Islanda

Islanda

Cronaca di un viaggio ai confini del mondo

(Lotta di) classe

Il viaggio in Islanda non inizia nel modo migliore. Ad annunciarlo, via email, è la KLM, la compagnia di volo che ho scelto. “Your flight is cancelled”, il volo è cancellato. Si tratta di uno dei due aerei di andata, quello che dovrebbe portarmi da Roma ad Amsterdam, per lo scalo verso Reykjavik.

La notizia arriva mentre sono a fare spesa, ma non giunge inaspettata. Da mesi ormai le compagnie aeree sono in crisi, incapaci di staffare i voli in aumento dopo la crisi Covid, perché la migliore strategia che abbiano potuto pensare per affrontare la suddetta crisi è stata quella di licenziare in blocco[1]. Lufthansa contava almeno tremila voli cancellati[2], mentre KLM si è trovata a pagare cara la propria politica, arrivando a compensare i passeggeri con 70 milioni di dollari in soli tre mesi[3]. Insomma, anche se la percentuale di voli cancellati non è altissima, il problema, almeno al momento, sembra generale. E il mio volo sembra essere finito proprio al centro di questo vortice.

Decido così di chiamare l’assistenza. Sono ore intense, passate tra tentativi di riorganizzare il volo con i poveri cristi che dall’altra parte del telefono cercano di aiutarmi come possono, ma trovano solo scali a New York – letteralmente, non è un’iperbole. Certo, riescono da soli, come spesso accade a chi lavora nelle posizioni più umili in grandi aziende, a salvare il salvabile dell’immagine di KLM. Nulla di fatto però. Mi tocca prenotare un volo con una diversa compagnia, dormire un giorno in più a Reykjavík, ma alla fine la quadra si trova. Tempo di raccogliere tutto il necessario, dimenticare la giacca a vento a casa, farsela riportare in fretta e furia, farsi venire una nevrosi e farla venire a tutta la famiglia, poi è fatta. Si parte.


Atlantico del nord

Dopo un volo diretto di oltre cinque ore, l’arrivo a Reykjavík conferma quanto scritto sul vademecum comportamentale scritto da Roberto Luigi Pagani, cui tanto dobbiamo per la divulgazione sull’Islanda. Innanzitutto, vedo con i miei occhi la diversa cultura del servizio esistente nel paese:

In Islanda non c’è una vera cultura del servizio. Toccherà aspettare a lungo per essere serviti, in alberghi anche di alto livello possono esserci imperfezioni e ‘sporcature’ nel servizio. I camerieri in Islanda sono soprattutto stranieri e ragazzi giovani. La mentalità di sacrificarsi per il lavoro qui non esiste perché è una cultura dove la vita privata conta più del lavoro. Accettalo e non lamentartene. I Paesi con una cultura dell’efficienza elevata la pagano con un elevato livello di stress e frustrazione. Apprezza e rispetta il fatto che gli islandesi privilegiano la serenità.[4]

All’aeroporto di Keflavík ciò si avverte, ma comprenderne le ragioni aiuta a rifletterci su. Con il solo appunto che a volte tale modo di vivere sfocia in comportamenti apertamente sgarbati o rapaci, andando in direzione diversa da quella descritta da Pagani.

Da Keflavík si arriva così alla Sunna guesthouse, su di un autobus dove è richiesto – Pagani docet – di allacciare le cinture anche se non si guida il mezzo. È sera e la più famosa chiesa di Reykjavík, la Hallgrímskirkja, svetta nel silenzio, le vetrate illuminate di colori accesi. La guesthouse mi accoglie con una piccola entrata a pochi passi dalla piazza. La porta viene aperta da una receptionist molto gentile – che scopro essere francese. È bello vivere in Islanda? Ci dice di sì, è veramente un paese meraviglioso. Scambiamo qualche parola, poi salgo in stanza. Le guesthouse offrono un compromesso tra hotel e ostello: le stanze sono singole, molto graziose e curate, ma il bagno è in comune. Di fuori, il silenzio, nel centro della città più popolosa d’Islanda – 233mila dei 315mila abitanti del paese risiedono qui. Per stanotte, avvisato a casa che tutto è andato per il meglio, si può andare a dormire.

Arrivato il giorno, è tempo di ricollegarsi alla chat di WhatsApp, dove già si manifestavano le prime avvisaglie di quello che sarebbe stato il gruppo dei viaggiatori. Uscito dalla stanza, chiedo alla receptionist se posso lasciare i bagagli nella guesthouse. Sì, dicono, c’è una stanza nel seminterrato. Stanza sì, ma comune. Per accedere basta un codice fornito dallo staff agli ospiti che vogliano depositarvi le proprie cose. Si rivelerà un fatto comune, in Islanda. Mi armo delle cose più preziose – fotocamera compresa, ovviamente – e parto alla scoperta di Reykjavík.

La fotocamera, acquistata da poco, non promette però bene. Ci litigo, i video non riescono, qualcosa non va. Dopo un po’ rinuncio ai video – la Hallgrímskirkja non è proprio indimenticabile, vista da fuori – e prendo a girare per la città. La prima strada che mi si apre davanti è carica del mistero islandese. È una splendida via che sfocia, molto più in là, nella baia della città. I colori pastello degli edifici si mescolano in fondo col blu intenso del mare. È la mia seconda impressione di Reykjavík, e mi ha già conquistato.

Scendo così, tra piccoli negozi color grigio scuro, quasi nero, e altri color rosa, fino ad arrivare alla baia vera e propria. È così che arrivo nella zona più moderna della città, con grattacieli di vetro che si affacciano su di un lungomare trafficato. La pioggia leggera ricorda l’Inghilterra, ma le nuvole sono alte, il mare immenso. Una foto poco potrebbe per raccontare la simbiosi con questo oceano. Provo quindi un video, per registrare quel momento. Sotto il ticchettio della pioggia, il mare si infrange con delicatezza sugli scogli, increspato dal vento e trasformato in un moto freddo di un colore indecifrabile, tra il blu e il grigio.

La baia di Reykjavík (cortesia dell’autore, licenza CC BY-NC-SA 2.0)

Sento l’urgenza di condividerla con il gruppo di supporto che ho lasciato a casa – la chat di famiglia –, ma il telefono non lo permette. Niente videochiamate. Allora giro un video e lo invio. Il viaggio si sta costruendo, pezzo per pezzo, ed è importante per me che qualcosa arrivi a casa. Forse è un effetto dell’essere sperduti in una nuova, sconosciuta città. O forse è una conseguenza di tutto il supporto ricevuto perché questo viaggio fosse non solo possibile, ma felice. Ma qualcosa deve ritornare indietro, inevitabilmente, man mano che la grazia che precipita dal viaggio mi si deposita dentro, per rimanervi.

Muovo a sinistra, verso l’Harpa, la splendida sala concerti di Reykjavík. Vi trovano rifugio gli avventori in fuga dalla pioggia, anche se solo il pianoterra è accessibile ai visitatori. La sua modernità è testimoniata da geometrie che da sole varrebbero diverse fotografie. Nel frattempo, nella chat WhatsApp, noi primi arrivati ci organizziamo per vederci. Sono entrato nel porto vero e proprio, dove turisti indiscreti si aggirano – penso – rischiando di essere cacciati dal personale del luogo, perché addentratisi in aree non accessibili al pubblico. Nel frattempo, ho il tempo di vedere attraccata l’Endurance, nave crociera che la National Geographic dedica alle rotte del nord Atlantico. È una scoperta eccitante, perché apre scenari affascinanti. L’Islanda porta inconsciamente a sentirsi esploratori simili a quelli che vediamo nei documentari, nei film.

