Socialità e Smart city

Socialità e Smart city

Basi teoriche per un’analisi sociologica

Oggi più della metà della popolazione mondiale vive in città[1]: sono 28 le megalopoli con 10-20 milioni di abitanti e circa cinquanta gli insediamenti che vanno da 500.000 a un milione di abitanti, governati da nuove leggi economiche e nuove tecnologie[2]. In passato i sociologi hanno analizzato le città concentrandosi sui nuovi assetti urbani, studiandone i gruppi sociali e gli stili di vita. Queste analisi oggi non risultano più soddisfacenti, poiché nel tempo sono emersi elementi rivoluzionari, come la diffusione di internet in tutti gli ambiti della vita quotidiana, che hanno modificato radicalmente il profilo della città. L’economia ormai globale, insieme alle nuove forme di comunicazione, ha ridisegnato i confini della realtà umana e, di conseguenza, influenzato profondamente le dinamiche sociali, economiche e politiche. Le città sono un polo essenziale di attrazione per le attività umane, e molte di esse si stanno orientando verso una nuova fase della loro vita, quella smart. Questo fattore è cruciale nei cambiamenti a cui stiamo per assistere, cambiamenti con prospettive però incerte.

Il nuovo modello cittadino che si sta delineando avanza l’idea e l’obiettivo di ridurre le distanze fisiche e virtuali grazie alle nuove reti di comunicazione e alle tecnologie IT, che incidono non solo sulla comunicazione stessa, ma anche sulla mobilità, sul flusso di dati digitali e su altre sfere della vita quotidiana, come il lavoro. Proprio dal lavoro e dal suo nuovo assetto possiamo immediatamente notare come cambiano i confini spaziali: oggi si può tranquillamente vivere a Roma e lavorare per un’azienda di Milano o di Londra, e il modo di comunicare tra le aziende e i lavoratori stessi non si basa più su una vicinanza meramente spaziale. Secondo Castells[3], è a partire da questi esempi che si sviluppa lo studio della città smart, distinguendo lo spazio dei flussi e lo spazio dei luoghi[4].

Lo speciale rapporto dialettico tra l’insieme delle strutture sociali che guidano i comportamenti degli individui e la necessità di emanciparsi dai vincoli e dai condizionamenti del vivere in società è stato analizzato da più sociologi durante gli anni, alcuni dei quali avevano già intuito la centralità dell’uomo nel contesto urbano. La città, infatti, offre una dimensione privilegiata per analizzare questo rapporto poiché più popolata rispetto alle campagne e con più attività economiche, ruoli sociali, aspetti culturali.

Simmel, come anche Weber, non vede l’uomo come partecipante attivo della vita cittadina ma quasi come vittima, ormai consumato dai ritmi frenetici della città industriale: in base a tale immagine teorizza la figura dell’uomo blasé[5]. La personalità dell’uomo blasé è caratterizzata dalla noia e da un “attutimento della sensibilità rispetto alla differenza delle cose”: il blasé vede tutto in modo grigio, uniforme e non ha preferenze. Questo stato d’animo è il riflesso fedele dell’economia monetaria e di quanto questa abbia profondamente influenzato la totalità della vita, producendo gli innumerevoli stimoli nervosi che sono tipici della metropoli. L’individuo è esposto a così tanti stimoli che alla fine smette di reagire, e persino i rapporti interpersonali vengono vissuti in maniera superficiale. Simmel parla infatti di un atteggiamento di “riservatezza” tra gli abitanti di una metropoli, il quale altro non è che una forma di protezione individuale. Se il cittadino della metropoli industriale, che è continuamente esposto a interazioni di ogni tipo, si dedicasse interiormente e in maniera profonda a ciascuno di questi incontri (così come avviene nei piccoli paesi in cui si conosce quasi tutti gli abitanti), ne uscirebbe del tutto disintegrato[6].

Il cittadino della smart city è invece una parte attiva del tessuto urbano e di quello sociale: non subisce la città, ma la crea in base ai propri bisogni. Le basi di questa idea sono state poste dalle analisi condotte da Henry Lefebvre. La riflessione di Lefebvre parte dalla necessità di situare spazialmente il “concreto umano”[7] nella vita quotidiana in un’ottica marxista, elaborando così una teoria che cerca di applicarsi a ogni ambito dello spazio urbano: il diritto alla città. L’idea marxista secondo cui lo spazio esiste solo nel tempo viene superata e sostituita da quella di Lefebvre, in cui lo spazio è un’astrazione concreta: è un prodotto materiale delle relazioni sociali e una manifestazione delle relazioni stesse. I rapporti sociali e lo spazio urbano sono, così, strettamente collegati dalla vita quotidiana. Proprio questa stretta relazione tra il quotidiano e lo spazio urbano ridisegna il volto della città, proiettandola in una dimensione spaziale che non sia solo fisica.


