Il ruolo dei giuristi nel processo di unificazione legislativa italiana

Il ruolo dei giuristi nel processo di unificazione legislativa italiana

La figura di Enrico Pessina e gli studi sull’aborto

La situazione politica e giuridica prima della nascita del Regno d’Italia

A partire dalla seconda metà dell’Ottocento, in Italia vi fu un enorme fermento culturale, politico e giuridico. Furono anni caratterizzati da profondi mutamenti che impegnarono in particolare i giuristi, i quali furono chiamati a risolvere una serie di problemi: erano ben consapevoli che il raggiungimento dell’indipendenza e dell’unità dello Stato implicava la costruzione di un’effettiva unificazione legislativa, non potendosi concepire l’idea di un ordinamento nel quale sussistessero leggi e normative differenti:  nell’opinione prevalente, dunque, l’unificazione politica doveva comportare anche la parallela realizzazione di un ordinamento unitario. Un altro problema era poi rappresentato dall’assenza di un diritto propriamente italiano, in quanto la maggior parte dei giuristi guardava ai modelli rappresentati dalle nazioni straniere, prima tra tutte la Francia, considerata come uno “Stato guida” in materia giuridica. Tale situazione, essendo la conseguenza della disgregazione territoriale che aveva caratterizzato per molti secoli l’Italia prima dell’Unità (1861), rafforzava l’idea della necessità di procedere ad un’unificazione legislativa che riflettesse l’immagine dell’imminente unità nazionale, eliminando le diversità normative ancora presenti[1].

Questa serie concomitante di fattori manteneva la scienza giuridica italiana in una condizione estremamente “provinciale”, in uno stato di subalternità rispetto alle scuole penalistiche estere, problema aggravato dalla mancanza di un’adeguata dialettica culturale non solo tra i giuristi italiani ma, più in particolare, tra gli stessi italiani e quelli stranieri. Questi problemi animarono il dibattito tra i giuristi che si accingevano alla costruzione dello Stato unitario, in una prospettiva di unificazione legislativa ed amministrativa.

Nel 1859, alla vigilia dello scoppio della Seconda guerra d’indipendenza, l’ordinamento giuridico “italiano” rispecchiava la frammentazione politica e territoriale della penisola. Solamente il Regno di Sardegna aveva un assetto costituzionale vero e proprio, basato sullo Statuto Albertino concesso nel 1848. Nello stesso anno, le tumultuose vicende legate ai moti risorgimentali avevano spinto diversi sovrani a concedere alcune aperture, soprattutto a livello politico, mediante l’emanazione di Carte costituzionali, denominate Statuti. Si trattava di documenti che i re “concedevano” per far fronte alle pressioni dell’opinione pubblica liberale e per scongiurare il pericolo di insurrezioni. Dopo il 1849, lo Statuto Albertino restò la base del modello monarchico costituzionale italiano.  La fine della Seconda guerra d’indipendenza portò alla liberazione dei ducati di Parma, Modena e Lucca, e all’annessione dell’Emilia, della Romagna, delle Marche e dell’Umbria; il processo, poi, culminò con l’annessione del Meridione continentale e insulare e con la proclamazione del Regno d’Italia il 17 marzo del 1861[2].

Il biennio 1859-1860 fu dunque caratterizzato dall’estrema rapidità con la quale si susseguirono un gran numero di eventi politici che parvero trovare il Regno di Sardegna piuttosto impreparato a fronteggiare la mole di problemi amministrativi e soprattutto legislativi conseguenti alle annessioni. La causa di ciò era da ascriversi a diversi fattori: innanzitutto la scarsa conoscenza delle realtà normative e istituzionali caratterizzanti i territori annessi e, dunque, l’incertezza sulle decisioni che dovevano essere adottate per garantire l’unificazione legislativa del Regno che si stava formando[3]. Tutto ciò ebbe delle conseguenze immediate, manifestate dalle disarmonie che si verificarono in occasione delle prime decisioni adottate in materia. Le autorità subalpine, nella fretta del loro operare, furono accusate di “piemontesizzazione” del diritto[4] e di “unificazione a vapore”, per l’estrema velocità e per i modi autoritari con cui il governo estese i codici sardi alle “nuove province”, suscitando le inevitabili e vibranti reazioni nella comunità dei giuristi. Questi non si fecero trovare impreparati né tantomeno restarono inerti, ma, al contrario, si posero in prima fila nelle discussioni che si aprirono e, in molti casi, non rifiutarono il diretto coinvolgimento politico[5].