Troppo tardi però: è arrivato il tempo per incontrarsi. E infatti poco dopo accade. Siamo assieme con Guido, Michele, Dylan e Fabio. Persone normali con lavori normali, ed è un fatto inatteso. L’Islanda è molto costosa, quindi mi aspettavo manager e impiegati, e invece trovo persone come me, tutto sommato: magazzinieri, capitreno e macchinisti. Parliamo del più e del meno, ci conosciamo e ci muoviamo per la città, nascondendoci ogni tanto sotto qualche balcone, per via della pioggia. Fabio è a Reykjavík già da qualche giorno, se l’è esplorata con calma. Guido, Michele e Dylan sono arrivati grossomodo nello stesso mio periodo. Rimaniamo in giro per qualche ora, poi ci avviamo verso l’ostello Loft Hi, luogo d’incontro e primo pernottamento del tour. Nel frattempo, possiamo visitare l’interno della Hallgrímskirkja, ed è una scoperta. Entrati, la volta neogotica della chiesa si eleva in tutta la sua altezza. Spoglia in maniera significativa, e anche qui c’è da ringraziare Pagani. Ci aveva avvertito, parlando delle piccole chiese rurali islandesi:

Su un piano diverso, però, c’è qualcosa in più a rendere queste semplici costruzioni ancor più speciali. Ho certamente notato che diversi, credenti e non, sostengono di sentire molto di più il contatto con il trascendente nella semplicità di questi luoghi, ma c’è un altro fattore da considerare: il contesto. Siamo in una tundra subartica. Eppure anche qui l’uomo ha trovato il modo di esprimere il suo slancio verso l’assoluto. Nonostante la lotta per sopravvivere in una terra inclemente, ecco che si trovano le energie per innalzare un piccolo spazio, un’oasi nel deserto dove pregare e celebrare. Dove cantare e suonare.[5]

Qui c’è tutta una visione dell’Islanda. Le navate ci ricordano la tensione dell’uomo verso qualcosa di ulteriore, anche nel mezzo del nulla; gli operai al lavoro per riparare la pavimentazione, invece, ci ricordano che c’è un paese reale dietro il velo delle nostre proiezioni di viaggiatori, che il wonderlust non può prendere il sopravvento sulla realtà delle cose. Ci dice che la nostra Islanda non è la vera Islanda. Ammesso che ve ne possa essere davvero una.

Ritiro i bagagli, nell’affanno che contraddistinguerà praticamente tutto il viaggio, e nella speranza continua di non dimenticare cose in giro. Poi partiamo, per arrivare poco dopo all’ostello. Saliamo e ci ritroviamo in un bar. Lasciamo i bagagli in una nuova stanza comune e – Canon al collo, per-l’amor-d-iddio – ci sediamo in una terrazza coperta, in legno, che affaccia sulla città. Lo scenario non è splendido, ma è caldo e accogliente. È qui che ci raggiunge il resto del gruppo. Ci si scambia i saluti, ci si racconta un po’ di noi. Si fa amicizia. Si parla, si discorda, ma sempre con tranquillità. È lo spirito che animerà tutto il viaggio, un bisogno profondo di concordia, di calore che sembra permeare dal gruppo o forse dall’Islanda. Ad alimentarlo, forse, anche la calma innata del coordinatore, Tiziano, che mantiene il suo aplomb marchigiano anche quando aspetta notizie sul suo bagaglio, perso chissà dove nel marasma che sta agitando i voli europei. Una cena di benvenuto ci riporta nel cuore di Reykjavík, in un locale che ci lascia addosso un forte odore di frittura e il ricordo di una zuppa di pesce con ben cinque, sei gamberetti per porzione. Non importa, però. Non importa.

Tempo di un briefing, poi si ritorna all’ostello. Ci troviamo in camerate piuttosto grandi, ma che condividiamo tra membri del gruppo. Ha luogo quella speciale magia che posso ricollegare solo all’esperienza scout, quando ci si trova a dormire con un gruppo di sconosciuti, condividendo quell’intimità che solitamente è propria delle persone che si conoscono bene. Il fascino di essere con sconosciuti e condividere un’esperienza così profonda crea legami unici, anche se spesso effimeri, dove la scomodità si confonde con l’opportunità di essere radicalmente assieme, pur mantenendo il riserbo proprio di chi non si conosce. Di fronte a questo, siamo totalmente umani, senza passato né futuro. Senza responsabilità per domani e senza quei pesi che ci trasciniamo dietro da ieri. Dentro la paura e senza la paura. Come se tutto fosse possibile.


Luoghi metafisici, luoghi oltre il mondo

La cascata di Gullfoss (cortesia dell’autore, licenza CC BY-NC-SA 2.0)

Lasciata Reykjavík appena in tempo per evitare uno scroscio di pioggia, ci dirigiamo verso la nostra prima cascata: Gullfoss. Ci mettiamo in auto e poco dopo siamo di fronte alla magnificenza orgogliosa della natura islandese. Gullfoss si apre di fronte a noi con un suono che possiamo sentire da lontano, mentre scaraventa il proprio fiume in un orrido profondo una decina di metri. Per la potenza dell’impatto, l’acqua risale in alto sotto forma di vapori. Il percorso che affianca la cascata è umido, i vestiti dei turisti sono pieni di goccioline.

Dall’islandese avevo appreso una parola, fellagur, per “bello”. Fellagur non è sufficiente. Il linguaggio mi tradisce: come si dirà “meraviglioso”? “Potente”? “Soverchiante”? Questa grande bellezza che si espande da orizzonte a orizzonte non può che essere quella meraviglia che cerca chi in Islanda ci arriva deliberatamente, per un atto, una scelta. Perché cerca qualcosa. Una totalità che sembra esteticamente studiata per donarci quelle composizioni che sognano pittori e fotografi, cineasti del gigantesco come Villeneuve o Nolan. A questo punto di arrivo sembra mirare l’Islanda, a questa esperienza ultima, che poi però risulta inconciliabile con la vita quotidiana, di per sé incompleta, imperfetta. E che quindi cerchiamo nel viaggio o nell’arte, come esperienza oltre l’esperienza, fisica oltre la fisica.

La più forte testimonianza di questa potenza titanica arriva quando si parte per l’isola di Heimaey. Sistemate le automobili nella nave, possiamo salire a bordo. Molti i turisti, forse qualche locale, guardano dai finestrini, mentre la nave si allontana dal molo. Usciamo all‘esterno, fino ad arrivare a prua.

