Inferni

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Attenzione: il seguente saggio contiene spoiler su L’attacco dei giganti (anime) e Berserk (trilogia cinematografica e manga).

Dante, prima cantica

Per me si va ne la città dolente,
per me si va ne l’etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente.
Giustizia mosse il mio alto fattore;
fecemi la divina potestate,
la somma sapienza e ‘l primo amore.[1]

Quale potrebbe essere, nel nostro continente, una definizione più chiara, celebre e diffusa di “inferno”, se non quella offerta da Dante? “Città dolente”, “eterno dolore” e “perduta gente” non sono solo semplici parole, ma sono metafore potenti, dirimenti nel modo in cui immaginiamo questo termine. Se Dante, nella lettura di Montemaggi, parla di teologia attraverso la narrazione poetica[2], già in queste prime terzine del canto III definisce i limiti dell’orrore infernale, inteso nell’orizzonte di un uomo che crede nell’orientamento offerto dall’amor che muove il cielo e l’altre stelle: “Giustizia mosse il mio alto fattore”.

L’inferno dantesco, cui molto dobbiamo nella nostra visione dell’orrore, si muove nei limiti della giustizia divina. Non solo: ne è da questa determinato. La sofferenza che vi ha luogo è strumentale a un sistema di valori, una linea rossa – seppur interrotta – tra l’uomo e Dio. Se la narrazione dantesca, sempre nell’interpretazione di Montemaggi, è incontro tra uomo e uomo, l’umanità con cui si confronta Dante personaggio è interrotta, incondizionatamente perduta, non al di fuori però di un universo animato dal divino: il paradiso è perduto, ma esiste. E con esso esiste un senso, sebbene i dannati siano estromessi dal goderne. Senso e giustizia sono saldati nel divino, nel suo “essere ovunque”.

Da qui, si potrebbe continuare sostenendo qualcosa di apparentemente controintuitivo, ovvero che nessuna religione monoteista, di fatto, possa concepire un inferno; che la singolare presenza di un Dio perfetto amministratore di amore e giustizia non possa essere scalfita, nell’equazione teologica, da un abisso senza senso, da un vero inferno. Anche il mondo pre-cristiano sembra conferire senso all’inferno, intendendolo come semplice condizione di non-vita e includendolo in una prima divisione non manicheistica tra divinità infere e supere. Si potrebbe dire che un ordine cosmico aleggia in ogni luogo, anche nell’inferno.

Al di là di ogni considerazione religiosa, o anche meramente spirituale, rimane da chiedersi come una concezione dell’inferno, inteso come spazio oltre il confine tra senso e non-senso, concorra a determinare il nostro modo di stare al mondo. Parlare di “inferno”, “sofferenza”, “orrore” e “terrore”, però, non è solo un gioco vuoto e autocompiaciuto, ma è uno dei diversi specchi – certamente il più tetro – per ridefinire, di converso, i sentieri che percorriamo lungo il nostro cammino. Se nell’uomo vi è una potenza creatrice, è quella di attribuire alle cose senso – inteso come valore spirituale – e significato – quale definizione o schema intellettuale.

Dare senso e significato, dunque, diviene centrale nell’esperire umano. È una straordinaria casualità il fatto che, tra le tante voci che potevano trattare questa tematica, sia proprio Primo Levi[3] ad averla inquadrata nella sua importanza:

Di fronte al triste potere evocativo di quei luoghi, ognuno di noi reduci si comporta in un modo diverso, ma si possono delineare due categorie tipiche. Appartengono alla prima categoria quelli che rifiutano di ritornarvi, o addirittura di parlare di questo argomento; quelli che vorrebbero dimenticare, ma non ci riescono, e sono tormentati da incubi; quelli che invece hanno dimenticato, hanno rimosso tutto, ed hanno ricominciato a vivere da zero. Ho notato che in generale tutti questi sono individui che sono finiti in Lager ‘per disgrazia’, cioè senza un impegno politico preciso; per loro la sofferenza è stata una esperienza traumatica ma priva di significato e di insegnamento, come un infortunio o una malattia […]. La seconda categoria è invece costituita dagli ex prigionieri ‘politici’, o comunque in possesso di una preparazione politica, o di una convinzione religiosa, o di una forte coscienza morale. Per questi reduci, ricordare è un dovere: essi non vogliono dimenticare, e soprattutto non vogliono che il mondo dimentichi, perché hanno capito che la loro esperienza non è stata priva di senso, e che i Lager non sono stati un incidente, un imprevisto della Storia.[4]

Non è chiaro se Levi definisca questo bisogno come necessità di un quadro intellettuale o di uno morale, ma si potrebbe pensare che si tratti di entrambe le cose. Quindi, diviene centrale porsi alcune domande: dove termina il nostro orizzonte di senso? Come coincide con i confini delle società umane?


Jaeger e Gatsu: orrore e lotta

Prima di tornare a parlare di esperienze più propriamente storiche, una sosta nel campo dell’arte può essere utile allo sforzo concettuale. Due opere, in particolare, sembrano rappresentare bene la definizione di inferno come “confine tra senso e non-senso”, evidenziandone ulteriori condizioni di base: L’attacco dei giganti e Berserk[5]. La mancanza di senso è qui affiancata non a una concezione di “sofferenza”, come accadeva nella teologia dantesca, bensì di “orrore”[6]. Se la “sofferenza” dantesca era mera lontananza da Dio, l’orrore di entrambi gli anime sembra essere quello di una pseudo-natura[7] schiacciante e grottesca (ne L’Attacco dei giganti) e di una contro-teogonia[8] (in Berserk), una sorta di orrore cosmico[9] che annienta l’intera esistenza – fisica e metafisica.