Il quadro giuridico era estremamente complesso e, con l’approssimarsi dell’unificazione territoriale, il Parlamento sabaudo conferì pieni poteri al Governo che, nel 1859, dispose la pubblicazione di tre nuovi codici – penale, di procedura penale, di procedura civile – che furono estesi gradualmente ai territori “annessi” al Regno di Savoia, mediante plebisciti.  Si esauriva così la fase della cosiddetta “unificazione a vapore”[6], dettata dal desiderio di creare rapidamente un ordinamento nazionale comune basato sull’estensione del diritto sabaudo a tutti i territori annessi al neonato Regno d’Italia.


L’unificazione legislativa italiana

 

Un ritratto del Ministro di Grazia e Giustizia Giuseppe Zanardelli, a cui si deve il primo codice penale del Regno d’Italia (Il Parlamento del Regno d’Italia, 1861/Wikimedia Commons, autore Aristide Calani, pubblico dominio)

Con l’unificazione politica era imprescindibile anche l’unificazione normativa del Regno; si aprì dunque una fase del tutto nuova, che vide il Parlamento assumere un ruolo di primissimo piano assieme ai giuristi che, nel frattempo, affollavano le aule. Il loro coinvolgimento fu un fattore fondamentale nel processo di unificazione, in quanto rappresentò il primo contatto tra realtà culturali e ideologiche di diversa provenienza.  Fallito il tentativo di estendere il diritto sabaudo al resto della penisola, per il legislatore del tempo si aprì una nuova via: quella di procedere alla revisione dei codici albertini adeguandoli alle necessità della società italiana finalmente riunificata[7]. In un tale contesto, il lavoro dei giuristi fu indispensabile e prezioso, in quanto essi conoscevano le esigenze e i problemi che caratterizzavano il sistema giuridico italiano. Le aule parlamentari divennero così quel luogo ideale in cui ogni giurista poteva dare il proprio contributo alla costruzione di un ordinamento giuridico nazionale. Dopo una serie innumerevole di tentativi legislativi non andati a buon fine, la Camera dei deputati prima e il Senato subito dopo approvarono, con alcune modifiche, i nuovi codici, e il 2 aprile 1865 fu emanata la legge n. 2215 che sanciva la tanto agognata unificazione normativa. Il primo Codice civile del Regno d’Italia e il Codice di procedura civile furono promulgati rispettivamente con regio decreto n. 2358 e n. 2366 il 25 giugno del 1865[8]. I codici emanati furono dunque sei: il Codice civile, il Codice del commercio, il Codice della Marina Mercantile e della Navigazione, il Codice di procedura civile, il Codice penale e infine il Codice di procedura penale. In sintesi, dei sei codici emanati, tre erano di nuova produzione, mentre i restanti tre erano di “sarda esportazione”[9]. Questi provvedimenti normativi rappresentarono una prima fondamentale tappa per l’unificazione legislativa italiana, anche se il processo era ben lontano dall’essere completamente raggiunto, soprattutto per quanto riguarda il diritto penale.

 

L’enorme impegno scientifico e parlamentare per la creazione di un nuovo codice aveva avuto come effetto quello di “sprovincializzare” la cultura giuridica italiana: venivano avviati i primi contatti con i giuristi stranieri attraverso fitti scambi di corrispondenza, ma, tra i tentativi più importanti di svecchiamento della cultura, vanno annoverate le numerosissime riviste che cominciarono a diffondersi proprio a partire dalla metà del secolo scorso.

 

 


La figura di Enrico Pessina

 

Un’illustrazione di Ambrogio Centenari ritrae Enrico Pessina (L’illustrazione popolare, Fratelli Treves Editori – Milano, 1885/Wikimedia Commons, autore Ambrogio Centenari, pubblico dominio)

È proprio in questo contesto che si trovò a operare Enrico Pessina.

 

Enrico Pessina[10] fu un famoso avvocato napoletano, professore all’Università di Napoli dal 1855 e qui titolare dal 1871 della cattedra di diritto e procedura penale; deputato dall’ultima legislatura preunitaria fino alla nomina a senatore nel 1879, fu ministro dell’Agricoltura, Industria e Commercio nel governo Cairoli; fu uomo di centro sinistra e spirito liberale e anticonservatore[11].

