La “gavetta” come strumento di potere

La “gavetta” come strumento di potere

Un concetto chiave per capire le strategie di dominio della classe dirigente italiana

La “gavetta”: etimologia e significato

Quando si tenta di affrontare il concetto di “gavetta”, il primo dato che si riscontra è la difficoltà nel ricostruire la sua origine, andando oltre la sua semplice etimologia.

Sappiamo, certo, che l’uso civile di questo termine, ossia il suo utilizzo nella società, nasce prendendo in prestito un termine militare. La gavetta è, infatti, il contenitore utilizzato dai soldati per mangiare. Il termine è utilizzato per raccontare la condizione di chi stia avviando la propria carriera “dal basso”[1]. Sappiamo, inoltre, che non è solo il termine a derivare dal mondo militare, ma anche l’accezione con la quale viene utilizzato: anche nell’esercito, infatti, “venire dalla gavetta” significa qualcosa di simile, cioè essere giunti al grado di ufficiali, non provenendo da accademie militari, ma dai gradi più bassi della gerarchia[2]. La scelta dell’utilizzo di questo termine è data dal fatto che la gavetta stessa venga utilizzata maggiormente al fronte, o comunque in un contesto operativo, e dunque disagevole e pericoloso.

Senza una più approfondita ricerca linguistica, sembra quantomeno complicato riuscire a ricostruire l’uso di questo termine e capire come questo si sia diffuso nel parlare comune. Possiamo, però, chiederci comunque cosa significhi oggi e perché sia così pervasivo. Il termine “gavetta” non è neutro, ma nasconde dietro di sé una solida ideologia politica, la quale mira inevitabilmente a legittimare e rafforzare dei ben precisi rapporti di potere. Questo saggio mira a decodificare tale ideologia e a mappare, nei limiti del possibile, tali rapporti di potere.

L’incerto significato del termine

Innanzitutto, dobbiamo affrontare un primo nodo. La “gavetta” non è certamente un termine che si riferisce a una singola esperienza, a un singolo fatto, e quindi risulta difficile anche solo riuscire a visualizzare il tipo di situazioni che costituiscono una “gavetta”. È gavetta l’aspirante architetto che si trova a fare praticantato, pur pagato pochissimo e costretto a costanti straordinari? Fa gavetta l’impiegato assunto con contratto da tirocinante, che lavora con orari full-time e si prende responsabilità che non gli spetterebbero, essendo tirocinante? È gavetta il laureato che deve accettare un lavoro nel settore delle pulizie, in attesa di trovare un lavoro migliore? Oppure il diplomato che accetta un lavoro che non gli piace perché non si trova di meglio?

Un primo strumento per affrontare tale ambiguità, che pure non sembra completamente eliminabile, è rintracciabile proprio nel termine “gavetta”. L’uso civile di termini militari non è mai casuale, ma rende evidenti una volontà – o almeno un sentimento – ben precisi: rafforzare il valore di un sacrificio, da imporre (o imporsi), in vista di un pericolo, di un’emergenza o di un’urgenza tali da legittimarlo. Certo, per “gavetta” si può intendere la necessità, per chi entra in un settore che non conosce, di partire dal basso, prima di arrivare a ruoli più interessanti (il lavoratore che inizia come operatore fiduciario, prima di poter diventare guardia giurata); oppure si può riferire a chi, appena diplomato, voglia “imparare il mestiere”. Quindi viene prima assunto come operaio semplice e poi specializzato, una volta diventato più esperto.

È sintomatico, però, come si parli appunto di “gavetta”, e non di “formazione” o di “apprendistato”. La “gavetta” rappresenta situazioni estremamente disagevoli, inaccettabili in tempi di pace e necessarie solo perché a rischio è la sicurezza e l’integrità del proprio Paese. Inoltre, rappresenta una necessità puramente logistica, derivata da condizioni che il soldato deve, volente o nolente, accettare come inevitabili (non si può fisicamente pretendere un bel tavolo addobbato, al fronte). Al contrario, “formazione” e “apprendistato” sono termini che presumono sacrifici di gran lunga più moderati. Tali sforzi sono poi direttamente integrati nel processo di crescita professionale del dipendente. Infine, sono responsabilità primariamente dell’organizzazione per la quale si lavora (è l’azienda che forma il dipendente e che deve investire tempo e risorse, nonostante il soggetto sia già un dipendente).

Il fatto che la gavetta, oggi, significhi, tra le altre cose, essere sottoposti a tirocini, perché “le aziende non sono istituti di formazione”, racconta bene questo fenomeno: la “gavetta” serve perché il dipendente è sottoposto alla condizione straniante, mortificante, di essere visto allo stesso tempo come un lavoratore che deve saper camminare con le proprie gambe, ma senza la formazione, che inevitabilmente lo qualificherebbe come “studente”, e quindi indegno di uno stipendio completo. Insomma, il lavoratore è tale, ma solo a metà. Questa vera e propria crisi di legittimità del lavoro è strettamente collegata, anche solo a livello ideologico, alla crisi salariale che si manifesta nei rinnovi dei CCNL: se non sei un vero lavoratore, perché pagarti come tale?


Forme di gavetta e percorsi di vita

Parlando con le persone, capiamo quanto al termine “gavetta” vengano associate tante diverse esperienze, tante “immagini mentali”, che rispondono al vissuto dei singoli individui e alla loro formazione umana e professionale. Di qui l’ambiguità del termine, certo, ma anche la difficoltà nel ricostruirne poi le forme nella pratica nel mondo del lavoro. Da che punto di partenza iniziare per affrontare il problema? Un’importante cartina di tornasole può essere offerta dall’osservazione dei diversi percorsi di vita degli individui. Per “percorsi di vita”, in questo saggio, si intende quell’unica e speciale via che ognuno di noi vede costruita dietro di sé e prova a immaginare davanti a sé. “Chi sono io?”, “cosa ho fatto?”, “cosa posso fare?”, “quale sarà il mio futuro?”. Queste sono le domande che ci poniamo quando pensiamo al nostro lavoro presente. Dato che le risposte sono sempre differenti per ognuno, diversi saranno anche i modi in cui si formerà la “gavetta”. Di seguito, proverò a individuarne alcune tipologie, pur riconoscendone l’enorme varietà tassonomica nella pratica della gavetta.