Tale narrazione, però, non renderebbe giustizia alle opere citate se non permettesse un ulteriore passaggio: l’orrore non ne costituisce il soggetto, ma solo l’oggetto. Siamo lontani dal feticismo della violenza perseguito dalla corrente più cupa dell’arte manga e anime, e anche dal sadismo di un certo cinema americano – pensiamo a film vuoti come Saw –, e infatti non ci si sofferma sulla violenza delle immagini per il gusto dell’orrido. Il soggetto è altrove e, forse, non è nemmeno l’uomo, bensì la sua scelta di combattere.

Se nel mondo di Berserk gli dei e i dèmoni sono la stessa cosa[10], se pure il reale corre sui binari di un destino immutabile[11], è la scelta di lottare a caratterizzare i personaggi:

Rammentalo per il futuro, guerriero. Presto una tempesta di morte e una pioggia di crudele follia infurierà su di te, e non concederà salvezza ai mortali tuoi simili. Ma ricorda, or ora, guerriero: lottare, combattere e superare i propri limiti, sono l’elsa, il filo e la punta della spada di colui che può avversare la morte. Non dimenticare mai questo mio monito.

Ancora più esplicativo è il messaggio rivolto da L’attacco dei giganti in una delle sue scene più potenti, ovvero quella della riconquista del distretto di Trost. Come si può osservare, le parole e l’estetica della scena non lasciano dubbi: da decenni l’umanità è relegata dietro tre mura, in attesa che i giganti le sfondino. Agli uomini non resta che aspettare il prossimo attacco e assistere allo smembramento – tra urla e pianti – dei propri cari da parte di esseri grotteschi, oppure uscire dalle mura e morire a uno a uno, vedendo l’inferno con i propri occhi. A Trost, però, dopo decenni di sconfitte e di dolore, riescono a prendersi una rivincita. Gli uomini vengono sì divorati ma combattono tutti, e finalmente riescono a chiudere la breccia che aveva costretto a evacuare il distretto. “Dal momento che siamo nati”, pensa il protagonista Jaeger,

siamo liberi. Non importa quanto siano forti, coloro che ci negano quella libertà… [lava, ghiaccio] non importa cosa siano. Coloro che le vedono saranno le persone più libere del mondo! Combatti… darei volentieri la mia vita per quello… non importa quanto il mondo sia terrificante… non importa quanto sia crudele… combatti! Combatti! Combatti! Combatti! […] Combatti!

In questi mondi sbilenchi, dove ogni singolo personaggio è afflitto da traumi latenti, per lo spettatore risulta quasi inevitabile affezionarsi, ed è forse questa la cifra che pervade entrambe le opere: dei personaggi, ma soprattutto dei protagonisti Gatsu e Jaeger, ammiriamo la capacità di lottare. I personaggi vengono presentati come facili underdogs: Gatsu combatte contro figure semidivine che lo vogliono “consacrare”, ossia dare in pasto a una schiera di esseri abominevoli in nome di un Dio che coincide con il male e con l’inferno – quanto meno secondo un capitolo del manga, in seguito tagliato da Miura[12]; Jaeger, invece, lotta con una sola certezza, esposta da un altro personaggio: “Non è patetico? Che ormai agli uomini non si possa chiedere altro che di sacrificarsi?”[13].

Ne L’attacco dei giganti, però, si allontana la natura nefasta del “sacrificio” presente in Berserk, dove non si sceglieva se sacrificarsi, bensì si veniva sacrificati. Va detto che, anche ne L’attacco dei giganti, il sacrificio non è eroico, men che meno epico come in altri anime quale Naruto: Shippuuden: è sporco, spesso ignorato o sbeffeggiato, e quasi sempre anonimo. Si dirà di più: il sacrificio è e viene vissuto dai suoi personaggi come dolorosamente inutile.

È emblematica la scena in cui si descrive il ritorno in città del Corpo di Ricerca, orgoglio dell’umanità e demandato a esplorare il mondo al di fuori delle mura, dove dominano i giganti:

MADRE: “Moses! Moses!… Scusate, mio figlio Moses non riesco a vederlo. Sapete dirmi dov’è mio figlio?”
CAPITANO: “Dunque lei è la madre di Moses. [A un altro soldato] Portalo qui”.
[Alla donna viene dato un involucro. Lo apre e vede un braccio umano. Inizia a piangere.]
SOLDATO: “È l’unica parte del corpo che siamo riusciti a recuperare”.
MADRE: [Piangendo] “Ad ogni modo, mio figlio è stato utile alla causa, non è vero? [il capitano sgrana gli occhi] Forse non si è distinto in battaglia come un grande eroe, ma perlomeno la sua morte sarà una spinta per combattere! Non è così?”
SOLDATO: “Naturalmente! No… stavolta la nostra ricerca… o meglio, anche stavolta… [stringe i denti, poi grida, piangendo] Non ha portato risultati! Nessun progresso! Sono un completo fallito! Sono riuscito soltanto a far morire inutilmente i miei soldati! Senza riuscire a scoprire nulla della vera natura dei giganti!”[14]

Come vedremo successivamente, l’anime ha poi subìto una svolta che ha dato vita a molte critiche e dubbi, ma teniamo per ora il punto sul messaggio che emerge in questa fase dell’opera: nessuno dei personaggi vuole combattere perché ognuno di loro è traumatizzato, ma tutti lo fanno, con una rabbia che è la chiave di sopravvivenza per l’umanità. Jaeger, in questo, è anomalo, perché affronta il trauma canalizzando la rabbia in maniera quasi folle – e ancora di più lo fa il Gatsu di Berserk – ma il messaggio è chiaramente lì: “Combatti!”. E questo sacrificio è una scelta.

