Il peso del mondo scritto

Il peso del mondo scritto

Un invito a “salire la scrittura” in tempi di sovrapproduzione di narrazioni e riduzione dell’esperienza

Un invito a “salire la scrittura” in tempi di sovrapproduzione di narrazioni e riduzione dell’esperienza


Each human being creates a kind of “space bubble” that he carries with him as his osmic mask. This BO as a hidden chemical vesture is enormously enhanced by the private motorcar. It turns each of us into a kind of beetle with a steel carapace, or cover. Our attachment to this armor may well become more intense with crowding and noise, and may be one of the reasons for the common abhorrence of public transit.[1]

McLuhan (e Barrington Nevitt),
Take today. The executive as dropout, 1972.

“Lo Scrittore lavora seduto (quando non è così saggio e fantasioso per cercarsi altre posizioni) e la sedentarietà è un profondo male. Un male per tutti, un male universale del civilizzato occidentale. Il Tissot, nel suo immortale De valetudine litteratorum, dice che tutte le sventure fisiche dei letterati vengono dalla fatica assidua della mente (mentis assiduus labor) e dall’inattività eccessiva del corpo (corporis continua requies). Parla anche di una colpa dello star seduti: colpa igienica – ma una colpa igienica è vera colpa, un peccato contro il corpo, strumento della parola. Madame de Sévigné scrive da esperta alla figlia: ‘Quasi tutti i nostri mali vengono dallo star sulle sedie’ (testualmente: d’avoir le cul sur la selle). Il Van Swieten vede gli uomini di lettere, a causa della sedentarietà, predestinati all’apoplessia: frequenter a tali causa oritur apoplexia. Il Valensin, brillante sessuologo, autore di un memorabile libretto sulla Prostata, che è sventura sia quasi del tutto sconosciuto in Italia, elencati i guai che provoca la sedentarietà alla vescica, osserva che i Giapponesi modernizzati, scoprendo la sedia, hanno nello stesso tempo scoperto l’ipertrofia prostatica.”[2] Così Guido Ceronetti nella introduzione a una intervista che rivolge a Italo Calvino, oggi raccolta nel libro Mondo scritto e mondo non scritto. Star seduti, star fermi produce scrittura e produce malattia. L’uomo è malato di pensiero, è un animale che ha contratto questo morbo geneticamente. Forse sedendosi, un giorno, per la prima volta, per più tempo rispetto a quando saliva.

Le “colpe” dello star seduti e, dunque, dello star scriventi, si ripercuotono anche sul mondo editoriale. In Francia Gallimard, qualche giorno fa, ha pubblicato questo annuncio sulla sua pagina internet dei contatti: “Date le circostanze eccezionali, vi chiediamo di soprassedere all’invio di manoscritti. Abbiate cura di voi e buone letture”. Abbiate cura di voi. E buone letture. In tempi normali arriverebbero a un editore circa trenta manoscritti al giorno da vagliare (già molti); di questi tempi pandemici (ed endemici) pare si sia arrivati a cinquanta. Un altro editore francese, Seuil, sostiene di aver ricevuto già circa milleduecento manoscritti tra gennaio e marzo 2021, a fronte dei tremilacinquecento solitamente spalmati in un anno. (Che tempra il manoscritto che continua a farsi chiamare tale mentre di “a mano” non è rimasta nemmeno la firma.) Insomma, stare fermi stimola la mano, le dita, la scrittura, ça va sans dire. Grande male. Nel libro recentemente pubblicato da Ponte alle Grazie del poeta Paul Celan, Non separare il no dal sì, il poeta annota: “Parla anche tu, / parla per ultimo, di’ la tua. / Parla – / ma non separare il no dal sì. / Da’ al tuo detto anche il senso: / dagli ombra. / Dagli ombra che basti, / dagliene tanta, / quanta tu sai ripartita intorno a te tra / mezzanotte e mezzogiorno e mezzanotte. | Guarda in giro: / vedi come intorno è vivo – / Alla morte! Vivo! / Dice il vero chi dice ombra. / Ora però si restringe il luogo dove stai: / dove, adesso, spogliato dell’ombra, dove? / Sali. Tasta in alto. / Più sottile diventi, più irriconoscibile, più fine! / Più fine: un filo / sul quale vuole scendere la stella: / per nuotare giù, giù, / dove lei si vede brillare: nella risacca / delle parole erranti”. Si restringe il posto dove stiamo, dice il poeta rumeno. “Sali”, ci suggerisce Celan. Sembra consigliarci: se non possiamo muoverci nello spazio orizzontale, muoviamoci allora in uno spazio verticale. Non solo in basso, in alto. Saliamo. E un poco, a dire il vero, siamo saliti. Con protesi umane, gettando il nostro corpo oltre il corpo; estendendo il corpo. Durante l’anno lunghissimo di questa pandemia c’è stato un evento al quale forse non abbiamo dato nemmeno la giusta rilevanza: il 18 febbraio 2021, dopo un viaggio di 203 giorni in cui ha percorso 470.776.457 chilometri, il rover Perserverance della NASA è “ammartato”, è sbarcato su Marte. Prima ci erano stati Curiosity e Opportunity, ora è arrivato anche Perseverance. Dopo la curiosità e l’opportunità, è atterrata la perseveranza. Da Perseverance si è staccato Ingenuity: non ingenuità, ma ingegnosità. Dalla perseveranza è salita l’ingegnosità. Siamo saliti su Marte e ci siamo alzati a guardare. Siamo saliti ancora. Ingegnosità il 19 aprile ha volato, si è alzata: “il primo volo di un manufatto mai tentato su un corpo celeste oltre la Terra è andato a buon fine. […] Il volo di oggi è ECCEZIONALMENTE importante perché apre una nuova frontiera dell’esplorazione spaziale”[3]. Siamo al corpo oltre il corpo, alla conquista di uno spazio per l’uomo non compiuta da un uomo, ma che apre alla nostra percezione porte inusitate. La Perseveranza parlerà alla fine, per ultima.