Il tratto di mare verso Heimaey (cortesia dell’autore, licenza CC BY-NC-SA 2.0)

Ho sempre pensato che le montagne fossero l‘incontro col gigante, con quello spazio infinito che ci fa sentire contemporaneamente minuscoli, ma anche parte di qualcosa di più grande, di immenso. Sbagliavo. È Heimaey a spiegarci, con un vento insostenibile, con una prua che si muove in alto e in basso – e noi con lei -, con gli spazi infiniti dell‘oceano, quelli cantati da Murubutu, perché gli antichi consideravano il mare un Dio. Rimaniamo in pochi lì, a congelarci, agganciati alla balaustra, mentre la nave decide esattamente cosa fare del nostro baricentro, quando e come ci troveremo qui piuttosto che là. Di fronte si apre una immensità marina, increspata dal solito, fortissimo vento e colorata di un blu metallico, mentre l‘isola si avvicina. Siamo in balìa del naturale, dei suoi moti. Ed è un‘esperienza potentissima, terrificante e meravigliosa. Questo, in un mare che appare calmissimo. Dio solo sa cosa possano provare gli esseri umani sorpresi da una tempesta oceanica. Sturm und drang.


Altre vite

Approdati a Heimaey, ci troviamo nella piccola cittadina di Vestmannæyjar. Qui sembrano esserci, grossomodo, tutti i servizi, comprese le onnipresenti poste islandesi. Ciò che colpisce con forza è, però, la radicalità di quella che potremmo presupporre essere il modo di vivere qui, nell’isola lontana all’interno di un’isola lontana quale è di per sé già l’Islanda. Come si potrà mai vivere in un luogo così meraviglioso e sperduto?

Dopo un breve tragitto in auto, arriviamo al nostro ostello, l’Aska. Questo si presenta tutt’altro che allettante, dall’esterno, ma una volta entrati vi troviamo un ambiente accogliente e familiare. Gioca a nostro favore, di nuovo, il fatto di essere gli unici ospiti. Non incontriamo neanche i proprietari dell’ostello, per quella tendenza islandese a lasciare le chiavi degli ospiti in cassette dedicate, alimentando in noi quel senso di “casa” che è così forte quando si viaggia assieme in luoghi isolati. Il tempo è poco, perché si deve andare a mangiare e – l’abbiamo capito – agli islandesi piace cenare presto.

Ci troviamo così in un piccolo ristorante. Ci accoglie una cameriera che poi scopriamo essere spagnola. Uno dei tanti, assurdi e affascinanti modi di vivere che trovano uno spazio in Islanda. Lei, ci racconta, vive qui sei mesi l’anno, quelli evidentemente più turistici. La cena non è granché ma il luogo è accogliente. Finiamo di cenare ma per diversi di noi la serata non finisce. Ci troviamo in un piccolo pub locale, completo di biliardo. All’interno, diversi signori di mezz’età e un gruppo di ragazzi. Compriamo qualcosa e basta poco tempo per ritrovarci a chiedere alla barista di mettere qualche canzone italiana. Sì, quel tipo di canzoni (Azzurro, per capirci). Il risultato è quello di trovarci assieme ai ragazzi – pescatori islandesi, ma anche di altri paesi – a cantare il peggio della musica anni Cinquanta. Scambiamo qualche parola con loro, su come sia il loro lavoro – ci mostrano qualche foto e video, ci danno consigli per avvistare l’aurora e le balene – ma facciamo anche small talking. Tra le altre cose, ci troviamo a cantare, in maniera discretamente stonata, Con te partirò di Bocelli. In Islanda. Surreale. Abbiamo italianizzato il pub in pochi minuti. E i locali sembrano parteciparvi volentieri, anche se l’alcol potrebbe aver contribuito alla loro socialità.

È affascinante poter toccare con mano modi di vivere così distanti, a tratti radicali, ed è questo, immagino, un lascito importante di viaggi del genere: ti donano un’alternativa. Ti dicono che la vita non è tutta qui, non è necessariamente questa che stai vivendo e dunque non devi adattarti e viverla come puoi, ma c’è una scelta. Questo è particolarmente vero per noi, a contatto col modo islandese, per quanto quest’ultimo emerga solo come un’eco, ai nostri occhi: l’idea che si possa vivere con meno, vivere meglio. Un risultato forse dell’essere ai margini dell’Europa, dove tutto è acquisito con fatica; o forse dell’essere circondati da una commovente bellezza. È però anche una filosofia di vita, un modo di stare al mondo che mette al centro di tutto la vita personale, gli affetti, e solo dopo il lavoro. Dall’alto della nostra produttività acquisita a forza, imitando il modello americano, questo modo di vivere non può che porci degli interrogativi sul senso delle cose. Torniamo infine al nostro ostello, tenendo un occhio aperto per controllare se l’aurora boreale è così gentile da apparire. Solo un occhio, però.

Dopo la consueta produzione industriale di caffè per tutti, da parte della premiata ditta Giulia “Marina”[6] & Co., il giorno seguente ci ritroviamo ad esplorare l’isola, prima di ripartire. Se dovessi pensare a un luogo dove passare serenamente gli anni della pensione, non posso che pensare allo spettacolo che ci si apre di fronte quando arriviamo sulla costa. Quello che era prima un paesello portuale senza troppe attrattive lascia spazio a un campo da golf sull’oceano. Collinette verdi che si affacciano su scogli neri, accatastati su di un mare blu elettrico, increspato e vivo. Sulla destra, una parete verde muschio e nero vulcanico. Un angolo di mondo di una bellezza commovente, un ameno di ghiaccio e sale. Restiamo lì per un po’, tempo che Gaetano si faccia inzuppare da un’onda, caritatevolmente ripreso in un video che rimarrà nei nostri annali privati. Poi ripartiamo.

Il terreno su Heimaey (cortesia dell’autore, licenza CC BY-NC-SA 2.0)

Bisogna visitare il vulcano, ma il tempo stringe. Quindi saliamo, mentre fallisco miseramente nello spezzare il fiato, armato delle racchette prestatemi prima del viaggio, fortunosamente (grazie Andra). La salita non è ripida, però richiede attenzione, specialmente per via del terreno vulcanico, composto da rocce porose e friabili. Ne prendo qualcuna, sembrano souvenir bellissimi. Meno belle, però, le carceri islandesi – sottrarre rocce o sabbia dai luoghi dove si trovano, scopro, è illegale. Le lascerò più avanti, perché la bellezza va rispettata, ed è rassicurante pensare che quelle rocce rimangano lì per il prossimo viaggiatore meravigliato. O forse sarà il fatto che già sento avvicinarsi la sirena dell’unica volante di polizia islandese.

È qui che, però, c’è anche una possibilità di condividerla, quella bellezza. So che Marina, che viaggia con noi, ha lasciato a casa la sua reflex. Le offro di farle fare qualche scatto con la mia. Di scatti ne ho tanti ed è bello anche vedere gli altri fotografare. Ci scambiamo qualche parere e rallentiamo il gruppo – il che è il vero segnale della presenza di appassionati di fotografia in qualsiasi trekking. Giriamo attorno al vulcano, per poi riprendere rapidamente la discesa, rocce permettendo. È il tempo di riaffrontare l’oceano. Si torna sull’entroterra.


