Il mestiere di giornalista, pericoloso ma necessario

Il mestiere di giornalista, pericoloso ma necessario

La lezione degli antichi maestri sempre attuale nei tempi di crisi

I nemici dei giornalisti

Quello del giornalista è sempre stato un mestiere pericoloso, inviso ai potenti, ai corrotti e ai malfattori. Già nella prima età moderna, quando ancora non esisteva il giornalismo come lo conosciamo oggi, i menanti, ovverosia i compilatori di avvisi o fogli di notizie (dei giornalisti ante litteram), non avevano vita facile. Uno di questi, Annibale Cappello, il 14 novembre 1587 fu giustiziato a Roma, nello slargo antistante Castel Sant’Angelo, tra indicibili supplizi. Gli fu mozzata una mano, tagliata la lingua, e infine fu impiccato. La sua colpa, agli occhi di papa Sisto V, era di essere appunto un “menante falso, detrattore per molti anni delli gradi di persone d’ogni sorte […] et […] havere scritto avvisi ai prencipi heretici[1].

Cinque secoli più tardi, nell’era di Internet, chi diffonde notizie ritenute scomode rischia ancora – e anche più che in passato – di essere ucciso o imprigionato. Il 7 ottobre 2006, a Mosca, la giornalista russa Anna Politkovskaja fu uccisa in un agguato a colpi di pistola mentre rincasava. Aveva 48 anni. Nelle sue inchieste per il giornale indipendente “Novaja Gazeta” e nei suoi libri, tradotti anche all’estero, denunciava le violazioni dei diritti umani in Russia e in Cecenia e criticava apertamente il presidente russo Vladimir Putin (il cui compleanno, per una coincidenza probabilmente non casuale, cade proprio il 7 ottobre). La mattina del 7 gennaio 2015, a Parigi, due terroristi islamici vestiti di nero e armati con kalashnikov e fucile a pompa fecero una strage nella redazione del settimanale satirico “Charlie Hebdo”: uccisero otto giornalisti (tra cui il direttore Stéphane Charbonnier e il popolare disegnatore Georges Wolinski), un uomo delle pulizie, un ospite e due poliziotti, ritenendo di aver vendicato così il profeta Maometto, raffigurato dal settimanale in vignette per loro blasfeme. Il 16 ottobre 2017, a Malta, la giornalista Daphne Caruana Galizia, 53 anni, che indagava su casi di corruzione in cui erano coinvolti politici locali, fu uccisa in un attentato dinamitardo. Il 2 ottobre 2018, nel consolato saudita di Istanbul, il giornalista saudita Jamal Khashoggi, 60 anni, autore di articoli sul “Washington Post” contro la stretta repressiva attuata a Riad dal principe ereditario Mohammed bin Salman, fu assassinato e smembrato e il suo corpo fatto sparire.

Questi menzionati sono solo alcuni dei casi più eclatanti di giornalisti uccisi negli ultimi anni.  Ma dal 1992 se ne registrano complessivamente 2071 in tutto il mondo, stando a quanto riporta il sito del Committe to Protect Journalists (CPJ), un’organizzazione indipendente, con sede a New York, impegnata nella difesa della libertà di stampa[2]. Nel 2022 sono stati sessantasei i reporter assassinati o caduti nei teatri di guerra (quindici in Ucraina). Il primo – e finora unico – giornalista ucciso dall’inizio del 2023 è il camerunense Martinez Zogo, 50 anni, direttore di una emittente radiofonica locale. Il suo corpo mutilato è stato ritrovato domenica 22 gennaio nei pressi della capitale del Camerun, Yaoundé. Era stato sequestrato cinque giorni prima. Recentemente si era occupato di un caso di malversazione riguardante un’azienda dei media legata al governo.

