La sperimentazione della politica razziale e antisemita del fascismo: le colonie

La sperimentazione della politica razziale e antisemita del fascismo: le colonie

Il ‘900 fu il drammatico secolo in cui alcuni Stati europei millantarono miracolose discendenze da razze superiori, e a questi stati non tardò ad aggiungersi l’Italia.
Il 14 luglio del 1938 venne infatti pubblicato il Manifesto della razza, in cui all’articolo 4 si poteva leggere che gli italiani fossero di origine ariana, una popolazione che abitava la penisola italica da millenni.

Per capire realmente la natura profondamente razzista e antisemita del governo fascista bisogna volgere lo sguardo alla politica coloniale. Se infatti molto spesso si è tentato di dare una giustificazione alla promulgazione delle leggi razziali in Italia e alla successiva deportazione degli ebrei affermando che queste fossero delle scelte dovute alla pressione dell’alleato tedesco, le colonie rappresentano il banco di prova per la valutazione della politica razziale fascista, antisemita e finalizzata al potenziamento fisico e morale degli italiani.

Il fatto che l’Italia abbia iniziato il suo processo di colonizzazione tardivamente, rispetto alle altre nazioni europee, porta erroneamente a pensare ad un diverso modello di insediamento, magari più civile, nei confronti delle popolazioni colonizzate. Ma così non fu: gli italiani, che nell’immaginario collettivo vengono ricordati sempre con peculiarità bonarie, saccheggiarono, distrussero, sfruttarono, stuprarono e uccisero, esattamente come tutti gli altri colonizzatori europei del passato, e a loro contemporanei, spinti non solo dal desiderio di conquista, ma – nel caso dei soldati fascisti – anche da un razzismo molto radicato. Il pregiudizio contro i neri, il cui colore della pelle veniva associato al male, venne minuziosamente riprodotto nella rivista della propaganda coloniale La Difesa della Razza, nelle cui copertine si può ancora trovare la raffigurazione di un’Eva “nera”, che porge la mela ad un Adamo “bianco”, simboleggiando un chiaro disprezzo per la donna africana, vista come fonte di peccato, come un mero oggetto sessuale. Nelle cartoline di propaganda i soldati italiani venivano immortalati in pose plastiche sorridenti, mentre con il piede schiacciavano la testa di un etiope, chiaro riferimento topografico romano allo schiavo barbaro sottomesso.

La colonizzazione dell’Etiopia fu diversa da quella della Somalia e dell’Eritrea. L’entrata in vigore delle leggi razziali del ’38 infatti cambiò drasticamente la situazione.  La conquista dell’Abissinia era caratterizzata dal porn tropics tradition, ovvero quella tradizione culturale, propria delle potenze coloniali, che erotizzava le terre da conquistare attraverso la femminilizzazione delle stesse. La donna africana veniva rappresentata come una Venere che, seppur nera e con connotati fisici rimarcanti l’inferiorità di tipo etnico, trasmetteva una forte carica di erotismo. Nelle fotografie o cartoline venivano rappresentate in avvenenti pose da odalische, quasi sempre nude, disponibili al dominio dell’uomo italiano, alludendo non soltanto a quello territoriale.

A differenza di quanto avveniva per gli altri stati dell’Africa Orientale Italiana, era considerato illegale sia il concubinaggio che il madamato. Il primo era una sistemazione domestica basata sulla prestazione di servizi sessuali e sull’ineguaglianza di genere; la seconda era una relazione temporanea, ma non occasionale, tra un cittadino ed una suddita indigena. Queste usanze socialmente accettate non andavano più bene nell’epoca fascista in cui le gerarchie razziali erano messe in pericolo dal problema del meticciato. Le uniche relazioni possibili tra colonizzatori e colonizzate erano regolate per legge ed erano previste “per puro sfogo fisiologico”: le donne etiopi non potevano essere più concubine e neppure madame, dovevano essere considerate solo prostitute. Mussolini aumentò l’emigrazione delle donne italiane nella colonia, imponendo agli uomini di farsi raggiungere dalle mogli, entro sei mesi dall’arrivo. In nessun’altra colonia, di nessun’altra grande potenza, si registrò mai questo grado di interventismo dello stato colonizzatore, nel controllare minuziosamente la vita privata dei coloni.