Fotografare ed esperire

La vista dal sito del relitto della spiaggia nera (cortesia dell’autore, licenza CC BY-NC-SA 2.0)

Una volta scesi a terra, siamo pronti per la nostra prossima meta: il relitto della spiaggia nera. Si tratta di un aereo C-117 dell’aviazione americana, atterrato fortunosamente sulla spiaggia nel 1973, e lì rimasto da allora[7]. Gli islandesi ne hanno ricavato un luogo turistico. In balìa di un vento gelido, ci riuniamo al punto di ritrovo, in attesa del mezzo che ci porterà alla spiaggia. Il tragitto sarebbe breve, ma il tempo è poco, quindi, decidiamo di pagare il solito prezzo islandese per farci trasportare fin lì. Presto mi accorgo che il costo è però legato anche alla particolare esperienza lungo il tragitto: ci troviamo di fronte a un mezzo anomalo, delle dimensioni di un minibus, ma massiccio e attrezzato di ruote enormi. Una volta pagato il conducente, saliamo. Il mezzo parte sussultando, con un rumore assordante.

Lo scenario che ci troviamo di fronte è lunare. Le piccole rocce nere e porose del vulcano hanno lasciato spazio a una sabbia fine, ma altrettanto nera. Le scarpe affondano leggermente nel terreno, disseminato di piccoli sassi levigati. Sullo sfondo, il relitto, un troncone dell’aereo dotato di ali. Ancora più avanti, una spiaggia su cui le onde si posano con delicatezza. Siamo davvero fuori dal mondo.

Arriviamo nei pressi dell’aereo, un luogo ideale per dei selfie da viaggio, ma anche per qualche foto di gruppo, e magari uno scatto più particolare. Certo, il relitto si presta bene: accetta placidamente che ci si sieda sulle sue ali e che vi si cammini all’interno, ormai spoglio di tutta la componentistica presumibilmente già rilevata dall’aviazione americana. Sullo sfondo, opposto al mare, il Vatnajökull, il ghiacciaio che lentamente si ritira, ma che copre ostinatamente ancora oltre il dieci per cento del territorio islandese.

I segni dell’attività turistica sull’aereo ci sono – scritte, lucchetti –, ma tutto sommato non deturpano il velivolo e la sua memoria. È questo un altro indice della bellezza soverchiante dell’Islanda. I turisti sono certamente pochi, perché la natura ostica della meta richiede un certo grado di deliberatezza nello sceglierla; von vi si arriva, credo, mai per caso. L’esclusione di chi vorrebbe essere lì ma non può permetterselo fa il suo triste resto. Però, al di là di questo, la bellezza dell’Islanda sembra intimidire, rendere impossibile che vi si lasci sporco in giro, che la si deturpi. Gli islandesi ne fanno un concetto da comunicare ovunque possibile, ma forse è proprio la commozione di un così feroce splendore a completare l’opera.

Bisogna, però, ripartire. È tempo di Skogafoss, un’altra cascata, ancora diversa dalla precedente.

Skogafoss, a differenza di Gullfoss, non è l’orrido, lo scontro tettonico tra due pareti in cui si l’acqua si getta con furia. Vi saliamo accanto, tramite una scalinata che sembra interminabile, l’ammiriamo dall’alto, da terrazze in grata metallica (stupidamente, non riesco a sedermi a terra, perché mi sembra di star cadendo nel vuoto. Come se stare in piedi facesse qualche differenza!). L’insegnamento più profondo, però, lo si apprende dal basso, passeggiando lungo il torrente che si genera alla base della cascata.

Skogafoss, molto più piccola di Gullfoss, resta una cascata imponente. Vi si potrebbe, però, anche se solo teoricamente, anche arrivare sotto. Non possiamo, perché i vapori generati dall’acqua ci bagnerebbero dalla testa ai piedi ancor prima di poter arrivare tanto vicini da essere colpiti dal potente getto della cascata. Molti però riescono ad avvicinarsi tanto da ottenere uno scatto di sé, armati di k-way, appena davanti al fenomeno. Mi avvicino, coprendo l’obiettivo come posso, tentando di appoggiarmi alla parete per ottenere uno scatto migliore, l’angolo più interessante, la posizione più stabile. Provo e riprovo, elettrizzato dall’energia generata dal mostro.

Però poi smetto di guardare alla cascata attraverso l’obiettivo o sullo schermo, e la vedo con tutta la forza dello sguardo umano, ascoltandone il fragore, annusando l’aria umida. Respirando. Non è un caso, forse, che si dica spesso che le fotografie non potranno mai rendere l’impatto possente di una qualsiasi esperienza. Forse è la deliberatezza dell’atto, l’essere stati lì, o semplicemente l’essere stati¸ l’aver fuso le esperienze del luogo e dell’io, l’aver intrecciato almeno una volta le direttrici proprie con quelle altrui, con quelle del luogo e del suo significato. Fabio lo dirà più volte durante il viaggio: non scatta foto, o ne scatta poche, perché vuole viversi l’esperienza. Pirandello ci ha scritto un racconto affascinante, Serafino Gubbio operatore, su questi temi. Sean Penn ne parlerà proprio in un film parzialmente ambientato in Islanda, I sogni segreti di Walter Mitty: “certe volte non scatto”. Dovrò ricordarlo: non siamo lì per scattare foto, siamo lì per essere lì, e di conseguenza provare qualche scatto. Testimoniamo la vita, non la acquisiamo. La lasciamo lì, proprio come le rocce vulcaniche islandesi.

La vista dal faro di Dyrhólaey (cortesia dell’autore, licenza CC BY-NC-SA 2.0)

Prima di arrivare al nostro prossimo alloggio, c’è tempo per una visuale dall’alto. Saliamo, per arrivare al faro di Dyrhólaey. È sera e il sole sta calando. Di fronte a noi si apre un infinito di mare, sabbia nera e verde. Qui, anche lo sguardo non basta: non può abbracciare quello scenario sconfinato. Ci muoviamo in silhouette, mentre il sole cala, immersi in quella meraviglia multicolore. Riscendiamo e ripartiamo alla volta della Klausturhof Guesthouse, tra Vík í Mýrdal e Hof. Vi arriviamo col buio, dopo un tour de force che mi ha riempito l’anima.


Aurora

Recuperiamo le chiavi e ci dividiamo le stanze. Sempre di fretta, perché ovviamente il ristorantino della guesthouse chiuderà presto. Poi accade.

L’aurora (cortesia dell’autore, licenza CC BY-NC-SA 2.0)

Nel cielo buio appare un primo alone verde, in fondo al cielo, sulla sinistra. Con Dylan, l’altro fotografo del gruppo, corriamo a recuperare tutto il materiale possibile. Treppiedi compresi, ovviamente. A cosa serve cenare? Siamo tutti lì, a guardare il cielo che lentamente si illumina, da un estremo all’altro dell’orizzonte. Non è un’aurora particolarmente cinematografica, ma è la nostra aurora. L’emozione è fortissima, tra gli “oooh” di quegli umani che hanno ormai condiviso una bella fetta del viaggio. Rimango sdraiato per terra, sotto il treppiedi, alla ricerca di uno scatto accettabile, mentre vedo Dylan vicino che armeggia come me. Gli altri sono attorno, cercano di scattare foto o semplicemente si godono il momento.