Per i giornalisti, e in particolare per quelli d’inchiesta, i pericoli sono aumentati esponenzialmente con l’avvento di Internet. In epoche precedenti un regime dittatoriale poteva ridurre al silenzio un dissidente incarcerandolo o esiliandolo. Oggigiorno le notizie circolano più rapidamente, grazie ai nuovi dispositivi digitali. Giornalisti, intellettuali e attivisti per i diritti umani hanno maggiore visibilità e riescono a far sentire la propria voce ovunque attraverso i social media, ma sono perciò più esposti e più vulnerabili rispetto al passato. Autocrati e organizzazioni criminali, per metterli a tacere, ricorrono sempre più spesso alla via brutale dell’eliminazione fisica[3]; in aumento, tuttavia, sono anche i casi di detenzione. Al 1° dicembre 2022 vi erano oltre 360 giornalisti e blogger incarcerati nel mondo, dei quali quarantatré in Cina, quarantadue in Myanmar e quaranta in Turchia[4].

Un recente rapporto dell’Unesco registra come stia rallentando la graduale tendenza verso la depenalizzazione della diffamazione. Centosessanta Stati, Italia inclusa, non hanno ancora provveduto a derubricare questo reato penale, spesso contestato pretestuosamente al solo scopo di indurre all’autocensura i giornalisti scomodi. Come evidenzia infatti il citato rapporto, le norme sulla diffamazione hanno un effetto inibitorio anche prima che venga pronunciata una condanna carceraria”. Un giornalista sottoposto a processo non solo “dovrà investire il suo tempo a incontrare avvocati, rispondere a domande e preparare le sue difese”, ma dovrà anche “coprire personalmente le spese della sua difesa legale, e pagare le sanzioni che spesso vengono imposte e che a volte possono essere ingenti”. Senza contare che

in alcuni casi è prevista l’interruzione dell’attività giornalistica, mentre il processo è in corso o è la Corte stessa a decidere tale interruzione a mo’ di sanzione. Lo stigma che dipende da un processo del genere può anche comportare per il giornalista la perdita del posto di lavoro e avere così un impatto negativo sulle sue future possibilità occupazionali che potrebbero essere aggravate in caso di condanna[5].


La centralità del giornalismo

Il giornalismo, come ha osservato il sociologo Carlo Sorrentino, è una “bussola” che ci fornisce le informazioni indispensabili per orientarci nella complessità della vita quotidiana[6]. E il giornalista è un mediatore che svolge un’attività di selezione e ricostruzione della realtà. Tra i molteplici fatti che avvengono ogni giorno, egli seleziona quello che ritiene di maggiore interesse per il proprio pubblico di riferimento, e lo ricostruisce in un articolo (o in una video notizia oppure in un servizio radio) nel modo più esatto e accurato possibile. Ben sapendo, comunque, che il giornalismo, come ricorda ancora Sorrentino, “non è uno specchio, ma un filtro che setaccia il mondo, la realtà, i fatti e le persone protagonisti di tali fatti”[7].

In Italia la professione è disciplinata dalla legge n. 69 del 1963, istitutiva dell’Ordine dei giornalisti, l’organo di autogoverno della categoria di cui si è celebrato il 60° anniversario lo scorso 3 febbraio. L’articolo 2 della suddetta legge afferma:

È diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà di informazione e di critica, limitata dall’osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede. Devono essere rettificate le notizie che risultino inesatte, e riparati gli eventuali errori. Giornalisti e editori sono tenuti a rispettare il segreto professionale sulla fonte delle notizie, quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esse, e a promuovere lo spirito di collaborazione tra colleghi, la cooperazione fra giornalisti e editori, e la fiducia tra la stampa e i lettori.

Sono qui enunciati i principi cardine della deontologia professionale: diritti e doveri che ogni giornalista è tenuto a rispettare nello svolgimento del proprio lavoro.