La gavetta pre-lavoro: la scuola integrata

Un topos – o luogo comune – della narrativa della gavetta riguarda chiaramente la scuola. Più precisamente, l’idea che “se non ti pagavano, era perché avevi studiato cose inutili”[3]. Non è un caso. Da sempre la scuola è sottoposta a pressioni indebite, perché sia costretta in un ruolo ancillare rispetto ad altre istituzioni o entità. La scuola forma il cittadino per lo Stato, forma il soldato per l’esercito, forma, sempre più, il lavoratore per l’azienda. Dunque, secondo una precisa narrazione, la caratteristica più importante dei cittadini sarebbe quella di essere “occupabili”; una formula orribile che realizza il rovesciamento del nesso funzionale tra scuola e azienda: non è l’azienda che deve rispondere alle aspirazioni dell’uomo adulto uscito dalla scuola, e avere una responsabilità verso la società, ma è la scuola, finanziata dallo Stato[4], che deve elaborare e costruire l’uomo più adatto all’azienda. A farsi cantore di questa idea è Claudio Cerasa:

[…] ciò che dovrebbe far riflettere, e forse persino indignare, giusto un po’, è qualcosa che riguarda non i figli ma i genitori ed è l’incapacità, dei genitori, di noi genitori, di indicare ai nostri figli, in età lavorativa, la strada della gavetta, la strada dei lavoretti forzati, la strada opposta a quella indicata dal modello master chef: uscire dalla bambagia, uscire dal nido e tentare i lavori che ci sono, i lavori disponibili, e non solo quelli che si vorrebbero, che possono aspettare.[5]

Cerasa, in un articolo virulento e feroce, nonostante il suo apparentemente pacato paternalismo, subito individua l’errore da togliere di mezzo: l’amore. L’amore che impedisce a un genitore di avere il cuore di spiegare ai figli che “così va il mondo” e quindi “vai a fare l’operaio, che quello ti spetta”. “Cresci, figliolo, e vai a rinunciare a ogni tua ambizione, vai con sguardo vacuo a vedere la tua vita finire, rattrappirsi, soffocarti. Che ti aspettavi? Adeguati”. A questo si vorrebbe che la scuola adempisse, e invece coltiva i sogni.

Nel frattempo, mentre la scuola deve adeguarsi, vengono eliminate misure come 18App, sostituita con card da maggiorenni, di cui una crudelmente legata al voto di maturità[6]. Insomma, abbi successo, nella scuola integrata, altrimenti perdi l’accesso alla cultura. Che ti sia negata. Hai fallito, e ancora prima di diventare maggiorenne.

La gavetta come prerequisito (per chi è destinato altrove)

Finita la scuola, è la volta della vera gavetta. Non quella, però, che immaginiamo comunemente. È la gavetta che viene proposta come prerequisito a persone che l’azienda ha già destinato a lavori ben migliori. Una gavetta temporanea anche sul piano formale, perché chi la subisce ha la certezza matematica di vederla finire presto. Dunque, si risolve in un gioco.

Un esempio di gioco formativo può essere rinvenuto nella cosiddetta “Associate experience week” di Amazon. Ai manager viene chiesto, non appena assunti, di lavorare una settimana come magazzinieri. Un processo formalmente funzionale a migliorare la comunicazione tra manager e magazzinieri[7], ma che rafforza nella maniera più bruciante la differenza gerarchica: cos’hanno in comune il magazziniere che a cinquant’anni si trova ad avere un lavoro faticoso e ripetitivo, con tutti i dolori che ne derivano, e un manager trentenne che dismette jeans e camicia per una settimana, “rimboccandosi le maniche”? Nulla. Nessun destino comune.

La gavetta degli intellettuali (perché chi un giorno sarà altrove, forse)

Un’altra forma della gavetta è quella propria di chi si ritrova a svolgere un mestiere di fatica, ma dispone di un’istruzione avanzata. Su questo tipo di situazione, vale la pena sfruttare una nota biografica.

Per tre anni, il mio lavoro è stato quello delle pulizie, all’interno dell’Università di Birmingham. Sebbene lavorassimo per l’università e fossimo pagati in maniera assolutamente regolare e gestiti correttamente, il lavoro era umiliante. Perché, al contrario di quanto suggerirebbe l’ipocrisia, per affrontare il tema della gavetta bisogna raccontare una realtà già alla luce del sole: alcuni lavori sono umilianti. Il lavoro delle pulizie, fatto di uniformi imbarazzanti, esposto alle richieste anche assurde di ogni altro reparto, fatto oggettivamente di pulire lo sporco altrui, è esposto all’assunzione di uno status ben preciso: essere al gradino più basso della scala sociale; essere gli ultimi “stronzi”.

Ciò non significa che non sia un lavoro assolutamente rispettabile, dignitoso fino al midollo, né che per molti non sia anche preferibile ad altri mestieri. È un lavoro che dona libertà, per molti versi, ed è anche un servizio indispensabile, come ogni mestiere di cura verso l’altro, e quindi meritevole di ogni possibile rispetto. Ciò non toglie che molti di quelli che vi si dedicano vorrebbero fare altro. Ciò non toglie che, quasi inevitabilmente, chi vi si dedica venga stimato e considerato meno di chi è dentro altre professioni. Insomma, a ogni mestiere corrisponde una determinata posizione sociale.

