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Un progetto universale: l’ONU
Le radici delle moderne istituzioni e degli odierni raggruppamenti internazionali sono da ricercare nelle profonde ferite inflitte dalla Seconda guerra mondiale. Il 1º gennaio 1942, poche settimane dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbour, gli Stati Uniti resero pubblica una “Dichiarazione delle Nazioni Unite”, che fu sottoscritta da 26 Paesi alleati a vario titolo contro le potenze dell’Asse. Fra questi, vi erano la Gran Bretagna, l’Unione Sovietica e la Cina. Nella solenne Dichiarazione le nazioni si impegnavano a combattere i Paesi dell’Asse e a non ricercare una pace separata.
Il documento aveva il carattere di un manifesto aperto all’adesione di tutti i Paesi che si riconoscevano nel valore della difesa della libertà; nei mesi e negli anni successivi fu firmato da altri 19 Stati che dichiararono guerra alle potenze dell’Asse o che, pur rimanendo neutrali, decisero di aderire allo spirito della Carta[1]. I punti salienti della Dichiarazione riprendevano alcuni concetti della dottrina di Wilson[2]: autodeterminazione dei popoli, liberalizzazione del commercio e dello scambio delle materie prime e mantenimento della pace a livello collettivo e globale.
Il progetto Roosevelt delle Nazioni Unite fu approvato da Francia, Cina e Regno Unito. Il presidente americano, per chiudere il cerchio, decise di coinvolgere l’Unione Sovietica. Stalin vedeva di buon occhio la formazione di un nuovo organismo interstatale perché era un modo per la Russia di inserirsi nel direttorio delle potenze globali. Nell’ottobre del 1943, durante una riunione dei ministri degli Esteri a Mosca, Stalin dichiarò formalmente di aderire al progetto, ma pose due condizioni: l’Unione Sovietica doveva assumere lo status di grande potenza e la nuova organizzazione non doveva ingerire negli affari interni della Russia.
Nel novembre del 1943, durante la conferenza di Teheran, si aprì il dibattito sul funzionamento e sulla regolamentazione. Roosevelt aveva disegnato un’organizzazione di tipo universale, con un consiglio esecutivo facente capo alle quattro maggiori potenze (Stati Uniti, Russia, Gran Bretagna, Cina), un consiglio consultivo formato da una ventina di Stati per gli affari non militari e, infine, una grande assemblea generale a cui avrebbero partecipato tutti gli Stati. Churchill e Stalin mostrarono una certa diffidenza e avanzarono una proposta alternativa: la sicurezza collettiva doveva essere garantita da una serie di consigli regionali, ognuno dei quali guidato da una grande potenza[3]. Alla fine dei lavori, la proposta universalistica del presidente americano venne accettata.
Il processo di definizione dei meccanismi ONU si concluse il 25 aprile 1945, attraverso la Conferenza di San Francisco. Roosevelt morì improvvisamente il 12 aprile, ma il processo era ormai in atto e il presidente Truman confermò lo svolgimento della Conferenza. Ai lavori di apertura parteciparono cinquanta Stati, che iniziarono a redigere la Carta delle Nazioni Unite. Questa fu approvata il 25 giugno ed entrò in vigore il 24 ottobre.
Il Novecento è stato un secolo denso di difficoltà, di crisi e shock economici. Le grandi potenze, con la Dichiarazione delle Nazioni Unite, gettarono le fondamenta per la costituzione di un nuovo ordine economico e politico, capace di creare un clima di cooperazione tra Stati, volto a superare per sempre le tentazioni del nazionalismo politico e del protezionismo economico degli anni Trenta[4].
Le istituzioni di Bretton Woods
Il 1° luglio del 1944 si tenne a Bretton Woods la United Nation Monetary and Financial Conference. L’assemblea, formata dai delegati di 44 Paesi, delineò nell’arco di 21 giorni una serie di istituzioni finanziarie e commerciali: il Fondo monetario internazionale (FMI); la Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (BIRS); l’Organizzazione internazionale per il commercio (ITO, International Trade Organization). L’obiettivo del FMI era la promozione della stabilizzazione delle relazioni monetarie e finanziarie internazionali; il Fondo entrò in funzione il 27 dicembre 1945.