Per tutti è la prima volta che vediamo l’aurora, ma mi chiedo come si senta Guido, che l’ha un po’ inseguita in altri viaggi in Scandinavia, e finalmente la vede. Siamo tutti visibilmente emozionati, soli e insieme, in questo angolo fuori dal mondo, mentre l’aurora si libra nel cielo. Mangiamo, ma poi il bisogno è più forte, e ci ritroviamo di nuovo lì, nei pressi di un ruscello di cui non sospettavo l’esistenza e nel quale sono certo finirò per cadere. Anche Dylan è lì, ma dopo un po’ si sposterà, ormai segnalato solo da una luce rossa montata in testa, sperdendosi nella brughiera islandese. Mi chiedo vagamente se lo rivedremo mai, ma siamo tutti alla ricerca di qualcosa, qui, ognuno a modo suo. Rimaniamo da quelle parti per un po’, prima di andare a dormire. Finalmente l’aurora! Forse non ci credevamo ancora neanche noi. La meraviglia si era formata sopra di questo gruppo assortito di donne e uomini, dovevamo ancora elaborarlo. Forse non basterà una vita.


Canzoni di benvenuto

Canzoni di benvenuto (cortesia dell’autore, licenza CC BY-NC-SA 2.0)

È solo all’arrivo del giorno che scopro dove siamo effettivamente. Capita spesso, perché arriviamo troppo tardi per poter vedere il paesaggio attorno a noi. La guesthouse si trova, infatti, accanto a una piccola cascata. Al di sotto, alcune panchine per picnic. Sarebbe stato carino mangiare lì. Peccato.

Ripartiamo alla volta di un canyon, ma sulla strada decidiamo di scambiare auto. È ormai una consuetudine di questo viaggio: cerchiamo di far stare tutti con tutti, di conoscerci, di presentarci. Una cosa bella, anche se cozza con personalità di qualcuno di noi, me compreso. È così che mi trovo in auto con Giulia “Marina” e scopro una consuetudine ideata da lei e da Giulia “Londra”. Si tratta della “canzone di benvenuto”, per far sentire a suo agio chi si fosse ritrovato nella loro auto (sono tra le guidatrici designate, in accordo con WeRoad). Immaginavo una canzone “scema”, per scherzare, e invece subito mi colpisce una fitta: è Hoppípolla, una canzone di una bellezza e di una dolcezza commovente, frutto di quella benedizione che è la band islandese Sigur Rós. Conosco bene quella canzone, non solo perché la band è stata consigliata nella chat del gruppo, ma perché li seguo da un po’, ed è stato amore a prima vista. Il calore, la dolcezza e la profondità malinconica che i Sigur Rós sanno esprimere è la cosa più vicina che possa esistere, nel mondo dell’arte, a una fotografia della felicità.

Sorrido e filmo, perché questo è un piccolo momento da riservare per il futuro. Diventerà uno di quei tanti, brevi video in cui ho provato a catturare uno stralcio di vita, una breve conversazione, un paesaggio che scorre all’orizzonte mentre viaggiamo in auto, una partita a carte. Perché, per citare American Beauty, “ho bisogno di ricordare”. I rumori, le voci di un video non potranno mai essere soppiantati, da questo punto di vista, da una foto. E meno professionale è il video, più amatoriale è, più sarà capace di trasmettere il messaggio. Il messaggio è che c’è vita oltre la foto, che qualcosa è stato, e anche se non tornerà, ne è valsa la pena. Perché quello che è stato poi diventa memoria, anche se l’unico modo di celebrarlo è di crearne di nuove, di memorie, di fotografie, di stralci di vita.

Arriviamo al ghiacciamo, è ora di salire.


Il ghiaccio e il tempo

È uno dei momenti che attendevamo: la salita sul ghiacciaio Vatnajökull, il più grande d’Europa. Ci troviamo nel bel mezzo del nulla, nei pressi di una casetta. Le guide che ci porteranno sul ghiacciaio ci mostrano l’attrezzatura che utilizzeremo: piccozze, ramponi, caschi e imbragature – queste ultime, solo per sicurezza, ci dicono. Prendo anche un paio di pantaloni antivento, visto che con i miei sto congelando. Sono giallo fluorescente, ma pazienza: l’Islanda fa ben capire che a volte la comodità è più importante dell’essere fotogenici. Ci armiamo di tutto e dobbiamo risalire sulle automobili. Con tutto l’armamentario sembro un reporter in zone di guerra e a stento entro in macchina, ma arriviamo presto al parcheggio dal quale proseguiremo a piedi. Scendiamo.

Di qui inizia il trekking per arrivare alla base del ghiacciaio. Lo scenario è quello di una brughiera: la terra scura è punteggiata di arbusti con fiori dai colori accesi, rossi e gialli. Il muschio verde fa la sua parte nel rendere il cammino splendido, denso di atmosfera. Sulla strada mi fermo ogni tanto a scattare qualche foto del gruppo, e non posso non pensare a come sembriamo, tutti, esploratori di quelli che si vedono nei documentari o nelle foto della National Geographic. L’Endurance attraccata a Reykjavík aveva anticipato quest’idea, ma qui ci sentiamo davvero parte di un progetto più significativo. Complice in questo è forse anche l’attività del giorno, che appare più impegnativa, tecnica e pericolosa delle altre.

Sulla strada per il ghiacciaio (cortesia dell’autore, licenza CC BY-NC-SA 2.0)

Noi però non siamo esploratori. Siamo viaggiatori paganti, che si sono potuti permettere questo privilegio. Questo pensiero mi accompagna per il viaggio: possiamo davvero definire come la nostra vita ciò che è fondamentalmente un bene o servizio che ci troviamo ad acquistare? Possiamo andare orgogliosi di qualcosa che non è risultato del nostro talento o delle nostre capacità, e che non è in qualche modo integrato nelle nostre vite, ma è al di fuori? Se siamo qui senza memoria e senza futuro, questo viaggio più dirsi nostro, quanto lo è per professionisti riconosciuti come esperti capaci di riportare indietro qualcosa alla società, qualcosa che vale la pena di essere sostenuto con le risorse di tutti? La nostra vita è altrove, in quella porzione di mondo che abbiamo lasciato a casa, alla quale forse siamo più debitori che creditori, perché il dono, che un esploratore porta di norma alla comunità, è invece stato fatto a noi. Cosa farne, di questo dono?

Arriviamo alla base del ghiacciaio, e ci appare fin da subito, nella sua triste evidenza, quanto ciò cui stiamo assistendo sia proprio un dono, ma che questo presto sarà negato ad altri. La guida prova ad alleggerirci tale rivelazione, scherzandoci su (“è un problema, dato che questo è il mio ufficio”), ma il fatto è di fronte ai nostri occhi: un lago è l’unico indizio rimasto dell’estensione originaria del ghiacciaio, che ora inizia decine di metri più indietro. Un giorno arretrerà ulteriormente, a causa dei cambiamenti climatici. E chissà dove sarà ancora più tardi, aggiunge la guida. Gli altri cui questo dono sarà negato sono tutti coloro che vorranno, in futuro, visitare questo splendido luogo. Certo, noi alpinisti improvvisati non vediamo che una salitella – ci vorrebbero giorni per attraversare il vero ghiacciaio, che si trova sopra di noi. La notizia rimane però a monito della bellezza che stiamo lasciando scomparire.