L’importanza di tale scelta si potrebbe ricollegare a molte altre opere, legandosi sia alla letteratura contemporanea – in particolar modo alla saga di Harry Potter – che al mondo anime – il già citato Naruto: Shippuuden. Entrambe le opere raccontano la differenza tra il valore di un sacrificio imposto e di uno scelto per difendere qualcosa di importante. Tuttavia, l’importanza delle scelte è una tematica rilevante anche nella nostra Storia. Interessante e affascinante, in questo contesto, che a dare voce a tali istanze – seppur in maniera differente – siano due figure tutto sommato lontane tra loro.

Da una parte, troviamo il Sartre di un importante articolo, il quale orgogliosamente sostiene che “non siamo mai stati tanto liberi come sotto l’occupazione nazista”:

Più il veleno nazista si insidiava nei nostri pensieri, più ogni esatto pensiero diveniva una conquista. Più l’onnipotente polizia provava a forzarci al silenzio, più ogni parola diveniva una preziosa dichiarazione di principio. Più venivamo perseguitati, più ognuno dei nostri gesti acquisiva la natura di un impegno.[15]

Più pacate le parole di Primo Levi:

Forse è bene che la condizione del prigioniero, la non-libertà, venga sentita come indebita, anormale: come una malattia, insomma, che deve essere guarita con la fuga o la ribellione. Però, purtroppo, questo quadro assomiglia assai poco a quello vero dei campi di concentramento.[16]

Il perché è subito chiarito:

Prima di tutto occorre ricordare che in alcuni Lager delle insurrezioni si sono effettivamente verificate […]. Non ebbero molto peso numerico: come l’analoga insurrezione del ghetto di Varsavia, rappresentano piuttosto esempi di straordinaria forza morale. In tutti i casi, esse furono disegnate e guidate da prigionieri in qualche modo privilegiati, e perciò in condizioni fisiche e spirituali migliori di quelle dei prigionieri comuni. Questo non deve stupire: solo a prima vista può apparire paradossale che si ribelli chi soffre meno. Anche fuori dai Lager, le lotte raramente vengono condotte dai sottoproletari. Gli ‘stracci’ non si ribellano.[17]

Non è semplice determinare una risposta univoca di fronte a un inferno. Non si può negare, però, che quelli intravisti da Sartre e Levi siano orizzonti esistenziali, dove l’orientamento è determinato da precise risorse e scelte morali, capaci di creare un confine tra senso e non-senso, tra i significati che l’uomo dà alla propria vita e all’orrore.


Sartre e Polański: l’inferno sono gli altri

Se l’inferno è esistenziale, ciò rappresenta un problema. Ma, come dimostrano gli esempi di Sartre e Levi, siamo capaci di creare da soli degli inferni affinché altri ne diventino il popolo, senza alcun aiuto da parte della natura o della metafisica. L’altro Sartre, quello di A porte chiuse, lo fa dire esplicitamente a uno dei suoi personaggi, morto e ritrovatosi in uno strano inferno, ovvero una stanza popolata da sconosciuti:

Tutti questi sguardi che mi divorano… (si rivolta bruscamente) Ah! Voi non siete che due? Vi credevo molto più numerosi (ride). Allora è questo l’inferno. Non l’avrei mai creduto! Ricordate? Lo zolfo, il rogo, la graticola! Ah, che buffonata! Non c’è bisogno di nessuna graticola! L’inferno sono gli altri…

Il personaggio è Garcin, che ha ben ragione di sostenerlo: gli esseri umani intrappolati in quella stanza, compreso lui stesso, non possono sentirsi al sicuro. Fin dall’inizio hanno ricercato un carnefice, ma, con il tempo, si accorgono di esserlo l’uno per gli altri. Il legame tra A porte chiuse e la storia personale e politica di Sartre non è chiaro, ma viene da pensare che “gli altri” cui Sartre fa riferimento non siano esseri fittizi.

Partendo da queste basi, un’opera più recente può aiutarci a capire meglio anche il lavoro di Sartre: parliamo di Carnage di Roman Polański. La pellicola, infatti, non lascia spazio a scenari extra-mondani: i personaggi chiamati a massacrarsi a vicenda sono due coppie di genitori newyorkesi, e non delle anime chiamate a espiare le proprie colpe. Carnage ribadisce lo schema sartriano del conflitto insito nelle relazioni tra esseri umani: i personaggi di questo film sono nuovamente prigionieri l’uno dell’altro, ma stavolta non a causa di un meccanismo di espiazione delle proprie colpe. La mancanza di senso ne orienta la trama, dall’insensatezza della scena iniziale in cui i figli dei personaggi litigano, alla sequenza finale dove la vita sembra continuare senza essere minimamente scossa dalle vicende dei protagonisti.