Per chi dispone di un’istruzione avanzata, però, tale posizionamento subalterno è temporaneo. Così mi veniva detto, quando, senza tatto alcuno, esponevo il mio scoraggiamento ai colleghi, poi divenuti amici: “si vede che non sei qualcuno che rimarrà qui per sempre”. Così è stato. Così è, almeno nelle speranze, per chiunque abbia il discutibile merito di una più veloce attività cerebrale, di neuroni meglio collegati, o qualsiasi misura quantitativa si colleghi a una più performante materia grigia. Molto spesso, a rendere lavoratore subordinato, sono solo il candore, la capacità di fare un passo indietro, l’attenzione a dire una parola di meno, la bontà d’animo. A fare il superiore, la protervia e l’alta considerazione di sé. Eppure, noi laureati sappiamo che non siamo destinati qui. E ciò lo rende un gioco.

La vera gavetta: classe lavoratrice e umani indecorosi

La vera gavetta, una volta tolte di mezzo tante false coscienze, è quella che subiscono due categorie di esseri umani ben più ampie: quelle della classe lavoratrice e quella degli umani che oggi facilmente additiamo mentalmente come indecorosi.

La classe lavoratrice è quella degli operai e degli impiegati rappresentati in maniera straordinaria in una puntata-capolavoro dei Simpsons. La puntata appartiene alla sesta stagione, e si intitola E con Maggie son tre. Esemplificativa è una scena, in cui Homer deve tornare strisciando – letteralmente – a chiedere indietro il suo vecchio lavoro alla centrale nucleare. In questa scena, sulla postazione di lavoro di Homer viene affisso un cartellone esplicativo: “Don’t forget: you’re here forever”. “Non dimenticare: tu sarai qui per sempre”. Certo, poi Homer ritoccherà la scritta, scrivendo un commovente “Do it for her”, “fallo per lei”, riferito alla più piccola dei suoi figli, Maggie. Una consolazione e un atto di sfida contro la volontà del suo capo, quella di “spezzare il suo spirito”. Però, non si può non sottolineare come questa sia la condizione che attanagli tanti lavoratori: la paura di essere lì per sempre. “Perché non c’è niente di meglio; perché ormai a quest’età chi mi assume più; perché tanto questo è il meglio che posso avere”. Questa è la vera gavetta, quella che non finisce mai, che aleggia come una nube nera sulle speranze di vita e di felicità di milioni di persone, spazzando via sogni e speranze di gioventù, trasformate in hobby, in progetti domenicali, in desideri insoddisfatti. Il vero elefante nella stanza del capitalismo italiano (e non solo).

A fare da contraltare a questo esercito costantemente invitato alla bonaria accettazione, c’è un mondo più o meno nascosto, costituito non tanto da proletari[8], cioè da persone la cui unica ricchezza è quella di avere figli da destinare al lavoro, ma una strana forma di sotto-proletari[9], che potremmo definire gerontariato: una forza-lavoro di riserva, ancora più disperata[10], che oggi potrebbe essere concettualizzata, utilizzando i termini della band Colle der Fomento, nel brano Benzina sul fuoco: “la mia vita è tutto quello che c’ho”. Una classe sociale la cui unica ricchezza è solo di essere viva e di avere dei genitori – e dunque amore e supporto concreto – che guarda con occhi vuoti alle briciole che rimangono del futuro. Sono loro a costituire, per gli altri, una costante storia esemplare da farsi raccontare: perché lamentarsi, se potresti essere come loro? Loro sono quelli continuamente a rischio di diventare gli indecorosi, quelli che rendono i posti più brutti e tristi: barboni, folli e suicidi. Gente dai contratti a chiamata, dai lavori in nero, di cui per anni in Italia ci siamo occupati con inchieste e film.

Ora sembrano spariti, se non come spauracchi che aleggiano nei luoghi di lavoro, e sparutamente quando quel poco che resta del giornalismo italiano ne tratta, sollevando dubbi sulla narrazione dominante circa il Reddito di cittadinanza. Gente che vende corredi nuziali porta a porta, inventandosi un nuovo lavoro[11]; parcheggiatori abusivi[12]; gente che ha commesso reati e non smette di scontarli[13]. Gente, insomma, che rischiamo di diventare noi. Dunque, meglio tenerci stretto ciò che abbiamo. Anche se ci corrode l’animo giorno dopo giorno. Che altrimenti poi finisce che ci ammazziamo. E quindi meglio soffrire.


Modello antropologico e propaganda classista

Il modello antropologico dominante

Se il ricorso al concetto di “gavetta” corrisponde a realtà esistenziali tanto distorte, perché continua a essere usato o ad aleggiare nel discorso pubblico sul lavoro?

Per rispondere, potremmo prendere in considerazione due autori certamente appartenenti a scuole di pensiero opposte, ossia Gaetano Mosca e Karl Marx.

Per Gaetano Mosca, da pensatore realista e critico della democrazia parlamentare, ogni classe dirigente si legittimava utilizzando quella che definiva formula politica:

Accade immancabilmente, o almeno è accaduto finora in tutte le società discretamente numerose ed appena arrivate ad un certo grado di cultura, che la classe politica non giustifica esclusivamente il suo potere col solo possesso di fatto, ma cerca di dare ad esso una base morale ed anche legale, facendolo scaturire come conseguenza necessaria di dottrine e credenze generalmente riconosciute ed accettate nella società che esso dirige.[14]

La formula politica, scrive ancora Mosca, “deve essere fondata sulle speciali credenze e sui sentimenti più forti del gruppo sociale nel quale è in vigore, o almeno sulla frazione di questo gruppo che ha la preminenza politica”[15]. Insomma, il potere tende a giustificare le proprie strutture e i rapporti di forza tra gruppi sociali utilizzando un insieme di credenze e sentimenti che lo caratterizzano. Secondo Marx, un autore fortemente avversato da Mosca, ciò si spiega nel seguente fatto:

Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè, la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante. La classe che dispone dei mezzi della produzione materiale dispone con ciò, in pari tempo, dei mezzi della produzione intellettuale, cosicché ad essa sono assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i mezzi di una produzione intellettuale. Le idee dominanti non sono che l’espressione ideale dei rapporti materiali dominanti, non sono ciò che i rapporti materiali dominanti presi come idee; sono dunque i rapporti che di una classe fanno una classe dominante, e perciò sono le idee del suo dominio.[16]

Per mantenere un determinato assetto di potere, cioè l’insieme dei rapporti che si intrecciano tra diversi gruppi sociali, sembra dunque necessaria un’ adeguata ideologia. Centrale in questa ideologia è individuare uno specifico “modello antropologico”, ossia una definizione, per quanto vaga e variabile, dei valori che debbano caratterizzare l’uomo, e in particolare l’uomo meritevole di stima e di potere. Questa corrispondenza biunivoca tra le caratteristiche di chi dispone del potere e di chi dovrebbe disporre del potere permette di rafforzare i rapporti sociali esistenti, e quindi legittimare la classe dirigente corrente[17].

