Napoli: dalla fine dei Borbone al Risanamento

Napoli: dalla fine dei Borbone al Risanamento

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Intorno alla metà dell’Ottocento, in tutta Europa, erano i lavoratori della terra a costituire la maggioranza della popolazione attiva. Il mondo contadino, tuttavia, presentava delle differenze tra i vari Stati e all’interno di essi tra le singole Regioni. Con la rivoluzione industriale finì per crescere il numero di coloro che abbandonarono definitivamente le campagne per trovare lavoro nelle città. Ebbe allora inizio quel fenomeno noto come “urbanesimo” che avrebbe portato, nel giro di pochi anni, la maggioranza della popolazione a trasferirsi dalle campagne alle città[1].

La rivoluzione industriale dell’Ottocento comportò uno stravolgimento delle strutture sociali dell’epoca, determinando un’accelerazione di mutamenti che in pochi decenni determinarono una radicale trasformazione delle abitudini di vita, dei rapporti tra le varie classi sociali e dell’aspetto delle città. È in questo periodo che nascono le metropoli che oggi conosciamo. Le grandi capitali europee, come Londra, Parigi, Berlino, superarono in breve tempo il milione di abitanti rendendo necessari interventi urbanistici volti a ridisegnare la geografia delle città e far fronte ai nuovi problemi che l’impressionante sovraffollamento dei centri urbani iniziava a porre. Tale fenomeno riguardò anche il neonato Regno d’Italia.


Le trasformazioni nelle principali città italiane

La modifica delle delimitazioni territoriali delle città, il venir meno dei vincoli feudali, le ampie trasformazioni sociali del periodo successivo all’Unità d’Italia, resero necessario l’avvio di un processo di trasformazione urbana per far fronte alla frenetica crescita delle città che subirono una profonda crescita in termini demografici. Nei centri urbani si avvertirono maggiormente i mutamenti sociali con la repentina crescita di grandi sobborghi a ridosso delle città, a causa delle popolazioni che dalle campagne cercavano lavoro e migliori condizioni di vita nelle fabbriche cittadine. Dopo la metà dell’Ottocento molte città italiane furono interessate da tale fenomeno connesso alla crescente industrializzazione e al cospicuo incremento demografico. Vi fu un consumo di suolo maggiore a causa della diffusione di insediamenti edilizi poveri, che resero necessaria l’adozione dei primi piani urbanistici. Sebbene oggi si tratti di un imprescindibile strumento di legislazione territoriale, prima dell’Ottocento non si era posta l’urgenza di adottare piani del genere. Per far fronte alla costante crescita dei centri urbani e al progressivo incremento demografico, fu necessario un intervento legislativo in tal senso. A tal fine fu emanata la prima legge italiana in materia urbanistica, la legge n. 2359 del 1865, che attribuiva all’ente pubblico la prerogativa di esproprio per la realizzazione di grandi infrastrutture, come ad esempio ferrovie o strade, e per l’attuazione dei primi piani regolatori che avevano lo scopo di rendere l’aspetto delle città meno disomogeneo e caotico. Anche in Italia, dunque, si decise di seguire gli esempi di rinnovamento urbano che avevano caratterizzato Parigi, Londra e Vienna.


L’adozione dei primi piani urbanistici in Italia

Nel neonato Regno d’Italia l’ampliamento delle dimensioni urbane e le trasformazioni delle città avevano dato vita a nuovi centri che si affiancavano e si sostituivano a quelli tradizionali caratterizzati dalla presenza del municipio, della piazza in cui si svolgeva il mercato, della chiesa principale. Si avvertì l’esigenza di ridisegnare il volto della città per poter far fronte alle nuove esigenze connesse all’industrializzazione. Punti di riferimento divennero, quindi, le stazioni ferroviarie, il palazzo della Borsa, i tribunali, i magazzini o, nelle capitali, gli edifici dei Ministeri. Lo sviluppo urbano impose l’esigenza di affrontare i problemi igienici e sanitari dovuti al sovrappopolamento che favoriva la diffusione di malattie infettive, come il tifo o il colera, che avevano tassi di mortalità ancora elevati. Per far fronte a tali esigenze, dopo l’emanazione della prima legge urbanistica, la n. 2359 del 1865, le principali città italiane furono dotate di piani regolatori. Torino, prima capitale del Regno d’Italia, fu la prima a dotarsi di un piano urbanistico, seguita da Firenze, seconda capitale del neonato Regno, nel 1865; poi fu la volta di Roma che ne ebbe due, nel 1879 e nel 1883, anticipando il piano di Milano del 1884 e infine quello di Napoli del 1885.