Il suo lavoro, sia in veste di giurista che in quella di uomo politico, fu paradigmatico del processo di edificazione di una scienza giuridica nazionale che rappresentò una tappa fondamentale per l’unificazione territoriale prima e legislativa poi, che fu alla base di tutto il Risorgimento. Esempio chiaro di tale processo fu il varo, nel 1881, di una monumentale opera, l’Enciclopedia Giuridica Italiana, composta da più di mille articoli monografici ordinati in cinquanta poderosi volumi e redatti con la collaborazione di circa quattrocento autori nell’arco di mezzo secolo[12].


L’aborto procurato: voce a cura del prof. Enrico Pessina[13]

Nel 1888, Enrico Pessina subentrò nel ruolo di direttore dell’Enciclopedia Giuridica Italiana al posto di Pasquale Stanislao Mancini. Prima di assumere la direzione dell’opera, Pessina aveva curato alcune voci: la più importante era quella relativa all’aborto procurato. Pessina decise di curare personalmente quella voce non solo perché era un tema più volte affrontato, ma perché, nello specifico, la sua collocazione implicava una serie di conseguenze nel campo del diritto penale. Le numerose scoperte scientifiche di quegli anni, assieme a un mutato contesto sociale, avevano posto i penalisti dinanzi a diversi problemi cui erano chiamati a rispondere. Pessina, da ottimo penalista qual era, era consapevole dell’importanza rivestita dal tema dell’aborto e decise quindi di ricostruire le origini dell’istituto, di analizzarne l’evoluzione e di contribuire all’opera di rinnovamento del diritto penale. La sua riflessione avrebbe lasciato un’impronta così profonda negli anni successivi tanto da influenzare la disciplina giuridica accolta nel Codice Zanardelli.

La voce relativa al reato di aborto procurato si apriva con una serie di nozioni storiche, in quanto tale delitto “ha soggiaciuto all’efficacia delle idee religiose, morali e giuridiche” proprie di ogni periodo storico[14]. Nella legislazione penale dell’India, ad esempio, non era riconosciuta alcuna incriminazione dell’aborto procurato; anche in Egitto, secondo la testimonianza di Diodoro Siculo, mancava il reato di aborto procurato ma veniva riconosciuta l’uccisione della prole; nel diritto penale degli Ebrei, il Pentateuco non prevedeva né il reato di aborto procurato né l’infanticidio. Secondo Pessina, dunque, si poteva affermare che presso i popoli d’Oriente la procurazione dell’aborto non veniva annoverata tra i delitti. Solo nel diritto penale greco iniziò a diffondersi l’idea che la prole “avesse diritto alla protezione della comunanza”[15].

Nel diritto romano le varie fonti davano luogo a diverse interpretazioni: alcuni optavano per l’impunità, altri per la incriminazione. Secondo Pessina, nel corso dei secoli si era verificata un’evoluzione storica della considerazione giuridica relativa all’aborto. Difatti, inizialmente non era previsto alcun reato, in virtù dello ius vitae ac necis[16] riconosciuto al pater familias; poi, gradualmente, iniziò a farsi strada l’incriminazione dell’aborto nel periodo degli imperatori Settimio Severo e Antonino Pio, i quali cominciarono a punire la donna che avesse procurato il suo aborto per “defraudare il marito di prole e così recargli ingiuria”[17]. Invece, presso i popoli germanici vi era una tendenza che mirava a restringere i confini della patria potestà sulla prole. La Lex Romana Wisigothorum puniva l’aborto e “condannava sia il propinatore della bevanda abortiva sia la donna che aveva prestato il proprio consenso”[18]. Il diritto ecclesiastico fu però quello che maggiormente accentuò la severità dell’incriminazione dell’aborto procurato: diversi concili e varie bolle papali inflissero la pena capitale; fu anche introdotta una distinzione che esercitò particolare influenza nelle opinioni e nelle legislazioni posteriori, ossia l’uccisione del feto animato da quella del feto non animato. Particolari innovazioni furono introdotte dal diritto canonico, il quale introdusse i concetti sulle cause impellenti al procurato aborto, come l’estrema miseria e la causa di onore. Oltre a ciò, venne prevista la figura dell’aborto colposo che derivava da violenze fisiche inferte alla donna incinta. L’influenza del diritto canonico e la severità con la quale veniva punito il reato di aborto continuò ad influenzare le nazioni moderne fino agli inizi del XIX secolo. In Germania, difatti, la Constitutio criminalis Carolina, o semplicemente Carolina, emanata nel 1532 da Carlo V d’Asburgo, equiparava l’aborto all’omicidio[19].