Figure e storie: tassonomia della propaganda classista

Se la gavetta come fenomeno socioeconomico veniva a costituirsi come un insieme di diversi modi di vivere, potremmo dire che la gavetta come narrazione politica tende a consolidarsi attraverso una serie di figure, o di storie[18], che, ripetute secondo schemi consolidati, aiutano a offrire degli insegnamenti morali, tali da rafforzare lo status quo. Di seguito, se ne evidenziano alcune.

Le prime sono le storie dei buoni lavoratori che si rimboccano le maniche. Questi lavoratori sono quelli che accettano i lavori umili cui sono destinati. Sono individuabili particolarmente nel ramo del “dibattito” riguardo il Reddito di cittadinanza, integrati in progetti quali quello di “Robassomero più bella”, che impiega i percettori in lavori di pubblica utilità[19]. Il problema di fondo in questi progetti non è l’idea che chi percepisca il Reddito possa essere felice di lavorare da spazzino, ma l’assunto che debba esserlo. Un caso di storia esemplare e morale è quello, citato da diverse testate, di Gaia Ristaldi. Il sottotesto contiene tutti gli elementi citati finora: è definita “la spazzina laureata” (ovviamente in Sociologia, esempio di laurea “inutile”); è lei stessa a dire che “non c’è nulla di strano” e a dichiararsi felice dell’assunzione[20]. Inoltre, in un ulteriore spunto, il virgolettato che il “Corriere del mezzogiorno” mette nel titolo: “Faccio il concorso per spazzino. Meglio che continuare col Reddito”[21]. Mettendo in sequenza il tutto: “essendo laureata in una disciplina inutile, sceglie di lavorare come spazzina e ne è felice, perché è normale che spazzi le strade e preferisca questo alla scelta di campare sulle spalle degli altri, cioè tramite Rdc”.

Un altro caso andrebbe citato, quello della storia di Federica Castiglia. La Castiglia, stavolta, è laureata in discipline utili (ottica e optometria). La storia che viene costruita su di lei è interessante, se non altro perché esemplifica la ferocia con cui situazioni inaccettabili in un paese civile vengano trasformate in storie educative, a lieto fine, e non simbolo della crudeltà con la quale sono state decostruite le prospettive di vita di milioni di persone. Non solo ci viene spiegato come Federica, al pari di Gaia, non trovi niente di anormale nel fatto che una laureata, dopo anni di studio, si trovi ad accettare quel lavoro. Ma finalmente, ci viene indicato, potrà comprarsi un’auto. “La prenderò con il cambio automatico. Perché nel traffico è più comoda, è un piccolo sogno che adesso posso realizzare”[22].  Una parabola che ricorda quella di un personaggio di Maccio Capatonda, Eddie Larva. Lui, a soli 45 anni, poteva finalmente permettersi la Panda “verde male”, e ne era anche entusiasta[23]. Quella di Maccio Capatonda era una feroce, brutale critica della società del precariato. Qui, invece, si racconta quanto sia bello che una laureata possa finalmente acquistare un’automobile, quando, in un’economia funzionante, questo sarebbe un obiettivo tutto sommato normale. Sembra Boris, ma è il giornalismo italiano. Un pugno allo stomaco, per quella normalità riconosciuta come una sorta di bizzarra e inaspettata eccezione, anche dalle stesse vittime.

Un altro modello standard è quello che racconta le storie dei miracolati. Tali storie sono la rappresentazione di una tendenza individuata sempre da Mosca, che lui definisce “democratica” (in contrapposizione alla tendenza “aristocratica”), e che porta la classe dirigente a rinnovarsi, inglobando elementi meritevoli provenienti dalle “classi dirette”[24]. Tale tendenza mi pare fondamentale nell’opera di legittimazione dello status quo. Se infatti si certifica la possibilità, per chi sia meritevole, di diventare classe dirigente, si offre un potente calmante per le ansie di coloro che sono, di fatto e forse permanentemente, gli sconfitti della società. Non è un caso che ogni tanto spunti qualcuna di queste storie. Esemplificativa è quella del proprietario della pasticceria “Vecchia Milano”, intervistato dal “Corriere della Sera”: una storia di meritato successo, abilmente contrapposta a quella di un fallimento sopraggiunto per demerito altrui. Si chiude, infatti, perché nessuno vuole proseguire l’attività, “sacrificarsi, come ho fatto io”[25].

Continuando, si arriva alla terza categoria, quella dei praticanti della gavetta. Questi si differenziano dai miracolati, perché non arrivano in alto partendo dal basso, ma in base a una misteriosa gavetta che poi si rivela non essere tale. Il caso di specie è recente e clamoroso: Vittoria Zanetti. Un esempio clamoroso, perché in questo caso non si tratta neanche di una storia ben impacchettata: L’“Huffington Post” le fa dire ai giovani di “fare gavetta”[26], “Forbes” di essere “partita dal basso”[27]. Non serve neanche scavare, perché è all’evidenza pubblica come la Zanetti non sia propriamente arrivata dal nulla. E il fatto che ci sia voluto il post solitario di un analista, Riccardo Pennisi[28] (rilanciato solo da Dagospia[29]), per spiegare l’ovvio, a fronte di tanti articoli che incensano la sua storia, la dice lunga.