Con l’approvazione dei piani regolatori le autorità pubbliche cercarono di facilitare gli spostamenti all’interno dell’area urbana: le polverose strade di fango furono sostituite con il selciato; i quartieri della periferia furono illuminati da lampioni a gas; furono introdotti numerosi strumenti volti a migliorare le condizioni di vita della popolazione attraverso la presenza di servizi commerciali, luoghi di svago o ritrovo (bar e ristoranti), punti di riferimento culturali come le scuole pubbliche. In breve tempo il volto delle città cambiò radicalmente e si avvicinò a quello che oggi conosciamo.


La situazione di Napoli dai Borbone all’Unità d’Italia

Napoli era nel 1861, anno dell’unificazione italiana, la città d’Italia con il più alto numero di abitanti. L’antica capitale del Regno Borbonico contava, infatti, ben 484.026 abitanti, quasi il doppio di Roma e Torino. La città partenopea per secoli aveva detenuto il primato assoluto derivante dal suo status di capitale. Già nel 1600 Napoli era il secondo centro abitato d’Europa dopo Costantinopoli e fu così densamente popolosa fino al 1656 quando un’epidemia di peste ne dimezzò il numero di abitanti. I Borbone di Napoli avevano elaborato, nel corso dei secoli, un vero e proprio piano per il governo del territorio. Numerose furono le leggi introdotte nel Regno delle Due Sicilie per far fronte al costante pericolo sismico che caratterizzava l’area vesuviana, attraverso un imponente riassesto idrogeologico del territorio. La particolare morfologia del territorio campano spinse Re Carlo di Borbone a formare una schiera di tecnici, cartografi e ingegneri che assicurarono, col tempo, il buon governo del territorio[2]. In tale cornice si inquadrano numerosi interventi di messa in sicurezza del territorio volti a scongiurare eventi naturali infausti per la popolazione. In quest’ottica di prevenzione si collocano i “Regi Lagni” un reticolo di canali rettilinei, per lo più artificiali, che si estendono su un’area di 1.095 km quadrati con cui furono arginate le frequenti inondazioni del Casertano e del Nolano, rendendo particolarmente fertili le aree agricole circostanti. Un altro importante intervento che i Borbone realizzarono fu l’adozione del regolamento antisismico del 1785, adottato da Ferdinando IV di Borbone dopo il disastroso terremoto che nel 1783 distrusse gran parte delle città in Calabria e Sicilia. Tale normativa prevedeva la costruzione delle cosiddette “case baraccate”, un’innovazione ingegneristica consistente nell’introduzione di una struttura tridimensionale in materiale ligneo nella muratura degli edifici. Tali costruzioni avevano una tale elasticità, leggerezza e resistenza da restare intatte nel disastroso terremoto che colpì Messina del 1908. Nell’ottica di prevenzione e di cura del territorio si colloca anche la costruzione dell’Osservatorio Vesuviano per il monitoraggio dei vulcani attivi, uno dei più antichi istituti di vulcanologia al mondo, realizzato nel 1841 per volere di Ferdinando II e presentato durante il VII congresso degli Scienziati italiani tenutosi a Napoli[3]. La città partenopea, sotto il governo dei Borbone, conobbe una particolare attenzione al territorio che non ha eguali nella storia italiana. Con la nascita del Regno d’Italia e la conseguente dissoluzione del Regno di Napoli, tutti questi provvedimenti furono sostanzialmente abrogati poiché venne estesa a tutti i territori italiani la legislazione piemontese che non prevedeva però idonee misure di contrasto alle calamità naturali, considerato che il Regno Sabaudo non era interessato da tali fenomeni.