L’ascesa è rapida e tutto sommato indolore. I ramponi fanno il loro dovere, ancorandoci saldamente al suolo, ma bisogna pensare prima di camminare. Il ghiacciaio è un blocco ruvido, composto da miriadi di pietruzze affilate. Scivolare giù sarebbe poco piacevole. L’effetto del terreno è però stupefacente. Mentre saliamo, microscopici rivoli d’acqua azzurro chiaro scorrono giù per il ghiacciaio, donandogli moto e luce. Partecipiamo anche alla molto turistica “bevuta vichinga”, un plank da effettuare sopra un rivolo per bere l’acqua direttamente da lì. Nel frattempo, scattiamo diverse foto, anche se nel mio caso si tratta principalmente di foto del gruppo. Il ghiacciaio non è esattamente l’attrazione più fotogenica dell’Islanda, almeno nel tratto che vediamo noi.

Scendiamo, di nuovo, un po’ in fretta. La visita successiva è stata anticipata causa maltempo in arrivo (duh!), quindi bisogna correre. Lasciamo l’attrezzatura, ringraziamo le guide, scappiamo verso la Laguna glaciale.

Arriviamo trafelatissimi, appena in tempo per poter prendere i giubbotti di salvataggio, indossarli, e salire su di una strana barca con le ruote. È il nostro mezzo anfibio che, ballonzolando, ci porta verso la laguna. Sull’imbarcazione, una guida veneta – sì, veneta, come diavolo sia finita lì resta per me un mistero – ci spiega le regole di sicurezza. Finché l’imbarcazione entra in acqua. È qui che ci troviamo a navigare, lentamente, in un altro pezzo di ghiacciaio che non c’è più, ma che ci ha lasciato una meraviglia unica in Europa. Attorno a noi, i blocchi di ghiaccio di un colore azzurro chiaro sembrano scolpiti dal vento. Lo scenario è meraviglioso: con le loro figure dinamiche, si stagliano sullo sfondo del Vatnajökull. È un dipinto naturale di gradazioni di blu e un paradiso per le decine di fotografi che si ritrovano sulla spiaggia della laguna. Qui come sul traghetto per Heimaey, il movimento rende più difficile scattare foto, ma non così arduo come sarà a Husavík. Tutto sommato la laguna è calma, l’atmosfera rilassata e ogni tanto, nell’acqua, spunta qualche foca. La guida ci spiega che questi animali non temono predatori, nella laguna, e quindi spesso si spostano qui. L’ultima aggiunta di uno scenario perfetto.

Un’altra immagine della laguna glaciale (cortesia dell’autore, licenza CC BY-NC-SA 2.0)

È a riva però che la laguna offre il suo meglio. Mi trovo da solo, accucciato, a filmare l’acqua che con dolcezza accarezza in piccole onde la sabbia nera, con gli iceberg sullo sfondo, a una decina di metri di distanza. Attorno, un leggero vociare, ma sono in sindrome di Stendhal. Non sento quasi nulla, solo le onde che con calma arrivano e tornano indietro, come si trattasse di una piscina naturale offertaci così, serenamente. Sarà che sognavo proprio un luogo così, ma è di una bellezza commovente. Ogni tanto, quando passa un compagno di viaggio, lo fermo e lo faccio sedere con me per qualche minuto, per condividere quella sensazione di pace, quel breve momento di meditazione. Il sentire il respiro che si allinea all’andare e tornare delle onde. Loro ascoltano, partecipano, prima Fabio, poi Tiziano, Gabriele e Luca. Posti così ti cambiano davvero, perché dopo non si può davvero più dubitare della bellezza. “È la cosa più meravigliosa che abbia mai visto”, dico a Luca e Gabriele. Sono tra i più sensibili del gruppo, quindi non serve aggiungere altro.

La bellezza islandese, però, è cosa da conquistare. E, infatti, puntuale come la morte, arriva il maltempo che ci aveva costretti ad anticipare il giro. In stile islandese, si tratta di una bufera, un vento terrificante che rende difficile anche camminare. Ci avviciniamo alle automobili, ma diventa problematico anche riunirci, sparsi come siamo. Alla fine, mentre con circospezione ci muoviamo nel parcheggio, siamo in auto. Partiamo, salutando una meraviglia che dovrò sicuramente rivedere, prima o poi.


Intimità e bellezza: due giorni a Höfn

Un cavallo a Höfn (cortesia dell’autore, licenza CC BY-NC-SA 2.0)

In serata arriviamo, stremati, a Höfn, un paesino nel sud-est del paese. Mangiamo in un ristorante locale – vi troviamo i deliziosi hamburger di renna – e ci rechiamo alla guesthouse Dyngja, dove passeremo la notte. Tempo di una doccia, poi a dormire.

L’indomani, però, una volta messici in marcia, troviamo sulla strada un veicolo della protezione civile islandese. Strada chiusa, ci dicono. Mezzi più pesanti del nostro sono stati spostati dal vento e sono usciti di strada. Il vento – vinður in islandese – non perdona. Ci rifugiamo quindi in un supermarket del posto, dove facciamo scorta di cibo, prodotti igienici e souvenir. Sento voci di corridoio – “incontrollate e pazzesche”, avrebbe detto Villaggio – che raccontano di operazioni segretissime: in quei giorni Fabio festeggia il suo compleanno, e stiamo cercando un regalo, dolci, piatti, tutto il necessario perché lo passi come si deve. Nel frattempo, però, cosa fare?

Tornati alla guesthouse, Tiziano e WeRoad si mettono in moto – con una calma invidiabile – e trovano la soluzione. Si tratta di un ostello lì vicino, che raggiungiamo in breve tempo. È la guesthouse Hafnarnes, più isolata della prima, ma graziosa e accogliente. Si affaccia su di un fiumiciattolo, che scorre lento al suo fianco. Dentro siamo solo noi. È qui che passeremo due giorni interi, perdendo qualcosa del tragitto pianificato, ma aggiungendo molto di più.

Una convivenza così piena, non limitata ai ritagli di tempo prima di dormire, crea un legame particolare. Si respira come aria di casa, si passa il tempo assieme, facendo qualche foto ai cavalli lì vicino, giocando a carte, parlando. Ci si scambia anche doni musicali, perché mi metto sul letto ad ascoltare i Sigur Rós, ma poi non posso non condividere quella meraviglia di album che è Valtari, facendolo ascoltare anche a Virginia. Quando mette le cuffie, i suoi occhi si illuminano. È lei a donarmi poi una canzone meravigliosa, che porto via con me: Cendora, dei Staindubatta. Dove vanno a finire quelle sensazioni che la musica irradia così potentemente? Decadono col tempo o si rinnovano? Mistero.

È così che il tempo sembra non passare mai, che si manifesta in tutta la sua potente bellezza quella bolla, quell‘essere fuori dal tempo e dallo spazio che abbiamo vissuto. Fabio lo aveva chiamato un limbo, e così appare anche a me: se a Reykjavik non avevamo passato né futuro, qui sembriamo gli uomini e le donne di A porte chiuse di Sartre o di qualche puntata di Black mirror. Mentre, però, in Sartre e in Black mirror, i personaggi sono lì spesso per scontare una pena, qui troviamo solo umani che stanno condividendo uno spazio fuori dalla propria vita. Quasi viene da sperare che questo tempo non finisca mai. È in fondo questo, essere ai confini del mondo, quasi galleggiare in una dimensione eterea, senza peccato e peccatori. Hoppípolla, con le sue atmosfere, ancora vibra nell‘aria di quello strano incontro. È in quest‘atmosfera che festeggiamo il compleanno di Fabio, a sorpresa, condividendo una cosa bella, come ci conoscessimo da una vita. Tutto viene naturale, senza remore o frizioni. Siamo davvero la migliore parte di noi stessi, qui.