Nella prima parte della voce curata da Pessina, egli dimostrava una profonda conoscenza delle legislazioni e delle consuetudini dei popoli stranieri. Enrico Pessina, dunque, incarnava il prototipo di giurista liberale, profondo conoscitore della storia e delle diverse culture giuridiche. Dopo aver analizzato l’evoluzione del delitto di aborto nel corso dei secoli, Pessina si è soffermato sul diritto italiano, esponendo la struttura del reato nei singoli codici preunitari. La legislazione penale antecedente all’unificazione politica riconosceva l’aborto procurato.

Il Codice penale delle Due Sicilie[20], in vigore dal 1819, si rifaceva a quello napoleonico del 1810, del quale manteneva l’impostazione illuminista pur vantando un’importante innovazione. Il suo corpo normativo si prefiggeva l’obiettivo di costruire uno Stato attento alle libertà civili e di soddisfare l’esigenza, avvertita dalla classe borghese, di garanzie politiche e costituzionali. La disciplina in materia di aborto era contenuta negli articoli dal 395 al 399[21]. Nella prima disposizione[22]si incriminava la condotta abortiva tenuta dall’estraneo con il consenso della donna e quella compiuta dalla gestante stessa o per sua volontà. L’articolo 396[23] si occupava della peculiare ipotesi in cui all’impiego dei mezzi abortivi seguiva, avvenuto o meno l’aborto, la morte della donna, aggravando la pena in caso di dissenso della stessa. Con riferimento a tale articolo, Pessina affermava che ciò che distingueva questo caso dall’omicidio era l’intenzione del colpevole, che qui si limitava a procurare l’aborto e, per colpa o per imprudenza, ne derivava la morte della gestante. L’articolo 397[24] prevedeva la fattispecie in cui la condotta criminosa era qualificata dall’esercizio, da parte del soggetto agente, di un’attività sanitaria; in questo caso, la qualità personale di medico, dal momento che rendeva più facile il compimento del reato, aggravava la pena del complice. L’articolo 398 introduceva la distinzione tra aborto mancato o tentato, prevedendo un trattamento sanzionatorio diverso. Infine, la disciplina relativa all’aborto prevista nel Codice penale delle Due Sicilie si chiudeva con l’articolo 399, che riconosceva una circostanza attenuante, prevedendo una riduzione della pena nel caso in cui il reato fosse stato “diretto ad occultare per cagion di onore una prole illegittima”. Dunque, la regolamentazione dell’aborto contenuta nel Codice delle Due Sicilie si connotava per la generale indulgenza del legislatore napoletano che non prevedeva la “galera perpetua” neppure nel caso in cui l’aborto fosse stato provocato dal personale sanitario.

Pessina passava poi ad analizzare il Codice penale toscano[25], promulgato nel 1853, che aveva determinato un’importante evoluzione in ambito giuridico. Esso si fondava infatti sull’applicazione della pena proporzionale al reato senza lasciare alcuno spazio all’arbitrio delle autorità giurisdizionali. La disciplina relativa all’aborto occupava quattro articoli: l’articolo 321 incriminava la condotta abortiva compiuta dalla stessa gestante, con una riduzione della pena se cagionato dalla vergogna di una prole illegittima[26]; l’articolo 322 incriminava l’aborto compiuto da un privato con il consenso della donna e prevedeva un aggravamento della pena in caso di morte della gestante[27]; l’articolo 323 riguardava l’ipotesi in cui il privato avesse tenuto la condotta criminosa in assenza o contro la volontà della donna[28]; infine, l’articolo 324 prevedeva un trattamento sanzionatorio ancora più severo quando il reato fosse stato commesso da un soggetto qualificato dall’esercizio di un’arte e la condotta criminosa rappresentasse abuso della stessa[29]. La disciplina in materia di aborto contenuta nel Codice penale toscano si connotava, secondo Pessina, per la peculiare clemenza del trattamento sanzionatorio che il legislatore riservava al reo. Dopo l’analisi della legislazione toscana, Pessina prendeva in considerazione il Codice penale sardo[30], in vigore dal 1859: esso puniva la donna responsabile del proprio aborto con la reclusione da cinque a dieci anni; sanzionava poi l’estraneo con pene diverse, a seconda che questi avesse procurato l’aborto con o senza il consenso della donna (in quest’ultimo caso, la pena era aumentata).