La città di Napoli, la più popolosa del Regno Italiano, dopo il 1861 entrò in uno stato di profonda crisi per la perdita del suo precedente e secolare status di capitale. La diffusione del colera in città rese necessario l’intervento del legislatore per diminuire drasticamente la congestione abitativa al fine di evitare nuove epidemie. In questo contesto fu approvato il Piano per il risanamento della città di Napoli nel 1885.


L’approvazione del Piano di Risanamento del 1885 a Napoli

Già nel 1839 il Consiglio edilizio individuato con decreto di Ferdinando II di Borbone aveva identificato una serie di problemi nell’urbanistica cittadina che dovevano essere risolti. Tra i vari progetti vi rientravano la creazione di un quartiere operaio nella parte orientale, in vista di un ampliamento del porto e degli insediamenti industriali; la costruzione di quartieri residenziali lungo le colline del Vomero e di Posillipo; il rapido collegamento tra le varie zone della città mediante la creazione di funicolari; radicali interventi nel centro storico volti a “sventrare” interi complessi abitativi da sostituire con rettifili caratterizzati da maggior viabilità, come accaduto a Parigi con la creazione dei grandi boulevards. Alcuni interventi furono realizzati già in periodo borbonico: tra questi vi rientra la costruzione di Corso Maria Teresa, lungo 4 kilometri, una delle arterie principali di Napoli e considerata la prima tangenziale d’Europa aperta al traffico[4]. Il nome di tale strada, come quello di parecchie arterie e piazze, dopo l’unificazione politica dell’Italia fu mutato in onore al primo Re Vittorio Emanuele II di Savoia. Tuttavia, gli interventi preventivati dai sovrani partenopei, per una serie di lungaggini burocratiche unite al crollo del Regno borbonico, non furono attuati. Fu necessario attendere l’Unità d’Italia affinché tali progetti venissero realizzati. L’epidemia di colera che colpì la città nel settembre del 1884[5] rese necessario l’adozione di un piano finalizzato a migliorare le condizioni igieniche di interi quartieri, mediante un programma di demolizioni e ricostruzioni che determinassero un ammodernamento della città. Ad essere più duramente colpiti dal virus, infatti, furono i quartieri Vicaria, Porto, Pendino, Mercato, tutti caratterizzati da un groviglio di vicoli stretti ed edifici in parte fatiscenti. Nonostante diversi studiosi avessero evidenziato da tempo un collegamento tra abitazioni malsane e sviluppo di malattie infettive tra la popolazione, il governo post-unitario, preso da altri problemi quali l’alfabetizzazione e l’unificazione legislativa dell’Italia, trascurò, almeno in un primo momento, il risanamento urbano. Con lo scoppio dell’epidemia di colera, che causò la morte di circa 8.000 persone, la questione urbanistica non era più rinviabile.

Le condizioni in cui versava Napoli dopo l’unificazione politica, insieme alla violenza con cui l’epidemia di colera si diffuse in città, assunsero centralità nel dibattito politico e convinsero il presidente del Consiglio Agostino Depretis della necessità di “sventrare”[6] Napoli per porre fine, una volta per tutte, agli annosi problemi della città. In questo contesto, il 15 settembre 1885 fu emanata la legge per il risanamento della città di Napoli. Tale normativa presupponeva la bonifica dei quartieri bassi con finanziamenti statali, l’ampliamento della città con la creazione di nuovi rioni, la realizzazione di una rete fognaria di modo che l’utilizzo di acqua potabile fosse il più diffuso possibile. I principali fautori del progetto furono il ministro degli Esteri Pasquale Stanislao Mancini e l’allora sindaco di Napoli Nicola Amore. La bonifica dei quartieri bassi passava attraverso la creazione di una lunga arteria, una sorta di rettifilo[7], che collegasse la stazione ferroviaria con il centro cittadino. Il piano predisposto dall’ingegnere capo del Comune, Adolfo Gianbarba, prevedeva un grande intervento urbanistico destinato a mutare radicalmente il volto della maggior parte dei quartieri storici della città con la creazione di nuovi edifici, nuove piazze e nuove strade. L’intervento più urgente fu lo sventramento dei quartieri bassi, quelli maggiormente affollati e colpiti dal colera, ossia Pendino, Mercato, Vicaria, all’epoca situati sotto il livello dell’acqua. Fu elevato il livello stradale e fu costruito l’attuale Corso Umberto I, un’asse rettilineo che collegava la stazione centrale al centro cittadino. Si bonificarono le zone paludose e vennero creati i quartieri Vasto e Arenaccia, destinati alle famiglie operaie. Nello stesso periodo fu costruita la Galleria dedicata a Umberto I, che prese il posto del Rione Santa Brigida costituito da brevi vicoli descritti, già nel XVI secolo, come malsani, sovraffollati e teatro di delitti di ogni genere. I lavori, sebbene mastodontici, durarono appena tre anni e comportarono la riorganizzazione dell’intera rete fognaria, la costruzione di un ampio soffitto in metallo e vetro posto a 57 metri dal suolo e l’installazione di un impianto di illuminazione. La costruzione della Galleria Umberto fu realizzata per donare alla città di Napoli un elegante salotto per la borghesia partenopea e il Salone Margherita fu il primo Cafè Chantant[8] d’Italia destinato a diventare luogo di aggregazione per il ceto medio-alto.

