti con i comunisti. Anche in materia di politica estera, soprattutto su quella mediterranea, c’erano forti divergenze. Esse divennero palesi durante il sequestro della “Achille Lauro”, una nave italiana di cui il 7 ottobre 1985 si impadronì un gruppo di terroristi arabi. Craxi e Andreotti, resistendo alle pressioni del governo americano che chiedeva un’azione di forza (e accusava la Libia di Gheddafi di appoggiare i terroristi), preferirono la trattativa diplomatica e ottennero così che i terroristi abbandonassero la nave dopo averla condotta a Porto Said, in Egitto. I dirottatori, rimasti liberi, furono fatti salire su un aereo egiziano per essere posti in salvo in un paese neutrale. Ma l’aereo fu intercettato da alcuni caccia americani e costretto ad atterrare alla base Nato di Sigonella. Qui reparti di carabinieri impedirono a reparti della Delta Force americana di arrestare i terroristi, che furono presi in consegna dagli italiani (mentre Abu Abbas, uno dei capi della resistenza palestinese che si trovava sullo stesso aereo, veniva lasciato libero). L’ “Achille Lauro” poté così ripartire da Porto Said dove era rimasta bloccata per ordine del governo egiziano. Spadolini, ministro della Difesa, non aveva condiviso le posizioni di Craxi e di Andreotti, giudicandole troppo filoarabe e antiamericane, e il 16 ottobre il PRI uscì dal governo, provocandone le dimissioni. Ma Cossiga rinviò il governo Craxi al parlamento, che gli concesse nuovamente la fiducia.[7]

Diretto protagonista della vicenda fu Antonio Badini, che ricoprì la carica di Consigliere diplomatico del Presidente del Consiglio dal 1983 al 1987. Racconta così quelle ore convulse, soffermandosi anche sullo stato d’animo di Craxi:

[…] la forte pressione che, sulla scia del sequestro dell’“Achille Lauro” a causa di una spaccatura interna all’OLP di Arafat, derivava al governo italiano delle insistenze della Amministrazione americana, talvolta al limite della decenza, costituì il punto più alto della capacità di Craxi di assumersi i rischi e le conseguenze di un’azione diametralmente opposta a quella che gli avrebbe suggerito il più elementare opportunismo politico, che sarebbe stato foriero solo di lusinghe e onori. Cui invece Craxi, sfidando il buon senso i vantaggi politici che avrebbe potuto trarre da un atteggiamento di acquiescenza, rinunciò: in parte, per un sano impulso etico dell’orgoglio nazionale, ma in gran parte per salvaguardare la sua politica mediorientale tesa soprattutto a lenire la grave ferita nel mondo arabo causata dall’occupazione israeliana di Gaza e della Cisgiordania […]. Altro che decisionismo! Non avevo mai visto, come nei giorni della crisi di Sigonella, il presidente del Consiglio così macerato, cosciente dei forti rischi che si stava assumendo, ma ligio alla voce della coscienza di chi aveva appreso – ma certamente non era il solo in seno al governo – di indegne soperchierie e grossolane violazioni alla sovranità nazionale perpetrate da istanze politiche e militari americane sia nelle fasi immediatamente precedenti all’atterraggio a Sigonella del DC9 con bandiera egiziana, intercettato da caccia statunitensi, sia, successivamente, nel tentativo di trasferire i dirottatori dell’Achille Lauro negli Stati Uniti.[8]

Negli anni successivi qualcuno avrebbe sostenuto, tra il sospetto e il complottismo, che quella vicenda rappresentò l’inizio della fine della parabola politica di Craxi, che si era evidentemente inimicato gli alleati d’oltreoceano. In realtà, i rapporti tra lui e Reagan tornarono a essere illuminati dal sole poco dopo, ma rimane lecito porsi delle domande e lasciarsi andare a riflessioni su quello che fu un gesto di evidente rottura con il passato subalterno dell’Italia. Una riflessione che comunque non può non partire da una contestualizzazione del periodo storico in cui Craxi decideva di opporsi alla volontà degli Stati Uniti, in un contesto che avrebbe portato di lì a poco alla dissoluzione dell’impero sovietico e alla fine della logica dei due blocchi. Craxi, che era evidentemente lungimirante, oltre che decisionista, aveva forse compreso quale era la prospettiva e provava a cucire addosso all’Italia un ruolo diverso nell’area mediterranea. Un ruolo che inevitabilmente non poteva più essere quello, assunto fino a quel momento, di ultimo baluardo dell’Occidente atlantico e capitalista in contrapposizione a un mondo sovietico-socialista che di lì a poco non sarebbe esistito più.

Concedendoci un piccolo passo indietro dal punto di vista cronologico, risulta importante focalizzare il nostro focus su quello che accadde nel giugno 1985, che molto ci dice sull’impegno di Craxi nel processo di integrazione europea e sulla sua capacità di applicare un forte decisionismo anche alla materia comunitaria. Il dibattito verteva in quei giorni sull’opportunità di riforma dei processi decisionali, con Margaret Thatcher impegnata in prima linea nella difesa della sovranità degli Stati dagli “attacchi” di chi voleva invece una maggiore integrazione sovra-nazionale.