Il Codice sardo si atteneva ad una locuzione simile a quella del codice francese del 1810, dicendo che “chiunque con alimenti, bevande, medicinali o con qualsiasi altro mezzo avrà procurato con effetto l’aborto di una donna incinta, sarà punito”[31]. Questo divario di locuzione poneva due problemi: il primo consisteva nell’individuazione del fatto costitutivo di aborto procurato; il secondo riguardava la sua collocazione nella categoria dei reati contro l’ordine della famiglia oppure in quella dei delitti contro la vita. L’essenza del reato di aborto procurato, infatti, dava luogo a una discordanza di opinioni che era fonte di importanti conseguenze. In dottrina vi erano due orientamenti. Il primo, sostenuto dal Tardieu, considerava l’aborto come “l’espulsione prematura e violentemente procurata del prodotto del concepimento[32]”. In tal caso, dunque, l’aborto non coincideva col feticidio e andava annoverato tra i reati contro l’ordine delle famiglie e non tra quelli contro la vita, in quanto l’obiettivo della condotta criminosa consisteva nell’impedire alla gravidanza di giungere a termine. Secondo l’altro orientamento, era determinante la vitalità del feto: la distinzione tra feto animato e non animato era, secondo Francesco Carrara, il criterio qualificatore del reato di aborto che, secondo lo stesso studioso, non era altro che feticidio in quanto esso non consisteva nella violenta e prematura espulsione del prodotto del concepimento, bensì nella dolosa uccisione del feto; in conseguenza di ciò, l’aborto doveva essere compreso  tra i reati contro la vita delle persone e non tra quelli contro l’ordine delle famiglie. Secondo Pessina, però, il problema relativo alla collocazione del reato poteva essere affrontato e risolto soltanto facendo riferimento al rapporto giuridico violato. Infatti, per il giurista napoletano l’aborto procurato non poteva coincidere col feticidio, poiché non era stato ancora deciso se nel feto vi fosse o meno vita. Quest’ultimo, dunque, “non poteva dirsi vita, perché non era separato dalla vita della madre, ma era un processo di trasformazione, era un viscere che si svolgeva con progresso continuo a vita indipendente, senza ancora essere tale”. Pessina considerava l’aborto come un processo patologico che, opponendosi a quello fisiologico, impediva la formazione di una vita. Non vi era dunque una “uccisione propriamente detta, bensì una distruzione”[33].

La ragione giuridica che era alla base dell’incriminazione dell’aborto era duplice: innanzitutto il processo fisiologico di formazione di una nuova vita non doveva essere ostacolato e la società umana riconosceva tale diritto al nascituro, considerato non già come persona, bensì come legittima speranza della collettività; in secondo luogo, la distruzione del feto comportava anche una lesione corporea della donna pregnante, potendo essere causa di gravi sconcerti al suo benessere fisico. In virtù di queste due considerazioni, Pessina riteneva che il termine feticidio poteva essere adoperato in senso di distruzione del feto, in quanto lo scopo del reo era quello di impedire la formazione di una nuova vita, ma tra feticidio e aborto non vi era coincidenza, contrariamente a quanto affermato da una parte della dottrina. Per Pessina, dunque, l’essenza costitutiva del reato di aborto consisteva “nella distruzione del processo di formazione a vita, ossia nel contrapporre al processo fisiologico un processo patologico che impediva lo svolgimento della vita a pienezza di maturità”. In virtù di ciò, l’aborto non andava annoverato tra i reati contro la famiglia, bensì tra quelli contro la persona: ciò che veniva leso era il diritto della società alla vita e, in particolare, il diritto alla “sanità corporea della donna”[34].

Una volta fissata l’essenza dell’aborto, Pessina passava ad analizzare quelle che erano le condizioni essenziali per la sua incriminazione. Egli ne individuava tre, ossia “l’utero pregnante”, “l’impedito svolgimento del feto a vita indipendente”[35] e “il dolo specifico”. In relazione al primo elemento, era necessaria la presenza del feto nell’utero materno, la cui esistenza si determinava nel momento del concepimento.

Un’altra condizione essenziale per il reato di aborto, cioè “l’impedito svolgimento del feto a vita indipendente”[36] poteva manifestarsi in due modi: con la “prematura e violenta ejezione del prodotto della fecondazione” oppure con l’uccisione del feto nell’utero materno. Queste due modalità di commissione del reato potevano essere procurate con l’utilizzo di vari mezzi abortivi, di natura meccanica o dinamica, a seconda che venissero compiute operazioni direttamente sull’utero o tramite somministrazione di bevande abortive. Secondo Pessina, i mezzi necessari per procurare l’aborto dovevano operare fisicamente e, in conseguenza di ciò, respingeva la cosiddetta teoria dei mezzi morali abortivi. La suddetta riteneva che anche un “repentino spavento della donna incinta” fosse idoneo a provocarle l’aborto, ma Pessina obiettava che a una simile ipotesi mancava l’intenzione di provocare il reato, in quanto ciò era appannaggio dei mezzi fisici.