L’esigenza della cooperazione in tale settore deriva dalla constatazione che le economie sono interdipendenti e che la stabilità monetaria e finanziaria ha ripercussioni positive sulla crescita economica mondiale. Il FMI ha inizialmente operato in un sistema di tassi di cambio fissi ma aggiustabili, imperniato sulla convertibilità del dollaro in oro, concedendo assistenza finanziaria a carattere temporaneo agli Stati membri per compensare gli squilibri delle bilance dei pagamenti. In realtà, in un primo momento, il ricorso alle risorse del Fondo fu limitato. Negli anni Settanta, con l’abbandono del sistema dei cambi fissi, il FMI ha esteso la propria azione agli squilibri macroeconomici, mentre ha gradualmente assunto maggiore importanza la funzione di sorveglianza sulle politiche economiche dei Paesi membri. Nel frattempo, l’attività del FMI si è indirizzata in maniera crescente verso i Paesi in via di sviluppo (PVS) e il credito a medio termine.
Gli organi principali del Fondo Monetario Internazionale sono il Consiglio dei governatori, il Consiglio esecutivo e il Direttore operativo. Il primo si riunisce una volta l’anno e la gran parte delle sue funzioni è delegata al Consiglio esecutivo, che invece è in seduta permanente ed è costituito da dieci membri. Di questi, cinque sono fissi e appartengono agli Stati che detengono la quota maggiore (USA, Germania, Francia, Regno Unito e Giappone), mentre gli altri cinque sono eletti dal Consiglio dei governatori in base a raggruppamenti per nazioni. Infine, il Direttore operativo è il presidente del Consiglio esecutivo, dal quale viene eletto.
La BIRS, denominata alternativamente Banca Mondiale (BM), aveva lo scopo originario di finanziare la ricostruzione e lo sviluppo dei Paesi coinvolti nella Seconda guerra mondiale. Come il FMI, il secondo pilastro del nuovo ordine economico entrò in vigore nel 1945.
In base all’atto istitutivo, la Banca Mondiale doveva sostenere la ricostruzione e lo sviluppo degli Stati che uscirono devastati dal conflitto mondiale. Completata la ricostruzione delle economie dei Paesi europei e del Giappone, la Banca Mondiale diresse la sua attenzione verso i Paesi in via di sviluppo. L’azione della BM si è pertanto gradualmente focalizzata intorno a tematiche quali lo sviluppo del capitale sociale e del capitale umano, la crescita del settore privato, il miglioramento della capacità di governo e l’alleggerimento del debito. Nel corso degli anni Ottanta, la BM ha promosso vasti programmi di finanziamento del bilancio pubblico dei PVS e delle economie emergenti, spesso accompagnati dalla richiesta di adottare riforme strutturali e politiche di liberalizzazione commerciale e finanziaria. Il funzionamento operativo della banca è assicurato dai versamenti delle quote a carico dei Paesi membri.
L’ITO rappresenta l’anello debole delle istituzioni di Bretton Woods. Il terzo pilastro della conferenza voleva promuovere la liberalizzazione progressiva dei dazi e, conseguentemente, la promozione dello sviluppo economico e sociale nell’ambito di un sistema concorrenziale equo. L’ITO rimase in vigore fino agli anni Cinquanta, quando venne bocciata definitivamente e subentrò il GATT (General Agreement on Tariffs and Trade), firmato il 30 ottobre 1947. Durante le trattative che portarono alla firma del trattato, emersero delle visioni differenti tra le grandi potenze mondiali e i Paesi in via di sviluppo.
Il GATT era limitato a un accordo di liberalizzazione di scambi commerciali, e rimase in vigore per cinquant’anni. Inizialmente erano presenti 23 membri; nel 1994 la sua base era di 123 Stati. L’obiettivo del GATT era quello di contribuire allo sviluppo delle economie attraverso la riduzione dei dazi commerciali e la liberalizzazione del commercio. Tuttavia, si trattava di un accordo provvisorio, il che lo rendeva giuridicamente debole: se una norma del GATT violava le norme nazionali, poteva essere respinta dall’ordinamento dello Stato membro e non venire applicata.