Lo scenario era molto familiare al Presidente del Consiglio italiano, in quella Milano dove era cresciuto e dove aveva mosso i primi passi in politica:

Dallo stallo si uscì al Consiglio europeo di Milano (giugno 1985). I tedeschi parvero propensi a forzare la situazione, e il capo del governo italiano, Bettino Craxi, che presiedeva la riunione, mise ai voti la proposta di indire una CIG [conferenza intergovernativa, NdA] per la preparazione di un trattato sulla cooperazione nella politica estera e di sicurezza e per la definizione delle modifiche ai trattati vigenti, con particolare riguardo agli aspetti istituzionali. Per la prima volta un Consiglio europeo registrò la divisione tra una maggioranza e una minoranza: la proposta passò infatti nonostante l’opposizione della Thatcher, del premier conservatore danese Poul Schlüter e del greco Papandreou.[9]

Se il decisionismo della stagione dei governi Craxi in politica estera è rappresentato in maniera emblematica dagli eventi di cui sopra, in politica interna ci viene in aiuto un fatto molto importante legato al rapporto tra Governo e parti sociali. Parliamo del cosiddetto “Decreto di San Valentino” del 1984, relativo al taglio di tre punti della cosiddetta “scala mobile”.

La scala mobile esisteva in Italia dal 1945, introdotta a seguito di un’intesa tra la CGIL e la Confederazione Generale Industria Italiana, e aveva la funzione di adeguare i salari dei lavoratori alla dinamica inflazionistica. Una forma di tutela dei lavoratori, dunque. Si può immaginare quale reazione abbia provocato una simile proposta, da parte di quelle forze di sinistra più radicali e retrive a digerire cambiamenti di questo tipo. La vicenda è spiegata in modo cristallino nel libro di Francesco Bonini sulla Storia costituzionale della Repubblica:

La prova del fuoco del “decisionismo” sarà superata durante la vicenda della “notte di San Valentino”. Nel 1975 il “punto” di contingenza, il meccanismo cioè di adeguamento automatico dei salari all’inflazione, era stato unito al livello più alto. Craxi emana il 12 febbraio 1984 un decreto che “taglia” tre punti di contingenza. I sindacati, a partire da quelli vicino al PCI, promuovono, con il forte appoggio del partito, la raccolta di firme necessarie a indire un referendum che abroghi il decreto (convertito nella legge 18 giugno 1984, n. 219). Il 9 giugno 1985, con un’alta partecipazione al voto, i favorevoli all’abrogazione si fermeranno al 45,7% contro un 54,3% di no.[10]

Il decisionismo inteso come capacità di prendere decisioni difficili in momenti decisivi, anche a rischio della propria posizione, caratterizzò quei mesi di governo tra il 1984 e il 1985. In particolare, fu la vicenda del referendum a mettere Craxi di fronte alla durezza di una scelta rischiosa: andare avanti sulla strada tracciata dal decreto oppure fare marcia indietro e restituire i punti della scala mobile. La vicenda della personalizzazione del referendum, che indubbiamente richiama il tentativo di riforma costituzionale del 2016, è raccontata da un diretto protagonista di quegli anni di governo socialista, Gianni De Michelis[11]:

Alla morte di Berlinguer, nel giugno del 1984, il PCI elesse segretario Natta, che proseguì nella direzione di Berlinguer, e minacciò il governo di indire un referendum per cancellare il decreto. Fu in questo caso che, ancora di più, il decisionismo di Craxi si spiegò dal punto di vista pratico. All’inizio Craxi decise di evitare il referendum, restituendo i punti di scala mobile; disse che, tutto sommato, il risultato era stato raggiunto, l’economia stava andando bene e il costo dovuto al rischio del referendum non valeva la pena rispetto al costo della restituzione dei punti di scala mobile. Quando però comunicò questa sua decisione a Benvenuto, a Carniti e a me medesimo, noi gli dicemmo che ci saremmo dimessi tutti e tre, perché ritenevamo questa scelta una follia. Lui prese atto di questa posizione e il giorno dopo andò in televisione e disse “Benissimo, noi abbiamo deciso di fare il referendum. Se verrò sconfitto, mi dimetterò”. E naturalmente, questo aiutò moltissimo il risultato.[12]

Attraverso un percorso storico sommario, per ovvie ragioni di spazio, abbiamo analizzato alcune delle vicende che rendono giustizia all’appellativo di decisionista dato a Craxi nel corso degli anni. Quando si parla di Craxi, soprattutto nella dialettica nazional-popolare (per non dire “chiacchiere da bar”), si tende ad appiattirsi sulla parte finale della parabola politica del leader socialista. In realtà Craxi è stato molto altro e probabilmente molto di più, al di là di quelle che possono essere le idee politiche di ognuno di noi, da un punto di vista della profondità dell’azione politica e della volontà di incidere nello Stato e nel Paese.