Quarta categoria, quella dei vincitori. Loro sono persone che sono state capaci di eccellere, unico vero strumento dell’ascesa sociale, assieme all’essere i miracolati del duro lavoro di cui sopra. Afferiscono a questa categoria i laureati in tempi record, di cui – come ha scritto un’amica – continuiamo a parlare, mentre i ragazzi si ammazzano perché sentono di fallire con l’università. Il caso di specie è quello della letteratura su Carlotta Rossignoli, la laureata record in medicina di cui si è parlato recentemente e il cui percorso è stato messo in dubbio da altri studenti della stessa facoltà[30].

Quest’ultima categoria potrebbe forse essere considerata una sottocategoria di quella dei miracolati, però se ne differenzia dal tipo di percorso suggerito: non quello di lavorare a testa bassa, per accedere a un settore dove il lavoro è manuale, ma quella di studiare per eccellere in un settore dove il lavoro è soprattutto intellettuale. La distinzione non è nettissima, ma giova ricordare che qui non si tratta di individuare categorie rigide, quanto ragionare su di una pluralità di “storie”, e dunque di modelli narrativi, utili a veicolare un messaggio morale, legati tra di loro in maniera tutt’altro che stringente.

Le figure e la loro collocazione sociale

Ciò che vale la pena sottolineare è come questa narrazione, essendo soprattutto educativa e morale, nel senso dispregiativo del termine, tende a orientarsi secondo due direttrici, quella che racconta storie positive, quali quelle sopra accennate, e storie negative, che emergono o per logica (“se x attua il comportamento A, e A è un comportamento giusto, allora y, che pratica il comportamento B, pratica un comportamento ingiusto), oppure perché vengono chiaramente raccontati al lettore o allo spettatore. Un caso particolarmente evidente è ancora legato al fenomeno del Reddito di cittadinanza. Nonostante si tratti di un fatto marginale[31], gli articoli dedicati ai “furbetti” del Reddito di cittadinanza si sprecano[32].


Soffrire, perpetuare e perdere

Questa logica è analoga alla logica della lotta al Reddito di cittadinanza, come raccontata da Granato:

Un’operazione reazionaria per eccellenza: costruisce un passato mitologico cui si vorrebbe ritornare, riportando indietro le lancette della storia […] inferiorizza ampie fasce di popolazione, individualizza le responsabilità, inducendo a un ripiegamento su se stessi, aggravato da un senso di colpa sapientemente e costantemente instillato che fa sì che tra giovani, disoccupati e percettori si diffonda la percezione di essere quelli “sbagliati”, di essere causa del proprio male (in questo modo si allontanano le cause strutturali e si scagiona implicitamente un sistema profondamente violento e ingiusto).[33]

Oltre a costituire una narrazione distorsiva e a legittimare dei rapporti di potere insostenibili, però, non si può non aggiungere un terzo pilastro, che necessita di uno studio più vicino alla psicologia sociale.

Soffrire per crescere

Innanzitutto, da quanto scritto finora possiamo derivare un principio evidenziato in maniera eccellente da Riccardo Maggioli: che l’idea di gavetta sia legata a doppio filo all’idea del lavoro a una sofferenza imposta[34]. Questo fatto è fondamentale: non riusciamo neanche a pensare che un lavoro non sia un’imposizione, ma un piacere. Ci sembra intollerabile che qualcuno che paghiamo – come clienti o come datori di lavoro – si diverta a fare ciò per cui lo paghiamo. Non è un caso, in questo senso, che si insista sull’idea del lavoro come sacrificio[35], o che si insista sul fatto che anche i laureati debbano andare “a fare i camerieri”[36]. Il lavoratore deve offrire, nei fatti, il sudore della fronte. Quello è il suo metro di giudizio, soprattutto se il suo lavoro è manuale o impiegatizio.

Corollario di questo sforzo sofferente è ovviamente il saper accettare, all’interno del contesto lavorativo, il proprio status di adolescenti. È da questa strada che poi si apre la possibilità di legittimare l’abuso.  Il lavoratore che si trova nei gradini più bassi della scala gerarchica dovrebbe essere sgravato di quasi tutta la responsabilità e la pressione che invece riguardano i suoi superiori. È invece posizionato in quella sottile linea di confine tra la necessità di accettare i propri limiti e sforzarsi per crescere professionalmente, e la legittimazione dell’abuso subìto come “gavetta”, da accettare come naturale via per il successo.

Prima di concludere, è bene spiegare cosa si intende qui con sofferenza e abuso, perché entrambi i termini potrebbero apparire esagerazioni. L’uso del termine, nel contesto lavorativo, è dovuto al fatto che il lavoro sia una delle componenti che ci aiutano a costruire la nostra identità come persone. Sofferenza è dunque sia l’essere sottoposti al comando altrui, specialmente se ritenuto ingiusto, sia sentire di fare qualcosa che è contrario ai nostri valori e alle nostre aspirazioni, sia la più banale fatica fisica. Lavorare deve necessariamente essere sforzo, ma, ritengo, non necessariamente (e non certo auspicabilmente), sofferenza. L’abuso, di conseguenza, è ogni comportamento o atteggiamento che produce volontariamente le condizioni di questa sofferenza o che ne riproduce gli effetti.

La vittima diventa boia se nu tene cultura[37]

È fondamentale ragionare, come individui e come società, su entrambi questi elementi, perché ciò ci aiuta a decodificare le situazioni di cui siamo parte, riconoscendo la sofferenza nostra e degli altri e aiutando, per quanto possibile, nell’alleviarla. In particolare, ciò è importante per un motivo, rintracciabile nella ricerca psicologica, nel lavoro di Lucinda Rasmussen. L’autrice ha criticato profondamente il modello victim to victimizer, un modello che mirava a mostrare la relazione tra l’essere stati vittime di abusi sessuali nel passato e la possibilità di perpetrare a nostra volta abusi sessuali. La Rasmussen proponeva un modello alternativo, detto Trauma Outcome Process Assessment (TOPA). Sospettosa dello stigma che poteva ricadere sulle vittime di abusi, la Rasmussen sosteneva, infatti, che uno studio dell’ecologia che circondava la vittima fosse dirimente nel capire le ragioni che la  potessero indirizzare alternativamente verso forme di adattamento (adjustment), o verso comportamenti disfunzionali, quindi tendenti o a ripetere sugli altri gli abusi subìti, oppure a portare avanti comportamenti autodistruttivi (maladjustment)[38].