Nel settembre 1986 prese avvio il famoso “Uruguay round”[5], conclusosi il 15 aprile 1994 a Marrakesh con l’adozione di numerosi accordi, tra cui quello istitutivo dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO). Altri accordi riguardarono la riduzione delle tariffe industriali, la protezione della proprietà intellettuale, la riduzione delle barriere tariffarie all’importazione e dei sussidi all’esportazione di prodotti agricoli, la restrizione delle norme a protezione delle industrie nazionali. Misure specifiche furono adottate per i Paesi in transizione dall’economia pianificata all’economia di mercato.
Crisi del sistema commerciale: i PVS bussano alle porte
Nella prima metà degli anni Sessanta, i PVS adottarono l’Atto finale dell’UNCTAD (United Nations Conference on Trade and Development, Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo) attraverso un documento intitolato “Verso una nuova politica commerciale a favore dello sviluppo”. Il documento faceva propria l’impostazione secondo cui esiste un’asimmetria strutturale nelle relazioni economiche e politiche tra centro e periferia, nell’ambito della quale la situazione di arretratezza dei Paesi dipendenti non è una tappa intermedia di un processo di sviluppo in corso, ma una condizione sistemica della fase di internazionalizzazione del sistema capitalistico[6].
Il documento appena citato invitava le potenze industrializzate a un radicale cambiamento della politica sugli scambi commerciali, da discutere in una sede formale, in modo che i Paesi in via di sviluppo potessero avere una voce più autorevole per proteggere i propri interessi.
Il secondo fenomeno da prendere in considerazione è il fallimento delle politiche di cooperazione, dovuto a un disimpegno da parte delle potenze industrializzate dalle promesse formalizzate in sede ONU e nelle istituzioni di Bretton Woods.
Le cause di tale situazione erano naturalmente molteplici, e non dipendevano esclusivamente dalla mancanza di genuina volontà politica da parte dei Paesi sviluppati di trasferire un volume adeguato di aiuti ai Paesi arretrati. In primo luogo, il contemporaneo decollo economico di quasi cento Paesi era obiettivamente un’impresa ardua da realizzare; in secondo luogo, una responsabilità certamente non secondaria del mancato sviluppo andava attribuita all’inefficienza della gestione economica dei Paesi di nuova indipendenza: la creazione di una burocrazia statale sproporzionata rispetto alle esigenze e alle possibilità, le spese militari crescenti, la corruzione fatta sistema, la non attuazione delle necessarie riforme economiche interne, l’adozione di politiche economiche sbagliate erano tutti fattori interni che contribuivano alla stasi economica[7].
La crisi di questo sistema derivò in parte dal declino della potenza economica statunitense, in quanto le istituzioni di Bretton Woods necessitavano di un’entità capace di regolare la loro attività.
Verso la ristrutturazione dell’ordine economico internazionale
Una serie di shock economici caratterizzò la seconda metà degli anni Sessanta: iniziarono a manifestarsi una serie di svalutazioni e rivalutazioni delle maggiori monete europee, che portarono il presidente Nixon a sospendere la libera convertibilità del dollaro, quel sistema di cambi fissi su cui si reggevano le istituzioni di Bretton Woods. La decisione dell’OPEC[8] di alzare il prezzo del petrolio a supporto della causa palestinese innescò una crisi energetica. Lo shock petrolifero ebbe conseguenze negative sul destino economico dei Paesi in via di sviluppo non esportatori di greggio: il loro sviluppo divenne “insostenibile” per i costi proibitivi dei prodotti energetici, mentre i Paesi più evoluti riuscirono prima a convivere con l’arma petrolifera, poi a depotenziarla. La crisi energetica, quindi, ha rilevato non solo l’esistenza di un’interdipendenza assai marcata tra le economie dei Paesi appartenenti a diversi gradi di sviluppo, ma anche la capacità dei Paesi economicamente più forti di volgere tale complementarietà a proprio favore persino nelle situazioni più difficili[9].
Le divergenze causate dagli shock degli anni Settanta spinsero l’Assemblea generale ONU ad accettare le rivendicazioni dei PVS. Nel 1974 l’Assemblea adottò dei testi fondamentali, tra cui la “Dichiarazione di instaurazione di un nuovo ordine economico internazionale” e la “Carta dei diritti e dei doveri economici degli Stati”. Si trattava di dichiarazioni d’intenti nel perseguire politiche di aiuto per i PVS. Nelle votazioni furono contrari gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Repubblica federale tedesca, il Belgio, la Danimarca e il Lussemburgo.