Nel film aleggia una domanda: “Per fortuna, c’è ancora una certa idea della convivenza civile, giusto?”[18]. Alla domanda non verrà, però, mai data una risposta. A porla è Penelope Longstreet, la voce legalista (e nevrotica) dell’opera, che viene lentamente e dolorosamente erosa col passare dei minuti; a tale voce, Polański contrappone quella di Alan, che rappresenta più fedelmente e con maggiore cinismo la mancanza di senso espressa dal film. Prima di accusare Penelope di dire troppi “dovrebbe”[19], Alan descrive il convitato di pietra dell’incontro, ovvero il dio del massacro:

ALAN: “Sono giovani, sono ragazzini! I ragazzini quando giocano si picchiano, da sempre, è una regola della vita”.
PENELOPE: “Non è vero”.
ALAN: “Invece sì. Ci vuole una certa maturità per sostituire il diritto alla violenza. In origine il diritto – come lei ben saprà – era la forza bruta”.
PENELOPE: “Sì, parlando della preistoria. Ma non certo oggi”.
ALAN: “‘Non oggi’… che vogliamo dire di oggi?”
PENELOPE: “Lei è pesante, tutta questa conversazione è pesante”.
ALAN: [Avvicinandosi a Penelope, per parlare solo con lei] “Penelope, il mio credo è il Dio del massacro. Il dio che governa indiscusso dalla notte dei tempi. Lei si interessa di Africa, vero?”[20]

Si potrebbe dire molto su quanto questi esempi siano rappresentativi di uno specifico ambiente intellettuale – quello del cinema hollywoodiano – o, più in generale, del mondo dell’arte, e che dunque non abbiano tutto sommato valore politico in sé. Consideriamo ora un’altra ottica, sicuramente più vicina alle periferie e al vissuto reale, come quella del fumettista Zerocalcare.  L’autore, in Rebibbia Quarantine, dice che “alla fine sta città è n’alveare, in cui ognuno de noi sta da solo coi suoi quaranta milioni de cazzi, e se deve barcamenà pe arrivà in piedi alla fine de ogni giornata. Nessuno sa un cazzo delle vite dell’altri”. Era un anno fa; ma forse non siamo ancora l’inferno gli uni degli altri?

“Hell’s Flames – The Abomb Dome (2.0)”, David A. LaSpina/Flickr, licenza CC BY-NC-SA 2.0.


Jaeger II: l’inferno siamo noi

Al termine di questo pomposo incedere, arriva “Jaeger II”. Potremmo chiamare in questo modo la svolta intrapresa ne L’attacco dei giganti, e si tratta di uno stacco così frastornante da scatenare un’intensa attività di reinterpretazione dell’anime. Ricordate Jaeger e la sua capacità di lottare nonostante i traumi, il dolore e la disperazione? E l’umanità sull’orlo dell’estinzione, minacciata da giganti grotteschi e affamati di carne umana? Bene. Questi giganti sono il prodotto di Marley, una nazione ostile che vuole distruggere Paradis, la città di Jaeger. E ancora: Marley vuole distruggere Paradis perché quest’ultima è il rifugio degli eldiani – una civiltà capace di controllare i giganti – i quali, più di cento anni prima, dominavano e sterminavano gli altri popoli. Tale civiltà è ora tollerata dagli abitanti di Marley solo perché relegata in ghetti, in cui viene maltrattata, e dai quali non è possibile allontanarsi, se non indossando una fascia al braccio.

Alcuni hanno notato qualche “piccola” similitudine con la storia della prima metà del Novecento, riconducibile anche all’estetica della civiltà di Marley, oltre che al trattamento riservato agli eldiani. In sostanza: L’attacco dei giganti inneggia al nazionalismo giapponese e ai suoi legami col nazismo? Tale legame, esplorato da Tom Speelman sulla rivista Polygon, lega l’estetica costruita sui giganti alla propaganda anti-coreana giapponese e a quella antisemita tedesca. Si rimanda all’articolo sopracitato per un’analisi più approfondita, ma giova qui notare un punto di particolare interesse: gli eldiani, figli di una progenie corrotta, sono stati ghettizzati o si sono spontaneamente ritirati in esilio su Paradis; i loro discendenti, scoperta la propria origine, decidono di vendicarsi, dichiarando guerra al mondo. In pratica, sono come gli ebrei nella definizione che ne fa la propaganda nazista.

Stiamo certamente trattando un “problema fittizio”, relativo all’interpretazione di un’opera fiction, ma anche questi messaggi sono importanti, perché ci pongono di fronte alla complessità del reale. Proprio questo è il primo messaggio de L’attacco dei giganti: il reale è complesso, a volte doloroso. Zeke, il quale ha permesso che venissero divorati diversi soldati, diventa improvvisamente un alleato. Jaeger, che ha resistito nonostante le sofferenze, costringe di fatto Paradis a seguirlo in un attacco che porterà alla morte di centinaia di civili, vendicandosi così senza ripensamenti. Di fronte a questa ulteriore complessità, l’inferno dell’insensatezza della natura o dell’ultraterreno è sostituito con il non-senso che deriva dall’essere umano: l’inferno sono io; l’inferno è l’uomo che, nella sigla iniziale, marcia a passo militare a ritmo della musica e, sempre a ritmo, sgancia bombe sulle città. Queste immagini rimandano, come indica Motamayor su Observer, a un preciso immaginario storico. Nel suddetto immaginario, però, osserva sempre Motamayor, si agitano nuovi personaggi, Falco e Gabi (ragazzini di Marley), che sono lo specchio dei protagonisti Jaeger, Mikasa e Armir. Anche Falco e Gabi sembrano essere destinati a perdere l’innocenza e a imbracciare le armi contro un mostruoso nemico: Paradis, e cioè noi.