Volontà di incidere che, anche a causa dell’impossibilità di trovare un accordo con opposizioni politiche e partner di governo (vedi la questione della “grande riforma” delle istituzioni) non ha portato probabilmente ai risultati che lo stesso Craxi si era prefigurato. Ma qualche risultato lo ha portato, se è vero che dal 1983 al 1986 il PIL dell’Italia crebbe di 2,9 punti percentuali:

Se si calcolava anche il reddito prodotto dall’economia sommersa, l’Italia nel 1987 poteva essere considerata la quinta potenza del mondo per reddito pro capite. Quanto all’inflazione, la sua discesa cominciò a essere rilevante nella seconda metà del 1983. Nel mese di aprile il suo tasso era ancora superiore al 16%, ad agosto era già calato di tre punti. La discesa proseguì, e si accentuò, nel 1984. A marzo era al 12%, a settembre scese sotto il 10% e nel novembre era all’8,50%. La tendenza era dunque a un forte calo, anche se su base annua si trattava ancora di un’inflazione a due cifre (per l’intero 1984 essa fu 10,6%), molto più elevata di quella degli altri paesi della CEE, che, in media, superava di poco il 6%.[13]

I freddi numeri in parte ci parlano di un Paese in movimento, ma non possono rendere al massimo l’idea di quella che fu senz’altro una fase interessante della storia della nostra Repubblica. Per spiegarla meglio occorre forse prendere in prestito le parole di una persona che non può considerarsi certo un “amico politico” di Craxi, Ciriaco De Mita[14]:

De Mita coglieva la novità della linea di Craxi. Essa rappresentava un elemento nuovo nella politica italiana, perché “rompeva con gli schematismi ideologici di matrice marxista; faceva riferimento a tutto ciò che era vivo nella società; introduceva lo schema del partito-opinione; individuava in talune modifiche istituzionali una soluzione della crisi in termini di nuova autorità di governo”. Ma nelle posizioni del segretario del PSI De Mita coglieva anche un rischio di destabilizzazione, per il suo “protagonismo” che mirava a raccogliere consensi in opposizione sia alla DC che al PCI.[15]

Vediamo dunque come anche gli avversari politici sapevano riconoscere a Craxi una spinta propulsiva a un cambiamento richiesto da più parti, nella politica e nella società. A seguito della recente uscita del film Hammamet[16] un qualche accenno di confronto mediatico sulla questione c’è stato, ma nei mesi successivi altre tematiche hanno preso il sopravvento, fino alla comprensibile eclissi totale dovuta all’emergenza COVID-19. Ad ogni modo, sarebbe utile riaprire un dibattito storiografico approfondito per fare luce sulla vicenda, andando oltre l’esaltazione e la mistificazione in senso negativo.

Federico Paolini per www.policlic.it


Riferimenti Bibliografici

[1] P. Ignazi, I partiti in Italia dal 1945 al 2018, il Mulino, Bologna 2018, pp. 52-53.

[2] Martelli fu vicesegretario del PSI dal 1981, vicepresidente del Consiglio dal 1989 al 1991 e ministro di Grazia e Giustizia dal 1991 al 1993.

[3] C. Martelli, L’antipatico. Bettino Craxi e la Grande Coalizione, La nave di Teseo, Milano 2020, p. 104.

[4] P. Ignazi, op. cit., p. 53.

[5] È noto che Craxi era favorevole alla trattativa per salvare la vita dello statista democristiano.

[6] L. S. Iacopini, Accentratore o decisionista? Craxi e la guida del PSI, in G. Acquaviva, L. Covatta (a cura di), Decisione e processo politico. La lezione del governo Craxi (1983-1987), Marsilio Editori, Venezia 2014, p. 107.

[7] A. Lepre, Storia della prima Repubblica. L’Italia dal 1943 al 2003, il Mulino, Bologna 2004, p. 308. Alla narrazione del professor Lepre va aggiunto che durante la vicenda venne ucciso un cittadino statunitense di origine ebraica, Leon Klinghoffer (cfr. G. Crainz, Storia della Repubblica. L’Italia dalla Liberazione ad oggi, Donzelli editore, Roma 2016, p. 262, nota 44).

[8] A. Badini, op. cit., p. 46.

[9] L. Rapone, Storia dell’integrazione europea, Carocci editore, Roma 2016, p. 94.

[10] F. Bonini, Storia costituzionale della Repubblica, Carocci editore, Roma 2007, pp. 105-106.

[11] Gianni De Michelis (1940-2019) fu ministro delle Partecipazioni Statali (1980-1983), del Lavoro (1983-1987), vicepresidente del Consiglio dei ministri (1988-1989) e ministro degli Esteri (1989-1992).

[12] G. De Michelis, op. cit., p. 41.

[13] A. Lepre, op. cit., p. 301.

[14] De Mita fu Presidente del Consiglio dall’aprile 1988 al luglio 1989 ed è nota la dinamica politica della cosiddetta “staffetta” di governo con l’alleato socialista.

[15] A. Lepre, op. cit., p. 310.

[16] Hammamet, G. Amelio, Italia 2020.

 

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