Tuttavia, a una prima fase di concordia amministrativa caratterizzata dall’urgenza, seguirono anni di stallo dei lavori causati anche dalla commistione con la difficile congiuntura economica che caratterizzò l’Italia di fine Ottocento.

Galleria Umberto I. Fonte: Wikimedia Commons


Dal risanamento di Napoli alla speculazione edilizia

Con l’approvazione della legge per il risanamento della città di Napoli, il Governo aveva cercato di risolvere gli impellenti problemi igienico-sanitari della città contribuendo al tempo stesso a migliorarne il volto in ottica moderna. Le prime gare d’appalto furono stabilite con criteri molto rigidi e fu difficile trovare imprenditori disposti a sostenere gli elevati costi del risanamento partenopeo. Dinanzi a tali difficoltà, il governo Depretis decise di dar vita a un’impresa con capitale pubblico, la “Società per il risanamento di Napoli”. L’iniziale piano di risanamento, che aveva come obiettivo la bonifica dei quartieri bassi e il miglioramento delle condizioni di vita della popolazione, ben presto fu indirizzato verso finalità totalmente diverse. Come spesso accaduto nella storia d’Italia, l’interesse dei privati finì per prevalere su quello generale. Le pressioni delle società immobiliari e finanziarie che godevano dell’appoggio della dinastia sabauda nonché di buona parte della politica romana, ebbero come conseguenza lo sfruttamento di suoli per finalità edilizie e speculative. Molte delle società incaricate di risanare Napoli erano legate a istituti di credito romani o piemontesi, come la Banca Tiberina, che influenzarono profondamente il risanamento di Napoli, spesso stravolgendo in corso d’opera i progetti approvati dal Comune[9]. A tali criticità si aggiunse il commissariamento del Comune di Napoli nel 1891 che finì non solo per rallentare i lavori, ma anche per determinare un vero e proprio vuoto di potere colmato da interessi meramente speculativi. Le lungaggini nei lavori, gli scandali finanziari, gli illeciti amministrativi comportarono l’istituzione di una commissione d’inchiesta, presieduta dal magistrato ligure Giuseppe Saredo, sulla camorra amministrativa di Napoli. Tutto ciò ebbe conseguenze drammatiche sul volto della città di Napoli.