Il giornalismo può essere considerato dunque a tutti gli effetti un bene pubblico, con una propria “centralità” nella società moderna, di cui garantisce non soltanto il funzionamento, ma la sua stessa esistenza, come ha sottolineato Giovanni Bechelloni, pioniere in Italia degli studi sociologici sulla carta stampata:

Senza giornalisti e senza giornalismo, senza la capacità di rendere pubbliche le novità man mano che accadono – raccontandole, interpretandole e commentandole in modo chiaro e conciso – la nostra società non potrebbe esistere. E lo stesso sistema dei media non potrebbe funzionare. E le arene del mercato e della politica diverrebbero ‘luoghi’ infrequentabili dove i conflitti e gli interessi distruggerebbero rapidamente quanto è stato faticosamente costruito[8].

Come ha recentemente ricordato un altro importante studioso, il sociologo americano Michael Schudson, esistono molti tipi di giornalismo. Tra questi, particolarmente rilevanti sono il giornalismo di comunità, il giornalismo di “advocacy” e il giornalismo di intrattenimento. Il primo

ha come scopo principale la costruzione della solidarietà in una piccola città, in una congregazione ecclesiastica, in un’università, in un ospedale, in un’associazione politica o in qualsiasi altro gruppo che utilizzi notizie recenti da e sui propri membri per dimostrare l’orgoglio degli stessi membri e le virtù della comunità che rappresenta.

Il secondo, invece, “non ci dice cosa è appena accaduto o cosa sta accadendo, ma quello che qualche scrittore o qualche gruppo di partigiani vorrebbe che accadesse e che, secondo loro, sarebbe la cosa migliore da fare per il mondo o per una particolare comunità”. Il terzo, infine, “porta notizie di interesse per molti senza pretendere di essere più di un diversivo”. Sebbene abbiano tutti “scopi legittimi”, il tipo di giornalismo di cui la democrazia non può fare a meno, secondo Schudson, è però il cosiddetto “accountability journalism”, il “giornalismo di responsabilità” che si sforza “di raccontare al pubblico ciò che i leader politici hanno fatto, ciò che stanno facendo e ciò che intendono fare”. Di “un giornalismo ben raccontato, avvincente e assertivo”, conclude Schudson, ne abbiamo oggi più che mai bisogno. Un tempo, il nostro, in cui è lo stesso giornalismo a essere in crisi, indebolito economicamente dalla diffusione del web e dei social media e screditato dai leader populisti insofferenti verso la stampa libera e indipendente[9].


La lezione dei maestri

Per ridare vigore e credibilità alla professione è certamente proficuo tornare agli antichi maestri spesso dimenticati, e fare nostra la loro lezione sempre attuale. Qui ne ricordiamo tre che in epoche differenti hanno segnato la storia del nostro giornalismo: Eugenio Torelli Viollier (1842-1900), Mario Borsa (1870-1952) e Carlo Casalegno (1916-1977).

Torelli, fondatore (nel marzo 1876) e primo direttore del “Corriere della Sera”, aveva una concezione moderna del giornalismo. Riteneva che un giornale dovesse essere imparziale, indipendente e libero di dare tutte le notizie, in una forma chiara e incisiva. I giornalisti, affermava, dovevano servire esclusivamente il pubblico senza tacergli nulla:

Occultare una notizia perché danneggia i nostri amici politici, sorvolare sopra un fatto per non giovare al partito avversario, non parlare di Tizio o di Sempronio per non far loro la réclame, mentre Tizio e Sempronio hanno fatto qualcosa di clamoroso, sono piccole disonestà che indispettiscono il pubblico e che riescono a tutto danno dello spaccio del giornale. […] Il giornalista è un testimone, egli deve dare al pubblico non soltanto le notizie del giorno, ma tutte le notizie del giorno, per quanto qualcuna possa increscergli[10].