Il sopracitato articolo di Polygon riconosce la vis militarista già insita in altre opere: l’élite civile, ne L’attacco dei giganti così come in Naruto (per citarne due), è sempre inetta. Tuttavia, il non-senso che si riscontra qui colpisce inevitabilmente proprio le gerarchie fino a quel momento rimaste pressocché indiscusse:

Ma dopo quattro stagioni, sia lo show che l’audience sanno di non doversi fidare di una storia di ragazzi dagli occhi grandi che vogliono salvare il mondo dai mostri, perché ciò che lo show indica chiaramente è che sono spesso semplici pedine nei giochi politici dei potenti.

Ciò che viene messo in dubbio è un principio cardine della vita su Paradis, ovvero l’idea che l’autorità comporti il dovere di sapersi sacrificare per il bene di tutti[21]. Questa dinamica è ben spiegata da Motamayor quando parla di Reiner, il soldato di Marley precedentemente infiltratosi come spia in Paradis:

Che stia effettivamente mostrando empatia o meno, Reiner sa ora quanto Eren [Jaeger] abbia ragioni tanto buone per odiarlo quanto quelle che lui aveva per odiare Eren, prima di incontrarlo. Reiner sa che il vero diavolo non è una persona, ma un’ideologia, un’istituzione invisibile che diffonde odio accrescendo così il proprio potere. E quando vede Eren per la prima volta in quattro anni, si getta a terra chiedendo a Eren di ucciderlo, perché sa che tutto questo è una propria colpa. Nella sua stagione finale, L’attacco dei giganti sta lentamente rivelando ciò di cui parla. Non solo di come entrambe le parti abbiano buone ragioni, ma che le loro storie sono due facce della stessa medaglia.

Solo l’incontro tra esseri umani di diverse fazioni può sciogliere in qualche modo il nodo del conflitto, ma non in Jaeger e Reiner, quasi destinati alla reciproca distruzione, bensì – forse – in Gabi e Falco, e in generale nelle nuove generazioni.

Ciò si nota, al momento, nell’incontro che Kaya – una ragazza di Paradis – ha con Gabi e Falco, i quali sono in fuga da Paradis sotto le false identità di Mia e Ben.

KAYA: “Questo era il paese in cui abitavo. Quattro anni fa, un Gigante apparve anche qui. Tutti gli abitanti fuggirono alla sua vista, abbandonando mia madre, che non poteva camminare. Io non potevo fare niente, quindi me ne stavo seduta. Ero in questo punto, e sentivo i suoni di mia madre che veniva mangiata proprio lì. […] Ci sono altri popoli oltre le mura che ci considerano una razza di dèmoni, no? Ma io non capisco bene il motivo di tanto odio… Mia, Ben, spiegatemelo voi. Cos’ha fatto mia madre? Cos’ha fatto per essere odiata così?”
[…]
GABI: [Grida] “Avete dimenticato proprio tutto!? Per migliaia di anni, gli eldiani hanno controllato e oppresso il mondo con il potere dei giganti! Hanno depredato le civiltà di altre etnie, li hanno costretti ad avere figli indesiderati e mietuto un numero incalcolabile di vittime! Quindi smettila di fare la vittima!”
KAYA: “Però mia madre era nata e cresciuta in questa zona. Non credo abbia fatto nulla di quello che dici”.
[…]
KAYA: [Gridando] “Mia madre non ha mai ucciso nessuno! [Le afferra le spalle] Mia, rispondimi seriamente! Perché mia madre è morta tra atroci sofferenze? Dev’esserci una ragione, no? Altrimenti sarebbe davvero assurdo! Perché mia madre è stata mangiata viva? Dimmelo! Perché è stata uccisa? Dimmelo! Perché?”[22]

Da questo punto la svolta:

FALCO: “Era una ricognizione. […] Lei non aveva nessuna colpa. Scusa”.
[…]
KAYA: “Ti ringrazio per avermelo detto, Ben. Ma non ha senso che sia tu a scusarti, solo perché sei nato a Marley…”
FALCO: “Comunque, come ti sei salvata da quella situazione, Kaya?”
KAYA: “Mia sorella, una ragazza al tempo un po’ più grande di me ora, entrò in casa con un’ascia per la legna e combatté contro il Gigante”.
FALCO: “È una pazzia…”
KAYA: “Sì… Alla fine lei decise di farmi da scudo per permettermi di fuggire dal Gigante. Se lei fosse ancora viva, non abbandonerebbe mai due bambini sperduti come voi. Proprio come fece con me… Sapete, siamo stati invitati in un ristorante in cui lavorano anche marleyani. Se venite con noi forse potrete trovare un modo per tornare a Marley”.
GABI: “Perché…?”
KAYA: “Io voglio diventare come mia sorella”.[23]

Individuare un messaggio univoco e chiaro in una simile opera, oltretutto incompiuta, sarebbe difficile. Inoltre, si finirebbe per disconoscerne l’ambizione, ovvero quella di non lasciare scampo a interpretazioni lineari e autoconclusive. Potremmo, però, azzardare una nota di metodo: se un’opera fiction ci pone di fronte a forti dilemmi morali, è anche perché permette di interfacciarci con dinamiche reali in contesti ignoti. La guerra di Marley e Paradis è fuori dalla Storia, ossia avviene in un mondo fittizio slegato dalle dinamiche politiche che ci legano a eventi accaduti nella realtà.