Infine, per aversi un aborto procurato, era necessaria una terza e ultima condizione, ovvero il dolo specifico, che poteva consistere nella conoscenza dello stato di gravidanza della donna oppure nella “coscienza di adoperare mezzi idonei a provocare aborto”[37]; si escludeva invece l’incriminazione ogni qualvolta l’aborto era necessario a preservare la salute della donna, come nel caso di “uccisione del feto che non poteva uscire dall’utero materno”.

Per l’aborto, così come per gli altri reati, erano previste circostanze aggravanti e circostanze attenuanti. Secondo Pessina, gli “aggravamenti” dovevano essere quattro: una prima gradazione della pena era prevista a seconda che il soggetto agente fosse la donna stessa o l’estraneo. Una seconda gradazione era prevista a seconda che l’aborto fosse stato procurato con o senza il consenso della donna. Per Pessina, l’aggravamento della sanzione veniva sancito in quanto la mancanza del consenso della donna rendeva più grave la perpetrazione del reato; l’attività del soggetto agente, infatti, doveva vincere maggiori ostacoli, che erano rappresentati dall’assenza di volontà della gestante.

Vi era poi una terza circostanza aggravante che dipendeva dalla condizione personale del soggetto che provocava l’aborto. Per Pessina, essa era “la condizione di coloro, che abusando delle cognizioni speciali dell’arte sanitaria, ne tradivano i doveri”[38]; si trattava dunque di medici, farmacisti, levatrici e tutti coloro che avevano provocato dolosamente l’aborto. Tale aggravamento di pena era riconosciuto da quasi tutti i codici penali preunitari, tanto da rappresentare una fonte per l’intero diritto italiano.[39] La quarta e ultima circostanza aggravante era di carattere materiale, e derivava dalle conseguenze relative all’uso dei mezzi abortivi, i quali, pur non causando aborto, potevano causare un grave danno per la salute della donna. Più conforme alle esigenze razionali del diritto sarebbe stata una esasperazione di pena che equiparasse ad omicidio preterintenzionale la procurazione di aborto seguito dalla morte della donna. Il Codice penale toscano accoglieva tale ipotesi e prevedeva vari casi e figure.[40]

Pessina riconosceva anche due circostanze attenuanti che diminuivano la pena da infliggere in caso di aborto procurato. Le suddette potevano ricondursi a due cause: l’estrema miseria e il sentimento dell’onore. In merito alla prima ipotesi, il giurista napoletano ripudiava ciò che gli insigni pensatori del mondo antico avevano propugnato, ossia l’aborto come strumento atto a mantenere la popolazione in equilibrio con i mezzi di sussistenza. In merito alla seconda ipotesi, una più potente attenuazione della pena era stata riconosciuta dalle varie legislazioni preunitarie a salvaguardia dell’onore. Nonostante vi fosse chi escludesse del tutto l’incriminazione dell’aborto procurato a cagion d’onore, Pessina riconosceva invece solo una riduzione della pena da infliggere[41].


L’influenza del pensiero di Enrico Pessina

La voce relativa all’aborto procurato, curata da Pessina e contenuta nell’Enciclopedia Giuridica Italiana, esercitò una particolare influenza sulla disciplina accolta nel Codice Zanardelli, primo Codice penale del Regno d’Italia[42]. Lo stesso guardasigilli, in una relazione ministeriale del maggio 1883, si era detto contrario all’antica dottrina dell’abolitio criminis, in quanto, sebbene “il procurato aborto spegnesse non una vita definitivamente acquisita, ma solo una spes vitae, “esso doveva pur sempre costituire un reato, perché la moderna civiltà giuridica riconosceva la protezione del feto, ancorché racchiuso nell’alveo materno”[43]. Nelle parole pronunciate da Zanardelli era evidente l’influenza del pensiero e della riflessione di Enrico Pessina, in particolar modo nella scelta di annoverare l’aborto procurato tra i reati contro la l’integrità fisica della persona.