La prima foto hd inviata da Perseverance dopo la “salita” su Marte. Fonte Wikimedia Commons.

La prima foto, in alta definizione, inviata da Perseverance dopo la “salita” su Marte. Fonte: NASA/JPL-Caltech

La maggior parte di noi, però, non è salita. Fisicamente si è mossa poco, a fatica. Ha visto poco, ha sentito poco, eppure ha scritto molto, molto di più. Lo descrive bene Pessoa, nel frammento 23 del Libro dell’inquietudine, questo smarrimento di fronte alla stasi: “Mi sento calmo solo nei luoghi in cui sono già stato. […] Nostalgia! Ho nostalgia perfino di ciò che non è stato niente per me, per l’angoscia della fuga del tempo e la malattia del mistero della vita. Volti che vedevo abitualmente nelle mie strade abituali: se non li vedo più mi rattristo; eppure non mi sono mai stati niente, se non il simbolo di tutta la vita. […] Domani anch’io sarò soltanto uno che ha smesso di passare in queste strade, uno che altri evocheranno vagamente con un ‘che ne sarà stato di lui?’. E tutto quanto ora faccio, quanto ora sento e vivo non sarà niente di più che un passante in meno nella quotidianità delle strade di una città qualsiasi”. Ci siamo chiesti cosa ne sarà stato dei nostri amici, persino di alcuni familiari. Anche il poeta portoghese parla di “malattia del mistero della vita”, la malattia del pensiero, la malattia dell’uomo, la malattia dello scritto. Persino Pessoa ha nostalgia di volti abituali, di gente tra le strade.

Perché noi ci raccontiamo nel tempo come occupiamo lo spazio. Per questo vedo la chiamata persa sullo schermo dello smartphone del mio migliore amico e non lo richiamo. L’ultima volta che siamo usciti a prendere un caffè in un bar nella piazza principale del paese parlavamo con difficoltà, come sconnessi. Solitamente lui mi racconta le piccole lussureggianti storie di provincia e io colmo il discorso con le piccole lussureggianti storie della capitale: nulla di particolarmente eccentrico o epico, eppure basta. Bastava. Gli ho scritto dopo quell’incontro, qualche ora più tardi, nel pomeriggio, prima che dal paese rientrassi a Roma. “Avevamo più cose da dirci prima.” Ma non è solo colpa nostra. Non è solo colpa dei mutamenti, degli oltre trent’anni, del lavoro, della distanza, del tempo. La colpa è soprattutto, e ancora una volta, dello spazio; la colpa dello star seduti. Quel caffè veniva dopo un anno di eventi storici: per la prima volta anche noi, così periferici nel mondo, co-protagonisti di una contingenza planetaria. Noi usiamo il tempo per raccontarci come ci muoviamo nello spazio, quale conquista spaziale abbiamo portato a termine, quale piccolo passo per l’umanità ma grande passo per l’uomo abbiamo compiuto. Citando Perec, “Vivere è passare da uno spazio ad un altro cercando di farsi meno male possibile”[4]. Con la tecnica non abbiamo annullato lo spazio e il tempo, li abbiamo estesi. È più semplice percorrere distanze chilometriche ed è possibile farlo limitandone il tempo, dunque estendendo il resto del tempo a disposizione per ancora altro spazio. I più vecchi conquistano porzioni di spazio ridotte rispetto ai più giovani, eppure è quella una continua estensione della loro vita proprio man mano che si riduce la vita stessa. Fumare è acquistare spazio, estendere lo spazio a disposizione: consumando la sigaretta, consumando il suo spazio, estendiamo quello in cui possiamo muoverci. Forse per questo alcuni si ostinano a fumare camminando, avanzando: la sensazione di aumentare il proprio spazio. Il discorso si riduce al ridursi dello spazio. Perché la scrittura, a quanto pare, no?