Confini d’inferno: qualcuno dovrà pur perdere

La “mancanza di Storia” è dunque uno strumento potente, temibile quanto efficace. Temibile perché il mescolarsi di fittizio e reale comporta il rischio che l’umano divenga un feticcio per ospitare, in una relazione parassitaria, la simbologia insita nella narrazione altrui (il fittizio si proietta sul reale); efficace perché gli schemi intellettuali, sganciati dall’esperienza storica, frantumano lo specchio che fa dello schema lo strumento di una infinita rifrazione dell’individualità storica di ciascuno (il reale che si abita non può proiettarsi sul fittizio)[24]. Per esempio, se consideriamo la dinamica delle cinque grandi nazioni[25] di Naruto, ne ricaviamo l’ingiustizia dell’utilizzo delle nazioni minori come scenario di guerra. Come fare poi a non accorgersi, riemergendo dal fittizio, che la brutalità subita dalla nazione della pioggia – Paese di orfani di guerra – è la medesima dei Paesi per decenni ostaggio dello scontro della Guerra Fredda? Da qui l’efficacia: non sentiamo di doverci scusare col Paese della pioggia, ne interiorizziamo l’ingiustizia, ma qualcosa si è rotto. Allora siamo noi, le grandi nazioni.

Fin qui, si potrebbe ridurre la morale di questa strana favola a una considerazione fondamentalmente banale: se l’inferno siamo noi, possiamo portarlo in guerra. Non serve quindi un Dio, per l’inferno; anzi, Dio, in quanto portatore di senso, risulterebbe d’impaccio. La discussione può andare più avanti, scavando ulteriormente nelle dinamiche umane. E, infatti, sembra evidente quanto ogni organizzazione determini vincitori e vinti. Qualcuno dovrà pur perdere, se, in un contesto di risorse finite, vengono determinati criteri di successo, criteri di accesso a status superiori. Non è casuale che, pur nella sua ottica conservatrice, Robert Kagan divida il mondo tra paradiso e potere, sostenendo che l’Europa abbia abbandonato quest’ultimo in favore del primo. Ma quanti paradisi e poteri generiamo, se non altrettanti quanti ogni singola organizzazione sociale? Forse di meno, si potrebbe considerare, dato che, ad esempio, la famiglia non genera degli inferni al di fuori di sé, quanto meno in contesti in cui la coesione sociale sia sufficiente per evitare che ogni famiglia debba considerare ogni altra come nemica. Ma se parliamo di città, Stati, aziende, quanti inferni generiamo con le nostre fortezze?

Chiaramente, vi sono inferni lievi e inferni gravi (se così si può dire), perché, ad esempio, un negoziatore che contratta con i fornitori – assicurandoci beni e servizi sottoprezzo – genera un’ingiustizia senza senso, ma questa è di portata certamente inferiore a un soldato che ci garantisce sicurezza nell’approvvigionamento energetico, scovando tanta carne fresca da tortura per l’intelligence USA. Tuttavia, sembra inevitabile sostenere che ogni modello organizzativo comporti una ridefinizione dei criteri utili a definire chi vi è dentro e chi ne rimane escluso. Ciò appare fisiologico, ma osserviamo questa dinamica in negativo: se ogni struttura sociale determina degli sconfitti, gli sconfitti non sono forse la base di questa struttura? E ancora: il nostro piccolo angolo di paradiso non si fonda sul lavoro di guardie di confine destinate a essere per noi cattive? Ogni società, in tal senso, mira a incrementare il benessere di tutti, o solo ad ampliare la propria circonferenza oltre una determinata soglia critica, al di là della quale gli inferni non sono più visibili, non più esistenti? In quest’ottica, l’utopia è la politica, perché essa stessa non può sopravvivere senza fingere un inferno, o almeno un reale, senza colpe né peccatori. Si chiude così il cerchio: il non-senso diviene fondamento del senso, l’inferno del paradiso.

“Hell and Hollywood”, Eric Castro/Flickr, licenza CC BY-NC-SA 2.0.


Cosa possiamo fare, chi vogliamo essere

Non vi è, in questo contesto, un chiaro input morale, una vera e propria direttrice che indichi cosa sia giusto fare e cosa no. Le forze armate del comandante Pixis, ne L’attacco dei giganti, raccontano come il collasso delle mura esterne abbia comportato la scelta di abbandonare parte della popolazione al proprio destino, in modo da poterne salvare la maggior parte. Un altro scenario, descritto nel film Interstellar, impone agli uomini di abbandonare il pianeta, ma senza scegliere di lasciare qualcuno indietro. Come definiamo i confini dei nostri paradisi? Come scegliamo chi può entrare e chi, invece, deve essere lasciato fuori, sebbene lo si faccia per un presunto “bene superiore”? Pare impossibile, oggi, ritenere che i nostri inferni siano giusti, se mai possa essere giusto uno, perché sono dotati di tutto ciò che potrebbe definire un vero inferno: essi comportano sofferenze a volte orribili e spesso quasi totalmente casuali o, quanto meno, arbitrarie. Se si pensa al “cimitero del Mediterraneo”, che forse un giorno sarà identificato come sterminio di massa, ne constatiamo certamente la natura orribile, così come riconosciamo la casualità che ci pone qui invece che altrove. Ancor più chiaramente, seguendo le strade dell’immedesimazione, tale casualità ci pone come i cittadini all’interno delle mura di Paradis; cittadini, questi, che non hanno comprensione di cosa significhi l’orrore.