Gli studi della Rasmussen, pur lontani da quanto in oggetto in questo saggio (per gravità e contesto), mi sembrano mostrare la giusta chiave interpretativa per capire anche il dibattito sulla gavetta e, soprattutto, le dinamiche psicologiche che la propaganda iniettata nel sistema informativo italiano mira a sfruttare. L’ecologia di cui parla l’autrice è quella dalla quale derivano, innanzitutto, i fattori protettivi necessari alla vittima per riprendersi dal trauma subìto[39] ed evitare di perpetuarlo, trasformandosi in carnefice. La più grave ferita culturale dell’intero impianto ideologico della gavetta è proprio il progressivo depotenziamento di tali strumenti nel discorso pubblico, fino alla loro neutralizzazione.

Senza voler offrire conclusioni di psicologia sociale che richiederebbero studi ben più approfonditi, mi pare evidente quanto il dibattito pubblico sul tema presenti elementi che richiamano proprio una mancata elaborazione della sofferenza subìta, che sfociano in comportamenti crudeli o autolesionistici. Il classico discorso per cui “ai miei tempi, lavoravamo gratis”, oppure la critica per cui “io mi spacco la schiena, mentre quelli che prendono il Reddito non fanno nulla” si possono spiegare proprio in questa ottica. Se il paragone sembra azzardato, un esercizio utile è quello di provare a pensare a un’altra frase: “mio padre, da piccolo, me ne ha dati di schiaffi. Eppure, sono cresciuto benissimo. Quindi un ceffone ogni tanto non fa male!”. La logica è la stessa: normalizziamo quanto abbiamo subìto, perché ci aiuta a superare la sofferenza che ancora ci causa. Se era ed è normale soffrire, allora possiamo smettere di stare male al riguardo. Non ci accorgiamo, però, che in questo modo perpetuiamo un determinato fenomeno sociale che non è assolutamente naturale e inevitabile, portando altri a soffrire con noi. La stessa struttura è rintracciabile nel dibattito popolare sulla “gavetta”. Si tratta di una catena che ci causa, ancora oggi, disperazione e insoddisfazioni solo apparentemente latenti, ma che si può spezzare. Servono però empatia e coraggio.


[1] F. Sabatini e V. Coletti, voce Gavetta, in Dizionario italiano Sabatini Coletti, link: https://dizionari.corriere.it/dizionario_italiano/G/gavetta.shtml (ultima consultazione: 15/01/2023).

[2] Voce Gavetta, in Vocabolario, Istituto Treccani, link: https://www.treccani.it/vocabolario/gavetta1/ (ultima consultazione: 15/01/2023).

[3] F. Gavatorta, A proposito della gavetta gratuita, in “Francescogavatorta.com”, 28/06/2022, link: https://francescogavatorta.com/gavetta-gratuita-giovani-lavoro-gratis/ (ultima consultazione: 15/01/2023).

[4] Notare bene, qui, il riferimento allo Stato. La scuola pubblica, quella dei poveri e dei meno abbienti, deve sprecare soldi dello Stato, e quindi della comunità, per abbattere le aspirazioni dei ragazzi, così che ne escano sufficientemente disincantati da essere pronti per la fabbrica o per l’ufficio. La scuola privata, quella dell’élite, invece forma professionisti e manager.

[5] C. Cerasa, Cari genitori, siete voi la svolta sul Reddito di cittadinanza, in “Il Foglio”, 12/12/2022, link: https://www.ilfoglio.it/politica/2022/12/12/news/cari-genitori-siete-voi-la-svolta-sul-reddito-di-cittadinanza-4753044/ (ultima consultazione: 15/01/2023).

[6] M. Iasevoli, Governo. La manovra arriva in aula, ultimo assalto al Reddito di cittadinanza, in “Avvenire”, 22/12/2022, link: https://www.avvenire.it/attualita/pagine/politica-in-aula-manovra-da-35-miliardi-assalto-a-reddito-di-cittadinanza (ultima consultazione: 15/01/2023).

[7] C. Wilson, Reflections on Associate Experience Week¸ in “LinkedIn Pulse”, 27/06/2016, link: https://www.linkedin.com/pulse/reflections-associate-experience-week-colin-wilson/ (ultima consultazione: 15/01/2023).

[8] “Nella stessa misura in cui si sviluppa la borghesia, vale a dire il capitale, nella stessa misura si sviluppa il proletariato, la classe dei moderni lavoratori, che vivono solo fin quando trovano lavoro e che trovano lavoro solo fin quando il loro lavoro aumenta il capitale. Questi lavoratori, che devono vendersi pezzo a pezzo, sono una merce come qualsiasi altro articolo commerciale e allo stesso modo sono quindi esposti a tutte le fasi alterne della concorrenza, a tutte le oscillazioni del mercato” (K. Marx e F. Engels, Manifesto del partito comunista, a cura di E. Donaggio e P. Kammerer, Feltrinelli, Milano 2017, ed. EPUB, p. 9.

[9] Ai fini di questo saggio, il termine “sottoproletariato” risulta stimolante, soprattutto perché se oggi non si può più parlare di proletariato, per ovvie ragioni storiche, è interessante capire di cosa disponga la popolazione, se non di figli da dedicare al lavoro. L’idea di un gerontariato è qui abbozzata, ma funzionale soprattutto a stimolare una tale discussione.  Riporto qui, per mera completezza, la definizione offerta da Marx ed Engels, piuttosto spregiativa: “Il proletariato straccione [Lumpenproletariat], questa putrefazione passiva degli strati più infimi della vecchia società, viene qua e là trascinato nel movimento da una rivoluzione proletaria, ma per la sua situazione di vita complessiva sarà più disposto a farsi comprare per complotti reazionari” (K. Marx e F. Engels, Manifesto del partito comunista, a cura di E. Donaggio e P. Kammerer, Feltrinelli, Milano 2017, ed. EPUB, p. 12.