Negli anni seguenti, i princìpi del Nuovo ordine economico internazionale furono oggetto di contestazione e dubbi: i Paesi sviluppati ritenevano che i negoziati si dovessero svolgere all’interno delle istituzioni di Bretton Woods, mentre per i PVS la sede più adatta era l’Assemblea generale ONU, imparziale e universale.
La formazione di nuovi vertici internazionali: le grandi “G”
La frattura sorta in sede ONU portò alla creazione di un forum focalizzato su temi economici e finanziari. Il primo vertice dei capi di Stato e di governo, ancora in formato G6 (Stati Uniti d’America, Giappone, Regno Unito, Germania, Francia e Italia), risale al 1975; il formato attuale (G7) nacque nel 1976, con l’ingresso del Canada. Il vertice dei Sette grandi si estese a otto componenti grazie all’inserimento della Russia, dopo la riunione di Denver del 1997.
Il Gruppo dei Sette ha natura informale: non esiste un segretariato (come avviene invece nelle organizzazioni internazionali) né altre strutture permanenti. La preparazione del vertice viene coordinata dalla presidenza di turno, che si assume il compito di organizzare e ospitare le riunioni preparatorie nonché le varie riunioni a livello ministeriale. Le posizioni assunte dai capi di Stato e di governo del G7 in occasione dei vertici forniscono un contributo significativo alla governance globale e ai processi decisionali delle organizzazioni internazionali. Esse conducono, in diversi casi, alla realizzazione di iniziative settoriali, spesso aperte alla collaborazione di attori esterni (Paesi terzi e società civile), che producono effetti di rilievo a livello globale.
Grazie alla sua struttura informale e fluida, il G7/G8 è divenuto un consesso globale: gli argomenti delle riunioni hanno abbracciato temi trasversali, dalla politica estera alle questioni concernenti lo sviluppo economico.
A partire dalla seconda metà degli anni Novanta, dopo una serie di crisi economiche che avevano colpito le economie dei Paesi emergenti, i ministri dell’Economia sentirono la necessità di includere nel consesso globale anche altri Paesi. Tra il 1998 e il 1999 si tennero quattro riunioni in formati più ampi (G22 e G33), per poi arrivare alla creazione del Gruppo dei Venti (G20), avvenuta il 25 settembre 1999 in una riunione dei ministri delle Finanze con sede Washinton DC. La prima riunione si tenne nel dicembre 1999 a Berlino, con la partecipazione dei ministri delle Finanze e dei governatori delle banche centrali.
Il Gruppo dei Venti nacque come un meccanismo di dialogo informale tra economie “a rilevanza sistemica”, per discutere della stabilità economica, della crescita sostenibile e della creazione di una nuova architettura finanziaria globale. Il G20 includeva i Paesi membri del G7/G8, con l’aggiunta di undici Paesi (Arabia Saudita, Argentina, Australia, Brasile, Corea del Sud, India, Indonesia, Messico, Sud Africa, Turchia e Unione Europea). La scelta dei Paesi da coinvolgere avvenne con un criterio di rappresentanza geo-economica di tutti i continenti. Similarmente al G7/G8, il G20 non ha una struttura formale e la presidenza ruota, su base annua, tra i diversi Paesi aderenti.
Attualmente la struttura degli Stati membri non è mutata, ma durante il summit di Cannes (2011) venne istituito un sistema di rotazione delle presidenze tra cinque gruppi “regionali” (Gruppo 1: Australia, Arabia Saudita, Canada e Stati Uniti; Gruppo 2: India, Russia, Sud Africa, Turchia; Gruppo 3: Argentina, Brasile, Messico; Gruppo 4: Francia, Germania, Italia e Regno Unito; Gruppo 5: Cina, Indonesia, Giappone e Corea del Sud). L’applicazione di tale sistema è iniziata nel 2016 con il gruppo 5 (Cina).
Essendo un gruppo giovane, per il primo decennio il vertice del G20 non si è dato un coordinamento politico. Solo dopo la Grande recessione del 2007-2008 è divenuto una vera e propria sede di concertazione dei capi di Stato e di governo[10].