In conclusione, viene da pensare che, visto l’andamento della crisi climatica, ci troveremo presto di fronte a scelte di questa natura, la quale scava nel lato più buio, ma anche in quello più eroico, dell’umano. Con molta probabilità, ci troveremo ad affrontare ciò che i prepper non comprendono, ma che anima, di fondo, il nostro concetto di umanità:

[…] l’euforia organizzativa dei prepper si esaurisce in aspetti di natura materiale: si ferma cioè ai primi due gradini della piramide dei bisogni di Maslow, fisiologia e sicurezza. Ma l’equipaggiamento materiale non sarà in ogni caso sufficiente a vivere in un pianeta incerto, c’è da attrezzarsi anche politicamente e psicologicamente, per non dire spiritualmente ed emotivamente. “Sarà necessario forgiare una morale d’acciaio (o piuttosto di giunco, dipende) per resistere alle tempeste future”: non si tratta soltanto di avere cibo di scorta e una solida garitta sotto la quale proteggersi dalle intemperie, ma anche di conservare l’umanità quando l’istinto dominante sarà quello di curarsi esclusivamente della propria sopravvivenza. […] “dobbiamo chiederci, oltre a cosa possiamo fare, chi possiamo essere”.

È forse questa la vera domanda che si agita nelle fondamenta di ogni idea politica: quale che sia il nostro luogo di adozione, paradiso o inferno, chi possiamo essere?

Francesco Finucci per Policlic.it


[1] D. Alighieri, La divina commedia – Inferno, a cura di U. Bosco e G. Reggio, Le Monnier, Milano 2001, Canto III, vv. 1-6, p. 35.

[2] Per quest’interpretazione, si veda la conferenza organizzata dalla Georgetown University e “La Civiltà Cattolica”, intitolata “Dante: Searcher and Discoverer”.

[3] Il testo riporta testimonianze dei campi di sterminio. Tale scelta è stata ritenuta inevitabile, sia per lo straordinario valore dei testimoni che per la loro relazione con le tematiche presentate in questo lavoro. Si deve però considerare un caveat necessario per evitare fraintendimenti: l’idea di inferno, o meglio di inferni, è slegata dalla stringente associazione con le peggiori e più oscure vicende della storia umana o naturale: non si vuole dirimere una nera matassa dell’orrore, ma porre una questione sulla complessità della coabitazione umana e sulla – forse inevitabile – componente orribile che si individua in precisi spazi ai confini dei paradisi o quasi-paradisi che ogni società punta a costruire. Gli inferni, a loro volta, possono essere micromondi, non-luoghi, strascichi, ma non necessariamente abissi umani come lo sono stati, invece, i campi di concentramento. Una loro reductio ad Auschwitz sarebbe non solo fuorviante, ma anche riduttiva di una riflessione più ampia sulla natura delle società umane.

[4] P. Levi, Se questo è un uomo – La tregua, Einaudi, Torino 1989, p. 338.

[5] In entrambi i casi, si parla della versione degli anime e non dei manga. In particolare, si fa riferimento alla serie anime di L’attacco dei giganti proposta da Netflix (stagioni 1-3) e da VVVVID (stagione 4); per Berserk, invece, per mere ragioni di tempo e risorse, la riflessione riguarda la trilogia cinematografica e non l’anime televisivo né il manga.

[6] Si deve a un’amica la puntualizzazione sul fatto che l’inferno dantesco sia pervaso di “sofferenza”, ma non di “orrore” o “terrore”.

[7] Tale, a parer di chi scrive, va definita la presenza dei giganti nell’anime, per una ragione specifica: i giganti sono una presenza distorta, a volte angosciante, altre volte inerte, ma sempre grottesca. Essi sono molto lontani dal naturalismo che animava, ad esempio, il lavoro di Michael Crichton nel descrivere la minaccia posta dai dinosauri in Jurassic Park. Contrariamente a Berserk, i giganti sono sicuramente una presenza fisica, terrena e sensoriale, ma non può certamente sfuggire la straniante anormalità che li caratterizza.

[8] Questo termine è, per forza di cose, limitante; probabilmente si dovrebbe parlare di “teogonia rovescia”. Tuttavia, si evita quest’ultima espressione per escludere, qualora qualcuno non conoscesse l’opera, un’interpretazione sbagliata della suddetta, perlomeno per quanto noto all’autore, essendo ancora incompiuta. Il mondo creato da Kentaro Miura è contro-teogonico perché l’origine del divino, normalmente individuata dalle religioni in un bene assoluto, viene rovesciata in male assoluto. Termini come “teogonia rovesciata” potrebbero portare a intendere una volontà da parte di Miura nel proporre questa contro-teogonia come auspicabile – idea difficilmente deducibile dall’opera, se non contraria ad essa.