L’aspetto più rilevante di tale incidenza riguardava la collocazione dell’aborto, annoverato tra i reati contro la persona, poiché non sempre esso turbava l’ordine della famiglia. Così facendo, la legge tutelava il feto, ancorché racchiuso nell’alveo materno, difendendo la vita sin dal momento del concepimento. In quest’ottica, il codice Zanardelli rappresentava il culmine di un progresso raggiunto in merito alla soggettività giuridica del feto. Il lavoro svolto da Pessina nell’Enciclopedia Giuridica Italiana ebbe, pertanto, un forte impatto sulla legislazione di quel periodo e contribuì al riscatto della cultura giuridica italiana, intorpidita e resa subalterna da anni di divisioni e disgregazioni territoriali. L’autorevolezza e il prestigio dei giuristi, tra cui Enrico Pessina, fu determinante nel processo di edificazione di una scienza propriamente nazionale i cui echi giungono fino ai nostri giorni.

Luca Battaglia per www.policlic.it


Riferimenti bibliografici

[1] M. Sbriccoli, “Il diritto penale liberale. La Rivista Penale di L. Lucchini”, in “Quaderni Fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno”, XVI, 1987.

[2] Carlo Belviglieri, Storia d’Italia dal 1814 al 1866, vol. 5 e 6, p. 289.

[3] C. Ghisalberti, Legislazione e codificazione, 2011, http://www.treccani.it/enciclopedia/legislazione-e-codificazione_(L’Unificazione)/ (ultima consultazione: 13/10/2021).

[4] Il primo Re d’Italia, Vittorio Emanuele II, mantenne difatti il proprio nome, per sottolineare il rapporto di continuità tra la monarchia sabauda e il neonato Regno.

[5] A. Mazzacane, I giuristi e la crisi dello Stato liberale in Italia tra Ottocento e Novecento, Liguori, Napoli 1986.

[6] La nascita dello Stato unitario: Libri, periodici e stampe della Biblioteca della Camera dei deputati, Catalogo della mostra 7 giugno–4 luglio 2011, p. 29, https://biblioteca.camera.it/application/xmanager/projects/biblioteca/file/La_nascita_dello_Stato_unitario.pdf (ultima consultazione: 13/10/2021).

[7] C. Ghisalberti, La codificazione del diritto in Italia (1865-1942), Laterza, Bari 2006.

[8] P. Calamandrei, Opere Giuridiche, Volume IV, Istituzioni di diritto processuale civile, RomaTre Press, 2019.

[9] La nascita dello Stato unitario, op. cit., p. 31.

[10] C. Mozzarelli, L’Annuario delle scienze giuridiche, sociali e politiche (1880-1883) – Viaggio breve nella cattiva coscienza, in “Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno”, volume XVI, 1987, pp. 8-44, (p. 25).

[11] Ulteriori informazioni biografiche su Pessina verranno fornite nel corso della trattazione.

[12] C. Vano, “Edificio della scienza nazionale”. La nascita dell’Enciclopedia Giuridica Italiana, in P. Schiera e A. Mazzacane (a cura di), Enciclopedia e sapere scientifico. Il diritto e le scienze sociali nell’Enciclopedia Giuridica Italiana, Il Mulino, Bologna 1990, pp 15-65, (p. 24).

[13] Dei delitti contro la persona, in Enciclopedia del Diritto penale italiano, a cura di E. Pessina, Milano 1909, p. 696 segg.

[14] E. Pessina, voce Aborto procurato, in Enciclopedia Giuridica Italiana, a cura di E. Pessina, volume I, Vallardi, Napoli 1888.

[15] Ivi, p. 60.

[16] Nel diritto romano, la locuzione latina ius vitae necisque o, più correttamente, vitae necisque potestas (in italiano diritto di vita o di morte) identifica una della facoltà contenute nella patria potestas, in virtù della quale il pater familias godeva del diritto di vita e di morte su tutti coloro che erano soggetti al suo potere (moglie, figli, schiavi, ecc.).

[17] Ivi, p. 62.

[18] E. Pessina, op. cit., p. 64.

[19] V. Mastronardi, Il reato di infanticidio, Profili ermeneutici ed evoluzione giurisprudenziale, Key editore.

[20] Collezioni dei Decreti e delle Leggi e di altri atti promulgati nel Reame di Napoli dall’anno 1806 in poi, Vol. II dal 1821 al 1848, Stamperie e cartiere del Fibreno, Napoli 1862, https://www.ismed.cnr.it/pubblicazioni/ebook/collezione_PI/volume%20secondo.pdf (ultima consultazione: 13/10/2021).