Le nuove frontiere della socialità e i suoi limiti

 

Fonte immagine: Wikimedia Commons

“Una città è un insediamento umano in cui è probabile che individui estranei si incontrino.”[8] È questa la definizione classica che dà Sennett della città e che ben si adatta alla smart city. Il sistema di reti che connette l’individuo, tramite il suo dispositivo mobile, a qualsiasi sfera della vita quotidiana facilita l’incontro “virtuale” e continuo con estranei. Nella città del futuro, infatti, oltre allo spazio fisico a noi ben noto, se ne sovrappone un altro virtuale, invisibile ma sempre presente. Alcuni elementi dello spazio digitale, inoltre, stanno già sostituendo massicciamente quelli dello spazio fisico: basti pensare alle piattaforme di acquisto online o di progettazione di interni per la casa che offrono la possibilità di non spostarsi dal proprio divano. Lo spazio digitale non ha confini fisici, e in esso si annulla ogni distanza che nella realtà è oceanica. Ciò permette all’individuo di rapportarsi con persone che condividono non per forza lo stesso pianerottolo o la vita lavorativa, ma magari interessi e valori, pur trovandosi in diversi continenti. Questo modo di interagire online cambia inevitabilmente il modo di rapportarsi dell’individuo, la sua relazione con l’altro e anche il significato di comunità. La diffusione delle Virtual Communities è certamente favorita dall’incremento dell’uso di massa di piattaforme social, tra le più famose Facebook, Linkedin e Instagram.

Quanto però la comunicazione online favorisce lo sviluppo di nuove comunità, e quanto invece provoca l’isolamento personale? Sembra che si stia affermando una nuova forma di comunicazione, adatta alle tecnologie correnti, che unisce le persone intorno a interessi condivisi e comuni valori, anche se il grado di socialità varia[9]. Le comunità virtuali non devono però essere assimilate a quelle fisiche: le dinamiche cambiano, hanno regole proprie e fanno riferimento a una “nozione idilliaca di società che probabilmente non è mai esistita nemmeno nelle società rurali”[10]. Le comunità virtuali agiscono a un livello di realtà diverso; sono reti sociali interpersonali basate spesso su legami deboli, ma in grado di generare reciprocità e sostegno attraverso l’interazione prolungata. Inoltre superano le distanze a basso costo e combinano la veloce disseminazione dei mass media con la diffusione pervasiva della comunicazione personale[11]. Questi tipi di comunità favoriscono un’aggregazione sociale che non si verifica spesso nella vita reale: “un’aggregazione fatta di pura e semplice uguaglianza […] che in forza di tale motivo non è problematica, non richiede alcuno sforzo o vigilanza”[12].

Nella comunità virtuale, quindi, spesso l’agire sociale è alleggerito e quasi privo di responsabilità, fermandosi tendenzialmente agli strati più superficiali della personalità individuale. Le tecnologie digitali andrebbero intese come un’estensione e potenziamento della nostra identità. In effetti, uno dei primi studi psicoanalitici sugli utenti di internet (su una comunità di giochi di ruolo fantasy)[13] ha dimostrato che tali utenti costruivano un’identità fittizia che dava libera espressione alla propria personalità. Un altro studio, condotto da ricercatori della Facoltà di Psicologia della Carnegie Mellon University e incentrato sul benessere psicologico e sul coinvolgimento sociale negli anni 1995-1996, si è dimostrato all’avanguardia: a un maggior uso di internet corrispondeva una riduzione della comunicazione con i propri familiari, nonché un aumento della solitudine. Nel contesto attuale, la diminuzione di interazione sociale e dei rapporti vis-à-vis causata dalla maggiore attenzione ai nostri smartphone è definita col termine phubbing. L’eccessivo utilizzo delle tecnologie e le frequenti interazioni online aumenterebbero il rischio di isolamento sociale e di solitudine nel reale[14]; di conseguenza, anche la capacità di socializzazione e l’intelligenza emotiva risulterebbero intaccate.

Nonostante la grande diffusione di mezzi e strumenti per fare parte del mondo online, sussiste una percentuale di popolazione che rimane esclusa, in parte o totalmente, dalla nuova frontiera della socialità. L’esclusione è dovuta non solo alla mancanza di mezzi o di rete stessa, come può accadere nei Paesi in via di sviluppo, ma anche a fenomeni come l’analfabetismo digitale, l’uso di tecnologie ormai vetuste o semplicemente la mancanza di interesse nell’utilizzo di internet: ciò comporterebbe quello che viene definito come digital divide.