[10] Anche questo termine sembrerà eccessivo, ma credo sia la cifra del nostro tempo. Disperato è chi vede le proprie speranze e aspirazioni, la parte migliore di ognuno di noi e quella più viva, sgretolarsi, ammansirsi, ingrigirsi fino a perdere di significato. Non servono le bombe sulla propria abitazione, per essere disperati. Serve solo percepire che la propria vita “è tutta qui”, “ormai è andata così”. Il peso dei rimpianti e dei rancori che piano piano si deposita nei polmoni appestando l’aria. È quel sentore di “vita storta” che ci cresce dentro man mano che ci lasciamo dire addosso che “tanto cosa ti aspettavi”, ogni volta che finiamo per credere a queste parole, alla rassegnazione altrui che diventa la nostra.

[11] C. Benincasa e C. Sgreccia, Reddito di cittadinanza, chi sono gli occupabili (in teoria) che rischiano di perderlo, in “L’Espresso”, 03/01/2023, link: https://espresso.repubblica.it/attualita/2023/01/03/news/reddito_di_cittadinanza_napoli-381339973/ (ultima consultazione: 15/01/2023).

[12] Ibidem.

[13] Ibidem.

[14] G. Mosca, cit. in L. Gambino, Il realismo politico di Gaetano Mosca, Giappichelli, Torino 2005, p. 126.

[15] G. Mosca, cit. in L. Gambino, Il realismo politico di Gaetano Mosca, Giappichelli, Torino 2005, p. 128.

[16] K. Marx, L’ideologia tedesca, cit. in L. Gambino, Brani di classici del pensiero politico, Giappichelli, Torino 2007, pp. 520-521.

[17] Ricordo, a titolo esemplificativo, alcuni esempi storici di come le élite tendano a legittimarsi seguendo un modello antropologico. Un paio li cita Stefano Di Michele, su “Il Foglio”: quello della presunta nobiltà della propria famiglia e quello, più contemporaneo, della gavetta come modo di liberarsi dalle accuse di essere raccomandati nella società italiana dell’epoca berlusconi (v. S. Di Michele, E tu l’hai fatta la gavetta?, in “Il Foglio”, 20/02/2011, link: https://www.ilfoglio.it/articoli/2011/02/20/news/e-tu-lhai-fatta-la-gavetta-66284/ (ultima consultazione: 15/01/2023). Un altro riguarda la Prima repubblica, ed è raccontato magistralmente da Paolo Villaggio attraverso il personaggio del Cavalier Catellani: “Al lavoro, al lavoro! Chi non scatta, niente scatti. Ve lo dice uno che viene dalla gavetta” (Fantozzi, L. Salce, Italia 1975).

[18] In questa variegata tassonomia, non deve sfuggire la chiave di lettura offerta da Mattia Marasti, cioè la continua presenza, in queste narrazioni, del “sogno italiano”: “Una sorta di sogno americano, dove il duro lavoro, la dedizione e i sacrifici portano poi a una ricompensa monetaria e non. Solo che, a differenza del sogno americano, quello italiano non dà necessariamente ricompense monetarie: il o la protagonista non arrivano a possedere una villetta a schiera con un rigoglioso giardino, una station wagon e un futuro radioso in grado di compensare le angherie subite in passato. Spesso la ricompensa è poca cosa, ma abbastanza in un paese come l’Italia: magari il riuscire a mettere via qualcosa, come l’operatrice scolastica pendolare, mentre si vive in famiglia” (M. Marasti, Il sogno italiano è un incubo: la storia della bidella pendolare, in “Valigia Blu”, 23/01/2023, link: https://www.valigiablu.it/bidella-pendolare-napoli-milano/). Non solo possiamo riconoscere, in effetti, che la narrazione, sottoposta a musiche drammatiche e immagini stranianti, sia effettivamente onirica (si pensi ai programmi di Barbara D’Urso), ma possiamo notare come la rappresentazione di una data situazione o condizione quale “sogno”, facendo vedere come una determinata persona che la subisce ne sia felice, crea le condizioni per una forte pressione per chi guarda. La televisione ha questo potere: sembra rappresentare quello che tutti pensano. E quindi se tutti sono felici di fare la gavetta, perché tu non lo sei?

[19] F. Munafò, Chi percepisce il reddito di cittadinanza curerà il verde pubblico, in “La voce”, 04/01/2023, link: https://www.giornalelavoce.it/news/attualita/528366/chi-percepisce-il-reddito-di-cittadinanza-curera-il-verde-pubblico.html (ultima consultazione: 15/01/2023).

[20] Gaia, la spazzina laureata: “Ogni lavoro è dignitoso, basta farlo con onestà”, in “Today”, 01/01/2023, link: https://www.today.it/storie/gaia-ristaldi-spazzina-laureata.html (ultima consultazione: 15/01/2023).

[21] F. Parrella, Sabrina, laureata e disoccupata: “Faccio il concorso per spazzino. Meglio che continuare col Reddito”, in “Corriere del mezzogiorno”, 04/07/2022, link: https://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/cronaca/22_luglio_04/sabrina-42-anni-laureata-lingue-disoccupata-faccio-concorso-spazzino-ho-provate-tutte-57bf25a0-fb75-11ec-b7b5-d5237926a49b.shtml (ultima consultazione: 15/01/2023).

[22] La laureata che fa la netturbina, la storia di Federica: “È un lavoro vero, stabile. Un posto fisso che dà ampie garanzie, in Orizzonte Scuola”, 07/12/2022, link: https://www.orizzontescuola.it/la-laureata-che-fa-la-netturbina-la-storia-di-federica-e-un-lavoro-vero-stabile-un-posto-fisso-che-da-ampie-garanzie/ (ultima consultazione: 15/01/2023).