[21] Codice penale del Regno delle Due Sicilie, http://www1.unipa.it/storichedeldiritto/Materiali/FONTI/Codici/Codice_per_lo_Regno_delle_Due_Sicilie.pdf (ultima consultazione:13/10/2021).

[22] L’articolo 395 recitava: “Chiunque con alimenti, con bevande, con medicamenti, con violenze o con

qualunque altro mezzo abbia fatto eseguire l’aborto di una donna incinta, se costei vi abbia acconsentito, sarà punito colla relegazione. La stessa pena sarà pronunziata contro alla donna che abbia ella stessa fatto seguire in sua persona l’aborto, o abbia acconsentito a far uso di mezzi pei quali l’aborto è seguito. Se la donna non vi abbia acconsentito, il colpevole sarà punito colla reclusione”.

[23] L’articolo 396 disponeva: “Se da’ mezzi usati, sia o non sia avvenuto l’aborto, segua la morte della

donna, il colpevole sarà punito col primo al secondo grado dei ferri nel presidio, quando la donna abbia acconsentito a far uso de’ mezzi anzidetti: quando non vi abbia acconsentito, il colpevole sarà punito col terzo al quarto grado de’ ferri nel presidio”.

[24] L’articolo 397 statuiva: “Il medico, il cerusico, lo speziale, la levatrice e qualunque altro uffiziale di

sanità che abbia scientemente indicato o somministrato i mezzi pei quali è seguito l’aborto, soggiacerà alle pene stabilite negli articoli precedenti, accresciute di un grado, e ad un’ammenda da trenta a trecento ducati”.

[25] https://www.giustizia.it/resources/cms/documents/Codice_Penale_Toscano_1853_ridotto.pdf

[26] L’articolo 321 disponeva: “Quella donna, la quale con l’uso di mezzi abortivi, dolosamente usati o fattisi applicare, ha tolto la vita al suo feto nell’utero, o si è sgravata di un feto immaturo, che è venuto a morire in sequela di essi, è punita, come colpevole di procurato aborto, con la casa di forza da tre a sette anni. Ma se, fecondata illecitamente, ha commesso il delitto, subisce il carcere da due a cinque anni”.

[27] L’articolo 322 stabiliva: “Alla casa di forza da tre a dieci anni soggiace chiunque, con scienza e volontà della donna, le ha procurato l’aborto. Dove per altro dal fatto dell’agente sia derivata la morte della donna, si decreta la medesima pena da dieci a venti anni, se l’agente sapeva, che i mezzi adoperati potessero produrre questo successo e da cinque a dodici anni, se l’agente non lo sapeva”.

[28] L’articolo 323 prevedeva: “Se l’aborto fu procurato da un altro, senza scienza o contro la volontà della donna, il delinquente è punito con la casa di forza da sette a quindici anni”.

[29] L’articolo 324 statuiva: “Quando l’aborto sia stato procurato da un altro, mediante l’uso di un’arte, che richieda matricola, il delinquente, cui debba decretarsi una pena inferiore all’ergastolo, soggiace all’interdizione dall’esercizio della sua professione da due a cinque anni”.

[30] Codice penale del Regno di Sardegna, https://www.giustizia.it/resources/cms/documents/Codice_penale_esteso_alla_Sicilia.pdf (ultima consultazione: 13/10/2021).

[31] E. Pessina, op. cit., p. 59.

[32] Ivi, p. 60.

[33] Ivi, p. 59.

[34] Ivi, p. 67.

[35] Ivi, p. 68.

[36] Ivi, p. 70.

[37] Ivi, p. 72.

[38] Ivi, p. 77.

[39] L’art 324 del codice toscano sanciva “Quando l’aborto sia stato procurato da un altro mediante abuso di un’arte che richiede matricola, il delinquente, cui debba decretarsi pena inferiore all’ergastolo, soggiace ancora all’interdizione dall’esercizio della sua professione da due a cinque anni”.

[40] Per il contenuto degli artt. 322 e 323 del Codice penale toscano vedi sopra.

[41] E. Pessina, op. cit., p. 78.

[42] L. Lacche, Un Code Pénal Pour l’Unité Italienne: le code Zanardelli (1889) – La Genèse, le Débat, le Projet Juridique, Seqüência: estudos jurídicos e políticos, 2014.

[43] G. Crivellari, Dei reati contro la vita e l’integrità personale, vol. I, Unione Tipografico Editrice, Torino 1885.

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