Il digital divide non è solo la differenza tra chi “ha” e chi “non ha”, ma anche tra i diversi tipi di accesso: quest’ultimo è definito formale nel caso in cui sia garantito da mezzi o infrastrutture, ed efficace in base all’adeguamento di questi ultimi alle esigenze e al concreto uso dei beneficiari[15]. Ne consegue che a contribuire al digital divide vi sono anche fattori come l’interesse nell’uso di internet, l’istruzione, nonché la posizione sociale e le motivazioni individuali: la divisione digitale, infatti, rispecchia anche determinate disuguaglianze sociali, che si riproducono fedelmente nel cyberspazio. Le relazioni interpersonali, tuttavia, aiuterebbero a compensare le difficoltà di accesso e a rafforzare la conoscenza e l’uso del web, permettendo così di superare, almeno in parte, questa divisione. Nelle relazioni c’è sempre una differenza, che sia generazionale o culturale; questa differenza stimola la relazione e può portare a uno scambio di informazioni e pensieri, quindi anche a un arricchimento o a un superamento di difficoltà di varia natura, come possono essere quelle presentate dal digital divide.


Cittadinanza attiva nell’era digitale

La società 2.0 pone l’uomo al centro e bilancia progresso economico e soluzione di problemi sociali, attraverso un sistema che fonde il cyberspazio con lo spazio fisico: si immagina infatti che uomini e macchine interagiranno in maniera sinergica al fine di ottenere la massimizzazione dei benefici dei prodotti considerati. In un panorama del genere il fulcro della smart city è individuato nella partecipazione delle persone, intesa sia come processo democratico sia come elemento costituente del paradigma smart:

Senza partecipazione dei cittadini non esiste smart city, e non solo perché gli obiettivi di qualità della vita che indirizzano la smart city si declinano nel concreto e nel territorio attraverso il coinvolgimento della popolazione come principale “stakeholder”, ma anche perché i servizi di una smart city vivono grazie ai contributi e all’interazione costante con i cittadini.[16]

Il coinvolgimento dei cittadini è dunque fondamentale, visto che le comunità intelligenti si costruiscono nel territorio, dove esigenze specifiche devono trovare risposte flessibili e dinamiche: si parla infatti di “partecipazione 2.0”, un percorso tutto in salita e ancora troppo nuovo perché si possa avere piena cognizione di quali siano i vantaggi e i sensi di inclusione e deliberazione. Le prime analisi condotte sul fenomeno della partecipazione pubblica su ventidue casi di processi partecipativi hanno messo in evidenza come non ci siano risultati identici o comunque tendenzialmente simili, ma ogni caso vari sia in base alla natura del soggetto valutatore, sia in base alla sua collocazione nel processo di policy[17]. Inoltre, gli studiosi sollevano la questione del “come” i cittadini potranno influenzare la dinamica del decision making: una posizione che purtroppo rimane confinata ad ambiti non economicamente incisivi e strategici per le politiche della città. Un lavoro di ricerca più recente e svolto nel territorio italiano ha osservato come la nuova governance dischiuda la possibilità di un terzo tipo di legittimità[18]. Secondo questo studio, la legittimità democratica di questi processi non deriva dal numero dei partecipanti ma dalla qualità deliberativa delle interazioni, garantita dalla strutturazione del processo. L’analisi sulla partecipazione 2.0 vede coinvolti chiaramente sistemi ICT[19], componenti decisivi dell’inclusività: la “seconda generazione” di processi partecipativi è caratterizzata da un esplicito rinnovamento degli strumenti utilizzati, tra cui Electronic Town Meeting, Giurie di Cittadini, Open Space Technology, Bar Camp.

Per quanto riguarda l’Italia, diverse sono state le leggi regionali che hanno portato a un’apertura verso l’organizzazione smart della governance, come la legge regionale Toscana del 27 dicembre 2007, n. 69, intitolata “Norme sulla promozione della partecipazione alla elaborazione delle politiche regionali e locali”, e la legge regionale Emilia Romagna del 9 febbraio 2010, n. 3, intitolata “Norma per la definizione, riordino e promozione delle politiche regionali e locali”[20]. Da queste leggi, definite pionieristiche, si evince un protagonismo delle amministrazioni regionali, in particolar modo quelle in cui la tradizione di dialogo e confronto tra società civile e istituzioni è sempre stata presente.