Borsa, primo direttore del “Corriere della Sera” dopo la Liberazione (25 aprile 1945), aveva combattuto il fascismo e difeso strenuamente la libertà di stampa, “l’anima e l’animatrice di tutte le libertà”, diceva. Ai giornalisti che si occupavano di politica raccomandava:

Dite sempre quello che è bene o che vi par tale anche se questo bene non va precisamente a genio ai vostri amici: dite sempre quello che è giusto, anche se ne va della vostra posizione, della vostra quiete, della vostra vita. […] Siate dunque indipendenti ed inchinatevi solo davanti alla libertà, ricordandovi che prima di essere un diritto la libertà è un dovere e che per vivere liberi voi dovete imporre a voi stessi più freni di quelli che, per farci suoi schiavi, vi aveva imposto il nostro duce. Punto e basta[11].

Casalegno, vicedirettore della “Stampa” di Torino, assassinato dalle Brigate rosse nel novembre 1977, riteneva a sua volta che i “segreti” di un buon lavoro giornalistico fossero i seguenti:

1) la concretezza. Il giornale deve dare delle informazioni, delle notizie, non offrire delle speculazioni teoriche; 2) la chiarezza. È regola aurea che ogni corrispondenza, ogni notizia debba rispondere subito alle cinque domande classiche: chi? dove? come? quando? perché? […]; 3) la capacità di colpire la fantasia e la sensibilità umana dei lettori. Uno scrittore lucido ma glaciale, razionale ma freddo, non sarà mai un grande giornalista; 4) la facoltà di interessare e soddisfare tutti i lettori, dall’intellettuale all’artigiano, dal professore all’operai. Un giornalista non scrive per pochi iniziati, ma per la massa; è di gran classe se riesce ad attrarre il pubblico meno raffinato ed a farsi apprezzare al tempo stesso da un’élite di gusto più sottile; 5) il rigore delle informazioni e la serietà delle idee, accompagnati dalla vivezza dello stile, da una certa lievità attraente e saporosa, da un continuo uso di immagini facili, chiare, calzanti, facilmente comprensibili; 6) il rispetto del lettore e la coscienza delle proprie responsabilità. Il giornalista deve cercare la verità e guardarsi dai due insidiosi nemici dell’informazione esatta: la fretta, che impedisce il controllo e favorisce le notizie approssimative; la deformazione professionale, che spinge il cronista ad esagerare ed alterare i fatti nella ricerca dell’effetto migliore; 7) la modestia. Il grande giornalista non disprezza nessun servizio: sa che la rivoluzione in Giordania ed un incidente ferroviario sono egualmente importanti nel suo mestiere ed esigono la stessa scrupolosa attenzione, lo stesso fervore[12].

Pierluigi Allotti per www.policlic.it


Riferimenti bibliografici

[1] S. Bongi, Le prime gazzette in Italia, in “La Nuova Antologia”, 11, 1869, p. 321.

[2] https://cpj.org/.

[3] Cfr. A. Applebaum, This is why so many journalists are at risk today, in “Washington Post”, 14 ottobre 2018, link: www.washingtonpost.com/opinions/global-opinions/this-is-why-so-many-journalists-are-at-risk-today/2018/10/14/2c8ffd30-ce3f-11e8-a3e6-44daa3d35ede_story.html.

[4] Fonte CPJ.

[5] R. Soraide, L’“uso scorretto” del sistema giudiziario per attaccare la libertà di espressione. Tendenze, Sfide e Risposte, Unesco, Parigi, 2022.

[6] C. Sorrentino, Tutto fa notizia. Leggere il giornale, capire il giornalismo, Carocci, Roma 2007, pp. 23-26.

[7] Ivi, p. 15.

[8] G. Bechelloni, La comunicazione giornalistica. Una centralità poco percepita, Le Lettere, Firenze 2009, pp. 33-34.

[9] M. Schudson, Journalism. Why It Matters, Polity, Cambridge 2020, pp. 1 e ss.

[10] E. Torelli Viollier, La stampa e la politica, in Milano 1881, Giuseppe Ottino Editore, Milano 1881, pp. 472-473.

[11] M. Borsa, Memorie di un redivivo, p. 456.

[12] C. Casalegno, Il giornale, Eri, Torino 1957, pp. 120-121.

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