Tornando al libro in cui Ceronetti poneva quelle domande a Italo Calvino, lo scrittore italo-cubano opera questa distinzione tra i due termini del titolo: il mondo scritto e il mondo non scritto. Il primo è quello prodotto dalla letteratura, in un certo senso dalle arti (potremmo dirlo “il mondo rappresentato”), e dalle scienze (“il mondo formulato”, quello regolato da leggi inventate dall’uomo); il secondo è il mondo non scritto, il mondo della realtà oggettiva nella sua soggettività, cioè ciò che ci circonda, ciò che ci precede, in cui siamo stati “prodotti”. “A questo punto mi chiederete: se dici che il tuo vero mondo è la pagina scritta, se solo là ti senti a tuo agio, perché vuoi staccartene, perché vuoi avventurarti in questo vasto mondo che non sei in grado di padroneggiare? La risposta è semplice: per scrivere. Perché sono uno scrittore. Quello che ci si aspetta da me è che mi guardi intorno e catturi delle rapide immagini di quel che succede, per poi tornare a chinarmi sulla mia scrivania e riprendere il lavoro. È per rimettere in moto la mia fabbrica di parole che devo estrarre nuovo combustibile dai pozzi del non scritto. […] C’è chi, per avere un contatto col mondo di fuori, si limita a comprare il giornale ogni mattina. Io non sono così ingenuo. So che dai giornali posso trarre solo una lettura del mondo fatta da altri, o piuttosto fatta da una macchina anonima, specializzata nello scegliere dal pulviscolo infinito d’eventi quelli che possono essere setacciati come ‘notizia’. Altri, per sfuggire alla presa del mondo scritto, accendono la televisione. Ma io so che tutte le immagini, anche quelle colte più dal vivo, fanno parte d’un discorso costruito, tal quale a quelle dei giornali. Dunque, senza comprare il giornale, senza accendere la televisione, mi limiterò a uscire e andare a spasso.”[5] Calvino, oltre a spingerci ad alzare il culo dalla sedia (vedi la succitata de Sévigné) ci sta dicendo qualcos’altro tra le righe, ci sta anticipando che di questo passo il mondo scritto supererà il mondo non scritto, la traduzione supererà l’origine: e in fondo ogni traduzione è una riscrittura. Ma se scriviamo del mondo non scritto, cosa scrivere con un mondo non scritto così ristretto, risicato, asfittico?

Secondo una ricerca pubblicata sulla rivista “Nature”, condotta dal gruppo dell’Istituto israeliano Weizmann per le Scienze coordinato da Ron Milo, nel 2020 quella che hanno chiamato “antropomassa” ha superato la biomassa. In altre parole, ciò che l’uomo ha prodotto oggi ha superato ciò che ha prodotto l’uomo, la “natura”. Pesando letteralmente la natura, pesando l’insieme degli esseri viventi (compresi elefanti, sequoie e organismi unicellulari), attualmente questo valore è diventato inferiore rispetto al peso delle “cose” artificiali, come ad esempio edifici, strade, veicoli, plastiche, cucchiai, computer, quaderni, dildo, altalene, divani. Potremmo dire, parafrasando Calvino, che il mondo scritto ha superato il mondo non scritto, che il mondo prodotto ha superato il mondo produttore. Chiediamo alle aziende e a noi stessi di essere “ecologici”, perché non esserlo anche con la scrittura? Anche salire con la scrittura, salire la scrittura: suonare, danzare, immaginare. Suonare la scrittura, danzarla, immaginare la scrittura e scrivere immagini. Dobbiamo salire, salire ancora, salire quando scenderà il contagio, quando scenderà fino a zero. Ormai portiamo il nostro corpo a sentire qualche cosa attraverso un altro corpo: sentiremo di Marte attraverso quello che produrrà Perseverance, attraverso le prove che lo abbiamo istruito a cercare. Non è detto che troverà, non è detto che siamo pronti a sapere cosa troverà. Ma qui, salendo, abbiamo allargato un po’ il mondo non scritto, e allora da qui potremo provare a tradurlo. Quando ci sarà più spazio e avremo iniziato a guarire dalla malattia di pensiero, dalla malattia di scrittura, dalla malattia della seduta. L’uscita è il vaccino, ma è anche vero che il vaccino è l’uscita.


[1] “Ogni essere umano crea una specie di ‘bolla spaziale’ che porta con sé come maschera osmotica. Questo odore corporeo (BO, body odor), in quanto rivestimento chimico nascosto, è enormemente potenziato dall’automobile privata. Trasforma ognuno di noi in una specie di scarafaggio con un carapace d’acciaio [impossibile restituire il gioco linguistico inglese car-apace, ndr], una protezione. Il nostro attaccamento a questa corazza può diventare più intenso con l’affollamento e il rumore, e può essere una delle ragioni per la comune avversione al trasporto pubblico” [trad. mia].

[2] G. Ceronetti, Inchiesta su Letteratura a sedere, in “Il Caffè”, XVII (1970), 3, pp. 133-134.

[3] Le parole citate sono tratte dal profilo Instagram della pagina di divulgazione scientifica “Chi ha paura del buio?”, https://www.instagram.com/p/CN2FiaLL8OC/?igshid=7qyopi0a9apa (ultima consultazione: 19 aprile 2021).

[4] G. Perec, Specie di spazi, Bollati Boringhieri, Torino 2002, p. 11.

[5] I. Calvino, Mondo scritto e mondo non scritto, Mondadori, Milano 2002, pp. 58-59.

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