Il Risanamento di Napoli: un’opera incompiuta

La legge per il risanamento di Napoli, approvata con nobili intenti, finì per provocare sui suoli una speculazione edilizia fino ad allora sconosciuta. In quest’ottica nacquero i quartieri Vomero e Chiaia, destinati a diventare quartieri eleganti, razionali e ben collegati, grazie al contributo delle banche sabaude. Furono costruiti la nuova Piazza Vanvitelli, un ottimo sistema di fognature e vennero eseguiti una serie di interventi che ne fecero il luogo abitato dalla borghesia medio-alta della città. Del progetto originario contenuto nel Piano per il risanamento di Napoli rimase ben poco. Furono costruiti centottantamila metri quadrati a fronte dei trecentosettantacinque previsti, pari ad un quinto dell’intero Piano. I costi furono elevatissimi tanto che la società incaricata del risanamento fu più volte sull’orlo della bancarotta e successivamente ricapitalizzata. Emblematica è la vicenda di Lamont Young, un urbanista napoletano di origini scozzesi, che lavorò a progetti innovativi destinati a mutare il volto della città di Napoli. A lui si devono i progetti volti alla costruzione della prima linea metropolitana partenopea[10], peraltro mai realizzati, e del Rione Venezia fatto di canali, giardini e palazzi residenziali a bassa densità abitativa. La sua lungimiranza lo spinse a presentare un progetto volto a trasformare Bagnoli in un quartiere residenziale dotato di stabilimenti balneari e termali, alberghi e giardini. La sua idea rimase su carta e i terreni di Bagnoli furono acquistati dall’Ansaldo di Genova dove furono costruiti i complessi industriali dell’Italsider che, a distanza di anni dalla loro chiusura, continuano a deturpare una delle parti più belle della città di Napoli, considerata potenzialmente una grande risorsa turistica del territorio.

Complessivamente il Piano per il risanamento di Napoli con le conseguenti mutazioni urbanistiche contribuì a risolvere i bisogni igienici più impellenti della città, modificandone il volto. Nonostante questo, gli scandali, i continui ritardi, le speculazioni edilizie, la commistione tra imprenditoria e camorra, contribuirono a fare del risanamento una grande opera incompiuta e un’occasione persa per Napoli. La costruzione di grandi edifici destinati a uffici o dimora della media borghesia, non cambiò la situazione dei rioni popolari. Si ebbe una frattura tra gli appartenenti ai ceti medio-bassi e la ricca borghesia che, negli anni precedenti, avevano occupato le stesse zone della città. Tali interventi si limitarono, più che a risolvere effettivamente i problemi, a nascondere il degrado e la povertà dei quartieri più disagiati. L’assenza di un piano di edilizia popolare aggravò le conseguenze del sovraffollamento abitativo; una parte dei quartieri bassi, non interessati dal processo di sventramento, continuarono a essere il rifugio malsano per la popolazione più povera, diventata, col tempo, manovalanza della criminalità organizza, sfruttatrice delle condizioni di disagio lavorativo, sociale e culturale per incrementare i propri profitti.
Una parte dei problemi che ancora continua ad attanagliare la città di Napoli affonda le proprie radici nel mancato risanamento della città: un’occasione persa per il Mezzogiorno e per l’Italia intera.

Luca Battaglia per www.policlic.it


Riferimenti bibliografici

[1] G. Sabbatucci, V. Vidotto, Il mondo contemporaneo, Editore Laterza, 2019, Roma, p. 12.

[2] Angelo Forgione, Made in Naples. Come Napoli ha civilizzato l’Europa (e continua a farlo), Magenes editore, 2013, p. 132

[3] Macedonio Melloni, Discorso per l’inaugurazione dell’Osservatorio Meteorologico Vesuviano, Atti VII, Congresso Scienziati Italiani, 1845.

[4] Italo Ferraro, Napoli: atlante della città storica, Volume 3, CLEAN, Napoli 2008.

[5] La città di Napoli fu colpita tre volte da un’epidemia di colera in vent’anni, rispettivamente nel 1855, 1866 e nel 1873, prima della nuova ondata scoppiata nel 1884.

[6] Il termine “sventrare” è da considerarsi come un neologismo coniato dal Matilde Serao nella prima edizione de “Il Ventre di Napoli”.

[7] L’attuale Corso Umberto I è noto – non solo tra i napoletani – proprio con il nome di “rettifilo”.

[8] La storia del “Cafè Chantant” affonda le sue radici nella Parigi del Settecento, in un’epoca in cui la capitale francese divenne il centro propulsivo della Bella Epoque. Questi luoghi miravano a creare una rinnovata atmosfera di benessere spingendo le persone a ricercare svago e bellezza.

[9] Si veda Emanuele Del Ferraro, Il take-off industriale italiano, Policlic.it.

[10] Renato De FuscoFacciamo finta che: cronistoria architettonica e urbanistica di Napoli e dintorni in scritti brevi dal ’50 al 2000, Liguori editore, collana Metropolis, Napoli, 2004.

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