I neri rappresentavano la razza inferiore, declassata dalla possibilità di essere considerata pienamente umana, quasi animale, non completamente sviluppata, ed impossibilitata a raggiungere lo stadio adulto, per motivi biologici. L’Africa veniva narrata come un immenso parco naturale in cui il confine tra sfera animale e umana era davvero molto labile. Gli etiopi venivano descritti come desiderosi di essere governati dagli italiani, perché incapaci di autogovernarsi.

In Etiopia esisteva una grande comunità ebraica, chiamata Falascià. La leggenda vuole che gli ebrei abissini fossero i diretti discendenti della stirpe di Salomone, in quanto la comunità etiope sarebbe stata creata dal figlio nato dall’unione tra il re Salomone, appunto, e la regina di Saba, il quale fuggì da Israele per portare in salvo l’Arca dell’Alleanza. In una prima fase della colonizzazione fascista per i Falascià non ci fu un trattamento differente rispetto a tutti gli altri etiopi, in quanto era in serbo ai progetti di Mussolini la creazione di uno stato ebraico proprio in Etiopia, sotto l’autorità italiana.

Questo progetto maturò essenzialmente per tre motivi: per incanalare gli investimenti delle comunità ebraiche europee per la ricostruzione del suo impero nell’AOI;  per accontentare il mondo arabo, di cui si era proclamato protettore, dirottando le migrazioni ebraiche dalla Palestina in Abissinia; per farsi guardare con occhi diversi dalle grandi potenze occidentali mondiali rispetto alla Germania, in merito alla gestione della questione ebraica. Fino a quando per questo progetto non arrivò la netta opposizione del Presidente degli USA Roosevelt (a causa della deriva che la politica antisemita italiana stava prendendo nei confini nazionali con le leggi razziali) le comunità dei Falascià vennero, in sporadici casi, anche difese dagli attacchi delle popolazioni islamiche.  Ma quando per Mussolini sfumò il progetto di poter utilizzare a proprio piacimento la carta del sionismo, allora il Ministro dell’Africa Orientale Italiana, Moreno, scrisse all’Italia un telegramma in cui chiedeva di inasprire il trattamento nei confronti delle comunità ebraiche etiopi, al fine di specificare l’indirizzo antisemita della politica governativa italiana. In realtà per i Falascià, che, come tutti gli altri etiopi, vivevano in una condizione di dura apartheid, non vennero mai promulgate leggi specifiche. Agli italiani non serviva considerarli come “giudei” perché bastava trattarli come “neri”, ovvero l’ultimo gradino della gerarchia razziale. Il primo al di sopra di quello dei primati.

Per gli ebrei in Libia la situazione fu profondamente diversa, proprio a causa della classificazione gerarchica delle razze. I libici erano arabi, e per gli ebrei che abitavano quella nazione bisognava adottare delle leggi specifiche. Il 17 dicembre del 1942 il Gran Consiglio del Fascismo emanava una legge che prevedeva l’instaurazione di un regime discriminatorio attraverso le più svariate limitazioni ai diritti sociali, politici e civili degli ebrei residenti in Libia. In realtà nell’articolo 8 – denominato “Cognomi e nomi” – iniziava già a delinearsi una linea più propriamente persecutoria, secondo il modello germanico, non meramente discriminatoria: gli ebrei venivano infatti obbligati a cambiare i propri nomi e cognomi con altri, forniti dallo stato, facilmente etichettabili come giudaici, pena l’arresto fino ad un mese o il pagamento di un’ammenda fino a tremila lire. Gli ebrei per essere perseguitati, dovevano essere facilmente riconoscibili. In un certo verso, per gli ebrei libici iniziò un periodo di persecuzione ancora più sentito rispetto agli italiani, innanzitutto per il fanatismo dei soldati fascisti occupanti, ma anche perché già vessati dai violenti attacchi della popolazione islamica. Quest’ultima non manifestò infatti quella solidarietà che invece si realizzò nel mondo cattolico italiano – seppur in maniera sporadica e insufficiente.