[23] V. il corto La terra dei morti contribuenti, disponibile al seguente link: https://www.youtube.com/watch?v=1MSDzfeobxw (ultima consultazione 15/01/2023).

[24] G. Mosca, cit. in L. Gambino, Il realismo politico di Gaetano Mosca, Giappichelli, Torino 2005, p. 146.

[25] Ibidem.

[26] I. Betti, “Giovani, fate gavetta”. Da cameriera a fondatrice di un brand da milioni di euro di fatturato: la storia di Vittoria e di Poke House, in “Huffington Post”, 11/06/2022, link: https://www.huffingtonpost.it/life/2022/06/11/news/giovani_fate_gavetta_da_cameriera_a_ceo_di_un_brand_da_milioni_di_euro_di_fatturato_la_storia_di_vittoria_fondatrice_d-9575476/ (ultima consultazione: 17/01/2023).

[27] D. Rubatti, Come una mantovana under 30 ha portato le Hawaii in Italia con la sua Poke House, in “Forbes”, 19/01/2021, link: https://forbes.it/2021/01/19/vittoria-zanetti-l-imprenditrice-che-ha-co-fondato-poke-house/ (ultima consultazione: 17/01/2023).

[28] V. R. Pennisi, link: https://www.facebook.com/riccardo.pennisi.71/posts/pfbid0KLnov2sF3UEUTKfSNUzUw7edwhz6FKXGuyjScAwK4fcSRdri4uhV2CFHsgDD2WrYl (ultima consultazione: 15/01/2023).

[29]Quando si parla di meritocrazia, quasi sempre c’è qualcosa sotto, “Dagospia”, 04/01/2023, link: https://www.dagospia.com/rubrica-4/business/quando-si-parla-meritocrazia-quasi-sempre-nbsp-39-qualcosa-337879.htm (ultima consultazione: 15/01/2023).

[30] I. Quattrone, Laureata in Medicina a soli 23 anni, così Carlotta Rossignoli si difende: “Nessuno mi ha favorito”, in “Fanpage”, 05/11/2022, link: https://www.fanpage.it/milano/laureata-in-medicina-a-soli-23-anni-cosi-carlotta-rossignoli-si-difende-nessuno-mi-ha-favorito/ (ultima consultazione: 15/01/2023).

[31] K. Carboni, Quanti sono davvero i “furbetti” del reddito di cittadinanza, in “Wired”, 09/12/2022, link: https://www.wired.it/article/reddito-di-cittadinanza-furbetti-frode-controlli-inps/ (ultima consultazione: 15/01/2023).

[32] Di questo attacco ha parlato, pur come voce certamente non imparziale, Giuliano Granato, portavoce di Potere al Popolo (v. G. Granato, Ennesimo attacco al reddito di cittadinanza: così si scagiona un sistema ingiusto, in “Il Fatto Quotidiano”, 28/12/2022, link: https://www.ilfattoquotidiano.it/2022/12/28/ennesimo-attacco-al-reddito-di-cittadinanza-cosi-si-scagiona-un-sistema-ingiusto/6919370/ (ultima consultazione: 15/01/2023)), ma gli articoli e i servizi riguardanti questo fenomeno sono veramente numerosi.

[33] G. Granato, Ennesimo attacco al reddito di cittadinanza: così si scagiona un sistema ingiusto, in “Il Fatto Quotidiano”, 28/12/2022, link: https://www.ilfattoquotidiano.it/2022/12/28/ennesimo-attacco-al-reddito-di-cittadinanza-cosi-si-scagiona-un-sistema-ingiusto/6919370/ (ultima consultazione: 07/02/2023).

[34] R. Maggioli, Tre motivi (più uno) per cui la “gavetta” non ha più senso, in “Huffington Post”, 18/06/2022, link: https://www.huffingtonpost.it/blog/2022/06/18/news/tre_motivi_piu_uno_per_cui_la_gavetta_non_ha_piu_senso-9631500/ (ultima consultazione: 15/01/2023).

[35] M. Lanaro, Reddito di cittadinanza, La Russa: “Il 50% dei percettori non ha nulla da temere. O forse addirittura di più”, in “Il Fatto Quotidiano”, 15/12/2022, link: https://www.ilfattoquotidiano.it/2022/12/15/reddito-di-cittadinanza-la-russa-il-50-dei-percettori-non-ha-nulla-da-temere-o-forse-addirittura-di-piu/6907224/ (ultima consultazione: 15/01/2023); G. Granato, Ennesimo attacco al reddito di cittadinanza: così si scagiona un sistema ingiusto, in “Il Fatto Quotidiano”, 28/12/2022, link: https://www.ilfattoquotidiano.it/2022/12/28/ennesimo-attacco-al-reddito-di-cittadinanza-cosi-si-scagiona-un-sistema-ingiusto/6919370/ (ultima consultazione: 15/01/2023).

[36] R. Ciccarelli, Reddito di cittadinanza, riforma a gennaio: ritorno alla social card di Berlusconi, in “Il Manifesto”, 23/12/2022, link: https://ilmanifesto.it/reddito-di-cittadinanza-riforma-a-gennaio-ritorno-alla-social-card-di-berlusconi (ultima consultazione: 15/01/2023).

[37] Riprendo questa splendida perla dalla canzone Le radici ca tieni, dei Sud Sound System.

[38] L. Rasmussen, Trauma Outcome Process Assessment (TOPA) Model: An Ecological Paradigm for Treating Traumatized Sexually Abusive Youth, in “Journal of child and adolescent trauma”, 2012, 5, pp. 63-80.

[39] L. Rasmussen, Victim and Victimizer: The Role of Traumatic Experiences as Risk Factors for Sexually Abusive Behavior, in “Israel Journal of Psychiatry and Related Sciences”, XLIX (2012), 4, p. 270.

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