Il mondo è però lì fuori. Si arriva a parlare di politica, e subito non siamo d‘accordo. Perché parlarne proprio qui, dice Giulia “Marina”. “Perché non qui, invece?”, penso. In fondo è anche questa vita, oppure è davvero solo un limbo di felicità, una parentesi all‘interno di un‘esistenza insoddisfatta, la nostra? Che il mondo è là fuori, d‘altra parte, lo sappiamo: è in quei giorni che arrivano le prime notizie delle elezioni in Italia, dove la Meloni sta conquistando le urne. Che tutto ciò ci riguardi da vicino lo sanno bene Luca e Gabriele, che rimangono agitati per tutta la sera. Se davvero questo viaggio è importante, è perché deve lasciarci qualcosa di profondo che possiamo portare in dono a casa, dove qualcuno ci aspetta. E che possa avere seguito anche dopo che saremo fuori dal limbo. Altrimenti, perché viaggiare?

Passiamo due giorni così, giocando a carte e andando alla vicina piscina comunale. Come fossimo a casa e – contemporaneamente e in maniera assoluta – come fossimo lontani da casa. Una sensazione agrodolce, come una nostalgia di casa e una malinconia in fieri di ciò che stiamo vivendo. Un sentire che è forte soprattutto alla sera, quando ci troviamo a parlare sottovoce, mentre tutto dorme, tentando di asciugare i vestiti. In questo caso, con Marina.


Messaggi ai viaggiatori

La diamond beach (cortesia dell’autore, licenza CC BY-NC-SA 2.0)

La strada è stata parzialmente liberata e anche qui si manifesta la natura provvidenziale del blocco a Höfn: perché non visitare la Diamond beach, che avevamo perso per strada? Vi arriviamo in macchina ed è difficile descriverne la bellezza. Le onde si infrangono sulla battigia e su blocchi di ghiaccio depositati sulla spiaggia nera. Dietro di noi, un vento fortissimo che ci lancia addosso tutta la sabbia possibile. Difficile scattare foto, difficile anche provarci. Eppure ci riusciamo, perché questo luogo ha davvero del meraviglioso. L‘acqua ci arriva spesso addosso, anche a decine di metri dalla battigia, facendo entrare acqua gelata nelle scarpe. Ma non importa. Non oggi. C‘è troppo, attorno a noi, da guardare avidamente.

Il peso del viaggio inizia però a farsi sentire. Quello spazio effimero rischia di spezzarsi, infranto lentamente dal pensiero del ritorno a casa. Lo sappiamo bene io e Dylan, perché forse è per noi che questo ritorno appare più pesante che per altri. Lo dice bene Fabio, di nuovo: questo legame è facilmente destinato a rimanere effimero. Di quanti, d‘altra parte, abbiamo mantenuto i contatti nella nostra esistenza? In quanti luoghi abbiamo posato le scarpe, anche per anni – classi, luoghi di lavoro, case – per poi non vedere più quasi tutti, se non tutti, gli esseri umani con i quali eravamo entrati in contatto?

Messaggi ai viaggiatori (cortesia dell’autore, licenza CC BY-NC-SA 2.0)

Su di una parete della guesthouse di Höfn c‘è una bacheca che ha del commovente. Messaggi, decine, di viaggiatori provenienti da tutto il mondo, che in quel pianeta effimero e fragile sul quale siamo atterrati a Höfn hanno voluto lasciare una traccia di sé. Perché ciò che era stato non svanisse, perché si potesse resistere ostinatamente all‘incedere del tempo. Lascio anche io un mio messaggio. Perché la bellezza non si può vedere, si può solo testimoniare. E lo si fa condividendola con i compagni di viaggio e con chi ci attende a casa.

Ripartiamo.


La vita stessa

Il viaggio è un tour de force, da qui fino a Husavík. È qui che potremo entrare in contatto con un simbolo della potenza della vita stessa: le balene. Le aspettiamo tutti da un po‘, e quando saliamo sulla nave, all‘interno di una tuta che sembra uno scafandro, siamo piuttosto euforici. La piccola barca è in preda a un continuo rollio, ma, complici anche le medicine contro il mal di mare, non ne sentiamo troppo l‘effetto. È qui che le doti del fotografo sono messe più alla prova: siamo molti, ancorati alle ringhiere che ci dividono dall‘oceano, in attesa di uno sbuffo sull‘acqua. Che arriva dopo un po‘, ma tra il rollio della nave, i suoi spostamenti per avvicinarsi alla balena e i trentamila ostacoli per terra, è più facile sbattere i denti su di un qualsiasi punto della nave che scattare una foto. Elusivi, questi giganti, che noi istintivamente chiamiamo “piccola”, perché troppo forte è l‘affetto che ispirano. “Piccole”. Loro. Che sono più grandi della barca su cui siamo.

Una delle balene avvistate (cortesia dell’autore, licenza CC BY-NC-SA 2.0)

Ottengo qualche scatto decente e scarico la batteria della macchina fotografica più volte – questo accade quando si scatta col freddo, a volte la batteria pare scarica ma non lo è. Poi, capendo che è più facile godersi la scena che riuscire a fotografarla, mi metto l‘anima in pace. Soprattutto, posso vedere la vera bellezza di questo viaggio, proprio mentre si manifesta. Straordinarie le balene, ma su qualcuno di noi, la medicina per il mal di mare sta scatenando uno dei suoi effetti indesiderati: una forte sonnolenza. Un fatto di per sé irritante, perché chi lo subisce rischia di perdersi l‘esperienza di una vita. Ma è anche un concreto pericolo, perché poco ci vuole, anche da svegli, a finire per cadere da qualche parte. Ci pensano però alcuni di noi, soprattutto Guido e Dylan, a sedersi accanto a chi sta crollando. In uno dei momenti più intensi del viaggio, loro sono lì a prendersi cura degli altri.


Arrivederci

È così che il viaggio volge al termine. Non prima, però, di una cena di arrivederci. Ho già salutato chi di dovere in separata sede, ma la sera a Reykjavik è il momento in cui viviamo tutti l‘ultimo momento assieme. Non è un caso che Dickens abbia dedicato così tanto del proprio lavoro proprio alla convivialità, allo stare assieme. E che Bergmann l‘abbia elevata in maniera così potente, nel suo Settimo sigillo, addirittura come arma contro la morte. Perché prima, citando Sorrentino, “c‘è stata la vita”. E quindi lo scenario islandese, nel suo testimoniare in maniera così commovente la resistenza della vita anche contro il buio, contro ogni aspettativa, sembra quello ideale per ritrovarsi in un piccolo pub, a mangiare assieme. Ci salutiamo, passando quegli attimi di normalità che sono la testimonianza più potente dell‘importanza della vita umana. Non è un caso, anche qui, che questi siano gli ultimi momenti di un film straordinario come Don‘t look up!