Dal ’38 al ’42 le vere e proprie manifestazioni di violenza contro le popolazioni ebraiche e gli atteggiamenti vessatori da parte della polizia italiana vennero tenuti sotto controllo da parte del governatore libico Italo Balbo, rinomato negli ambienti fascisti per non essersi mai dichiarato antisemita. L’atteggiamento del governatore – che egli assunse a titolo individuale – si scontrò con le politiche decise dal governo, tanto che, in uno scambio epistolare, Balbo chiese di non applicare le leggi antisemite in territorio libico, in quanto la comunità, già vessata dai ripetuti attacchi della maggioranza islamica, “era già morta”. Alla lettera Mussolini rispose esortando il governatore all’applicazione delle leggi razziali e affermando che: “gli ebrei sembrano morti, ma non lo sono mai definitivamente”. Subito dopo l’applicazione delle leggi razziali, iniziarono ad essere costruiti anche i campi di concentramento e lavoro forzato quali al Garian, in Tripolitiana, Giado, a 235km da Tripoli, e Sidi-Aizaz.

Le leggi razziali in Italia e l’inizio delle deportazioni nel ’43 non furono un tentativo di accontentare l’alleato tedesco, e una normale conseguenza per aver lasciato la nazione in balia dell’occupazione tedesca. L’Italia ha contribuito in maniera partecipativa allo sterminio del popolo ebraico, per mezzo di una politica che giustificava, preparava e accompagnava i campi di concentramento e di sterminio. Non dovremmo mai dimenticare che questi luoghi della morte vennero costruiti a Fossoli, Bolzano, Trieste e Borgo San Dalmazzo, e che dalla stazione di Milano, in un apposito binario, partivano i convogli diretti ad Auschwitz-Birkenau. La senatrice Liliana Segre ha più volte detto che: “Coltivare la Memoria è ancora oggi un vaccino prezioso contro l’indifferenza e ci aiuta, in un mondo così pieno di ingiustizie e di sofferenze, a ricordare che ciascuno di noi ha una coscienza e la può usare”, e ogni nazione non dovrebbe mai dimenticare o sottovalutare le proprie responsabilità”.

Francesca Damasi per Policlic.it

Fonti:

Per l’Etiopia

Fonti secondarie:

  • N. Labanca, Una guerra per l’impero. Memorie della campagna di Etiopia (1935-1936); Il Mulino Bologna, 2005.
  • M. Libuori, Porn-Tropics Traditions; ISIA Urbino; 2016.
  • V. Pisanty, La difesa della razza, antologia (1938-1943); Bompiani, Milano, 2016.
  • B.Sorgoni, Etnologia e colonialismo, l’Eritrea e l’Etiopia di Alberto Pollera (1873-1939); Borlam Boringhieri; Torino, 2001.
  • A.Stoler, Carnal know ledge and Imperial Power, Gender, Race and Morality in Colonial Asia, in Gender at the Crossroad of Knowledge; Femminist University of California Press, 1991.
  • E. Trevisan Semi, Allo specchio dei Falascià. Ebrei ed Etnologia durante il colonialismo fascista; Editrice la Giunti a, Firenze, 1987.

Articoli e saggi

  • F. Del Canuto, I Falascià tra politica antisemita e politica razziale; Storia Contemporanea, rivista bimestrale di studi storici, Vol. XIX, fascicolo n. 6; Il Mulino, Bologna, dicembre 1988.
  • S.T. Minerbio, Il progetto di un insediamento ebraico in Etiopia (1936-1943), in Storia Contemporanea, rivista bimestrale di studi storici; Il Mulino, Bologna, dicembre 1986.

Per la Libia

Fonti primarie:

  • Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia, anno 83°- N. 298; 17 dicembre 1942, pp. 4986-4990.

Fonti secondarie:

  • R. De Felice, Ebrei in un paese arabo; gli ebrei nella Libia contemporanea tra colonialismo, nazionalismo arabo e sionismo (1835-1970); Il Mulino, Bologna, 1978.
  • R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo; Einaudi, Milano, 2005.
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