[9] È notevole che un’opera di contenuto dark fantasy possa dirsi vicina all’“orrore cosmico”, un concetto profondamente legato oggi alla fantascienza. Il termine, le cui influenze intellettuali risalgono all’opera di Lovecraft, si incentra su quell’orrore che è talmente incomprensibile e alieno da risultare non concettualizzabile. Un esempio noto si può riscontrare in film come La Cosa, ma forse non è casuale che l’estetica e la riflessione scaturite dagli inferni, in particolare in Berserk, si riveli così vicina a quella lovecraftiana. Risulta altrettanto poco casuale che l’idea di un creatore malevolo connetta l’opera di Miura con capolavori della fantascienza del calibro di Prometheus.

[10] Berserk – L’epoca d’oro – Capitolo I: L’uovo del Re dominatore, Toshiyuki Kubooka, Giappone 2012, min. 45:20.

[11] Berserk – L’epoca d’oro – Capitolo III: L’avvento, Toshiyuki Kubooka, Giappone 2013, min 1:28:30.

[12] Risulta notevole la complessità di un confronto con l’opera e il suo contesto culturale, in particolare nella concettualizzazione dell’inferno. In Berserk, l’inferno è chiamato “Abisso”, ed è descritto come un luogo atto a ospitare l’idea del male, “che qualcuno chiama inferno”; sembra però distinto dal lungo e complesso processo che ha caratterizzato il dibattito giapponese sull’aldilà, apparso già in un testo dell’VIII secolo, il Kojiki. L’aldilà si presenta qui sotto il nome di Yomi. Allo Yomi è destinata Izanami, prematuramente morta e temporaneamente ricongiunta con Izanagi. Ad agitare la dinamica tra le due figure è il dualismo tra dolore della perdita e paura della morte: lo Yomi è, sopra ogni cosa, la sofferenza del separarsi da questo mondo. Da qui la sua dimensione straniante e aliena, il suo essere, nelle parole della stessa Izanami, un “luogo malvagio”. A questa prima concettualizzazione, di stampo scintoista, segue quella buddista del Jigoku, dove all’inevitabilità della morte sembra sovrapporsi la sofferenza per i peccati commessi. Il vivace dibattito che si origina nella dottrina buddista sembra quindi distaccarsi dalla visione di Miura: il dolore della perdita non è mai totalmente insensato, in particolare nel Jigoku. Al contrario, l’inferno berserkiano, fondendo male e divinità nel “Dio desiderato”, svuota di ogni valore la dialettica tra vita e morte: il Dio, che è creatore dell’uomo e da esso creato, porta Griffith nell’Abisso, ma gli lascia facoltà di scelta. Alle parole “Fai come desideri, eletto”, Griffith risponde: “Se è così, voglio le ali”, sugellando la propria volontà di trasformarsi in dèmone, saldando libero arbitrio e destino immutabile. (Per una riflessione sulla visione buddista riguardo all’aldilà, si veda A. Omine e U. Taitetsu, The Genealogy of Sorrow: Japanese View of Life and Death, in “The Eastern Buddhist”, New Series, XXV (1992), 2, p. 19; per Berserk si rimanda sempre al capitolo eliminato da Miura.)

[13] L’attacco dei giganti, Tetsuro Araki, Giappone 2013, stagione 1, episodio 12, min. 9:50.

[14] Ivi, episodio 1, min. 9:40.

[15] J.P. Sarte, Paris Alive. The Republic of Silence, in “The Atlantic”, CLXXIV (1944), 6.

[16] P. Levi, op. cit., p. 334.

[17] Ivi, p. 335.

[18] Carnage, Roman Polański, Francia/Germania/Polonia/Spagna 2011, min. 4:00.

[19] Ivi, min. 18:30.

[20] Ivi, min. 57:30.

[21] Il dubbio che l’imposizione del sacrificio non avvenisse per ragioni morali, tra l’altro, era già stato seminato sporadicamente nell’opera, in modo così strategico da finire assorbito nella trama eroica dello sviluppo dei protagonisti, per poi fiorire solo con la quarta stagione. Già nell’episodio 3 della terza stagione, il comandante del Corpo di Ricerca, Erwin, commenta la morte di suo padre così: “Perché […] doveva morire solo per essersi avvicinato alla verità? Pensavo anche che i funzionari governativi agissero solo per un loro concetto di giustizia. Però c’è una cosa che ho capito su di loro. Ciò che vogliono proteggere non è l’umanità, ma la loro posizione sociale e le loro case con giardino” (L’attacco dei giganti, cit., stagione 3, episodio 3, min. 19:40).

[22] L’attacco dei giganti, cit., stagione 4, episodio 11, min. 16:50.

[23] Ibidem.

[24] Visto altrimenti, negli occhi straordinari di Benjamin Labatut, la fiction è l’unico strumento per giungere alla cosa più essenziale: il senso.

[25] Nell’anime Naruto e nel seguito Naruto: Shippuuden, il mondo viene diviso in diverse nazioni, cinque delle quali considerate più potenti nonché vere detentrici degli equilibri politici e militari dell’intera umanità. Le cinque nazioni, spesso dilaniate al loro interno da lotte tra clan, sono a loro volta in conflitto tra di loro, scaricando lo scontro militare su territorio neutrale, ovvero quello delle nazioni meno potenti.

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