Una volta conclusa la cena, dopo il discorso del nostro coordinatore, è ora di tornare all‘ostello Loft Hi, dove ci eravamo incontrati per la prima volta. Mentre ci abbracciamo e ci salutiamo, Gaetano, che ci aveva svegliati per tutto il viaggio, pescando su YouTube la canzone per bambini La famiglia squalo, ora sceglie al meglio. È di una dolcezza disarmante risentire, da adulti, la Canzone della buonanotte. Siamo tutti un po‘ storditi, ma tutto sommato felici.


La parte migliore di noi

È così che, assieme ad Andrea e a Riccardo, partiamo per prendere l‘aereo. Siamo gli unici a partire subito, quindi non abbiamo neanche il tempo di dormire, ma ormai siamo temprati.

Il viaggio è breve, ma non lo è altrettanto l‘attesa per lasciare le auto. Ci organizziamo per affrettare i tempi, perché Andrea e Riccardo avranno a breve il volo. Così, di corsa, arriviamo all‘aeroporto e, dopo un saluto veloce, partono di corsa. Resto da solo.

È lì che si manifesta di nuovo la maledizione della KLM. Arrivato al check-in, semplicemente, non sono sulla lista dei passeggeri. Passano minuti di nevrosi, chiamate al call center della compagnia, prenotazioni varie e, attorno alle dieci di mattina, mi ritrovo nella hall del costosissimo hotel dell‘aeroporto. Con ventisei ore di veglia sulle spalle e una bomba emotiva da elaborare. La receptionist vede che sto per addormentarmi sul divano della hall, quindi in un gesto di misericordia mi lascia entrare in camera. Entro, sfatto, e di lì a poco crollo.

Inizio però anche a elaborare tutto ciò che è passato. Non tutto è andato come speravo, e questo mi lascia con un senso di angoscia nello stomaco. Penso a ciò che troverò a casa, al netto del piacere di ritornare dalla mia famiglia. Però, col passare delle ore, ripenso anche a quanto la bellezza di quei momenti sia valsa la pena di vivere il dispiacere di non vederli tornare. Lentamente, dalla nostalgia, emerge e prevale la felicità contagiosa e la contentezza di averla vissuta. Di quei ricordi che stanno diventando legami. Comunque sia andata, ne è valsa la pena. Citando Verdone, “ne è valsa veramente la pena”.

A ultima testimonianza, perso come Tom Hanks in The terminal, ho l‘occasione di incontrare di nuovo Marina, Francesco, Giulia “Marina”, Guido, Gaetano, Virginia e Michele. È come una seconda chance, un incontro inaspettato e commovente – abbiamo tutti gli occhi lucidi, specialmente Francesco. È qui che Giulia “Marina” scatta una foto più bella delle oltre milletrecento che mi porterò a casa con la mia reflex. Non è tecnicamente eccellente, non riprende il ghiacciaio più grande d‘Europa, ma è una foto ci ritrae tutti, sorridenti, prima di salutarci. È stato, dopotutto, un fatto consueto di questi giorni: che le foto animate da persone siano state più belle, anche se meno tecniche, di quelle in cui a essere ritratto era esclusivamente il luogo. Perché c‘è vita, e finché c‘è vita, solitamente, c‘è speranza. È la bellezza di aver condiviso qualcosa, così che le fotoricordo acquisiscano un valore luminoso, estremamente più grande di qualsiasi immagine prefetta, di qualsiasi spedizione della National Geographic. Sarà per questo che di foto perfette ce ne sono a migliaia, ma di foto artistiche ce ne sono così poche. E di memorie da preservare, ancora meno.

Insomma, ero partito verso la fine del mondo, e ci ho trovato, potente e commovente, il mondo. Mentre il Vatnajökull scompare, mentre il nostro mondo è in bilico, ancora più prezioso sembra il valore di queste piccole cose, proprio ora che la nostra condizione come specie umana è così fragile. La nostra chat si è riempita nelle ore seguenti di messaggi di chi tornava a casa sano e salvo, fino all‘ultimo di noi, e tutt‘ora condividiamo aneddoti e immagini della vita fuori dalla bolla. Speriamo di rincontrarci prima di Natale. Nessuno di noi sa davvero se e quanto durerà questo idillio, ma sono segnali di quanto la bellezza incontrata per la strada, in questo viaggio, sia solo al cinquanta per cento merito dell‘Islanda, perché molto è dovuto alle persone.

Nel frattempo, non posso che essere grato alla mia famiglia, perché mai mi è mancata l‘impressione che qualcuno pensasse a me, da lì, e questa è – per citare Naruto: Shippuuden – veramente la definizione del termine “casa”. Senza di loro, questo viaggio non sarebbe neanche iniziato. Non posso poi non essere grato a chi, incoraggiandomi o prestandomi qualcosa, mi ha aiutato a prepararmi per partire, aiutandomi anche nel reggere il colpo del rientro a casa. In particolare Alexandra, Andra, Andrea, Daniela, Laura, Riccardo e Stefano. Non posso, infine, non essere grato a chi mi ha accompagnato in questo viaggio: Andrea, Dylan, Fabio, Francesco, Gabriele, Gaetano, Giulia, Giulia, Guido, Luca, Marina, Michele, Riccardo, Tiziano e Virginia.

A loro è dedicato questo saggio, nella speranza che la parte migliore di noi continui a brillare forte, nonostante tutto.


[1] G. Topham, UK airlines and airports scramble to hire staff as travel takes off again, https://www.theguardian.com/business/2022/may/13/uk-airlines-and-airports-scramble-to-hire-staff-as-travel-takes-off-again [ultima consultazione 5/10/2022]; S. Jones, Why are so many flights being canceled? Aviation analysts say it’s due to airlines’ inability to plan amid a tight labor market, “Business Insider”, link: https://www.businessinsider.com/airlines-labor-shortage-cancelling-flights-aviation-jobs-market-2022-6?r=US&IR=T [ultima consultazione 5/10/2022].

[2] “Al Jazeera”, Lufthansa cancels more than 1,000 flights ahead of strike, 26/07/2022, link: https://www.aljazeera.com/news/2022/7/26/lufthansa-cancels-over-1000-flights-due-to-ground-staff-walkout [Ultima consultazione 5/10/2022].

[3] S. Jones, The owner of Europe’s worst airline for flight cancellations paid over $70 million in compensation to passengers in just 3 months, “Business Insider”, 2/8/2022, link: https://www.businessinsider.com/europes-worst-airline-for-flight-delays-paid-millions-in-compensation-2022-8?r=US&IR=T [ultima consultazione 5/10/2022].

[4] R. L. Pagani, op. cit.

[5] Il testo integrale può essere recuperato da questo post della pagina “Un italiano in Islanda”. Link: https://www.facebook.com/unitalianoinislanda/photos/a.190456395202829/1100226024225857/ [ultima consultazione 11/10/2022].

[6] Così chiamata perché era arruolata nella Marina militare italiana e da non confondersi con Giulia “Londra”, che invece abita nella capitale britannica.

[7] “The abandoned DC Plane on Sólheimasandur”, in Guidetoiceland.is, link: https://guidetoiceland.is/connect-with-locals/jorunnsg/the-abandoned-dc-plane-on-solheimasandur [ultima consultazione 23/10/2022].

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