Il vertice ha allargato negli ultimi anni il bacino degli argomenti di discussione, cominciando ad affrontare i grandi problemi del mondo. A titolo di esempio, il dibattito si è concentrato sul cambiamento climatico, questione che inevitabilmente interessa la collettività globale.
Conclusioni
Gli accordi commerciali hanno subìto numerose trasformazioni, dovute a contingenze storiche particolari. Alla fine del secondo conflitto mondiale, le potenze vincitrici contribuirono alla creazione di un nuovo ordine commerciale, basato sulla centralità degli Stati Uniti. Si è visto che fu un sistema chiuso, in cui i PVS non ebbero modo di far sentire la propria voce e imporre le loro priorità. Bussarono più volte alle porte dell’Assemblea generale ONU. I Paesi sviluppati riuscirono a delegittimare l’ONU attraverso una serie di riunioni informali, i vertici “G”, in cui discutere delle politiche commerciali e di quelle da seguire.
Le economie dei Paesi emergenti hanno costretto le nuove potenze a una rivalutazione dell’assetto mondiale: un gruppo ristretto come quello del G7/G8, in cui non sono rappresentate le nuove realtà emergenti, era insostenibile. Nuove potenze economiche premevano per entrare nel circolo dei grandi vertici finanziari, in modo da poter discutere dei problemi connessi ai loro territori. A ragion veduta, le potenze industrializzate, riconoscendo la realtà di un mondo interconnesso e globalizzato, hanno allargato i loro summit a una rappresentanza di Paesi più ampia (G20), al fine di affrontare questioni a carattere trasversale. Un tema che ha ricevuto una forte attenzione negli ultimi anni è il climate warming (riscaldamento climatico): la desertificazione di alcuni territori ha provocato un’imponente migrazione climatica, aggravando l’emergenza migranti nei Paesi occidentali.
Le relazioni Nord-Sud sono al centro del nuovo ordine globale: il nuovo che avanza, la Cina, ha sviluppato rapporti di cooperazione win-win, in cui gli accordi raggiunti portano dei vantaggi per entrambe le parti in causa. Ciò ha destabilizzato le potenze occidentali: i Paesi in via di sviluppo, come i territori africani, hanno instaurato dei rapporti di forte collaborazione con la Cina, arrivando a completare dei progetti di notevole importanza[11].
Il cambiamento di prospettiva dei rapporti Nord-Sud ha colto di sorpresa gli Stati Uniti, i quali stanno perdendo il predominio che hanno sapientemente instaurato nel Secondo dopoguerra: il loro atteggiamento egemonico non riceve più dei buoni riscontri.
Tiziano Sestili per www.policlic.it
Riferimenti Bibliografici
[1] A. Polsi, Storia dell’Onu, Laterza, Bari 2015, p. 9.
[2] Woodrow Wilson fu il 28° presidente degli Stati Uniti. Dopo la fine del primo conflitto mondiale impose un nuovo assetto globale attraverso i cosiddetti “Quattordici Punti”, in cui auspicava la nascita di una Società delle Nazioni. Al riguardo si veda C. Carnevale, La rivoluzione di Wilson nella politica internazionale. Breve storia della Società delle Nazioni, in Policlic n. 10, aprile 2021.
[3] A. Polsi, op. cit., p. 12.
[4] Ibidem.
[5] Il GATT prevedeva delle riunioni, denominate “round”, in cui venivano ridisegnati gli accordi sul commercio internazionale. La maggior parte degli accordi prevedeva l’abbattimento graduale dei dazi.
[6] R. Cadin, Profili ricostruttivi e linee evolutive del diritto internazionale dello sviluppo, Giappichelli Editore, Torino 2019, pp. 41-42.
[7] Ivi, p. 43.
[8] Organization of the Petroleum Exporting Countries, organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio istituita nel settembre 1960 a Baghdad con la partecipazione di cinque Paesi membri (Arabia Saudita, Iraq, Iran, Kuwait e Venezuela).
[9] R. Cadin, op. cit., p. 46.
[10] F. Bruni, La storia del G20: dalle origini a oggi, ISPI, 5 ottobre 2020.
[11] Al riguardo si veda A. Lugli, La morsa politica della Cina all’interno delle Nazioni Unite. Perché i piani egemonici del Dragone passano anche attraverso l’ONU, in Policlic n. 10, aprile 2021.