Dalle analisi condotte[21] si evincono più criticità che vantaggi: i limiti delle policy in una prospettiva di e-democracy riguardano la ridotta partecipazione, dovuta a una scarsa alfabetizzazione digitale (sia nelle pubbliche amministrazioni sia nei cittadini) e alla mancata “cultura della partecipazione”, sottodimensionando così l’aspetto deliberativo e riducendo le piattaforme di e-democracy da strumenti di consultazione e deliberazione a meri mezzi di informazione[22]. Inoltre, data la natura aperta degli strumenti partecipativi, si presenta la questione dell’autoselezione dei partecipanti, con il rischio di una radicalizzazione del divario fra una minoranza di cittadini attivi, di solito rappresentativi di una parte più istruita, e una maggioranza di cittadini non attivi e sfiduciati. Nonostante le numerose criticità riscontrate, il tema dell’inclusività e della partecipazione sono centrali nei processi di governance, sia sul territorio italiano sia nei progetti europei di smart citizenship: ne è un esempio Barcellona.

Alla luce della disamina appena effettuata, una, in particolare, è la criticità che si staglia con evidenza: nonostante la chiara efficienza del paradigma smart e la necessità di ridisegnare il rapporto umano con l’altro, con la comunità e, in particolare, con l’ambiente, non è possibile affermare quanto questo modello possa portare realmente all’uguaglianza e alla partecipazione se a monte non si situa una concreta volontà politica che operi affinché le disuguaglianze digitali a livello di istruzione e di partecipazione svaniscano. Inoltre, sarà interessante studiare l’evoluzione del modello smart in base alla società in cui verrà applicato, date le difficoltà che possono incontrarsi in alcune regioni piuttosto che in altre. Tra gli altri, un interrogativo resta privo di risposta: l’attore sociale sarà in grado di governare coscientemente le macchine e quindi le tecnologie connesse alla smartness? Oppure vi è la possibilità che queste ultime prendano il sopravvento, creando dipendenze, riducendo le interazioni umane e portando a un’incoscienza irrazionale?

Micol Pietrini per www.policlic.it


Note e riferimenti bibliografici

[1] Il tema della città è stato sviluppato in Policlic n. 6, dicembre 2020.

[2] C. De Seta, La città da Babilonia alla smart city, Rizzoli, Milano 2017.

[3] M. Castells, The rise of network society. The information age: economy, society and culture, Blackwell Publishing Ltd, Oxford 2000.

[4] Lo spazio dei flussi crea una connessione tra luoghi fisicamente divisi, mentre lo spazio dei luoghi è lo spazio fisico nel quale sono vissute le esperienze di connessione.

[5] G. Simmel, La metropoli della vita e dello spirito, a cura di P. Jedlowski, Armando Editore, Roma 2010, pp. 42 sgg.

[6]  Ibidem.

[7] H. Lefebvre, Critica della vita quotidiana, vol. I, Dedalo, Bari 1993.

[8] R. Sennett, The fall of public man: on the social psychology of capitalism, Knopf, New York 1978.

[9] La tesi è sostenuta da Howard Rheingold e William Mitchell, citata in M. Castells, op. cit.

[10] Ibidem.

[11] Ibidem.

[12] Z. Bauman, Modernità liquida, Editori Laterza, Bari 2011.

[13] S. Turkle, La vita sullo schermo. Nuove identità e relazioni sociali nell’epoca di Internet, Apogeo, Milano 1997.

[14] S. Turkle, Insieme ma soli. Perché ci aspettiamo sempre di più dalla tecnologia e sempre meno dagli altri, Codice Edizioni, Torino 2012.

[15] R. Iannone, Società dis-connesse. La sfida del Digital Divide, Armando Editore, Roma 2007, pp. 54 sgg.

[16] G. Iacono, Smart cities, ognuno per conto proprio, in “Agenda digitale”, 16 ottobre 2013.

[17] D.W.R. Sewell, S.D. Phillips, Model for the evaluation of public participation programmes, in “National Resource Journal”, XIX (1979), 2.

[18] L. Raffini, Dieci anni di sperimentazioni partecipativo-deliberative in Italia: un bilancio critico, in “Rivista di Studi Politici – S. Pio V”, XXIV (2012), 2, pp. 99-127.

[19]  ICT è l’acronimo di Information and Communication Technology. Queste “tecnologie dell’informazione e della comunicazione” sono utilizzate nella trasmissione, ricezione ed elaborazione di dati e informazioni.

[20] S. Bolognini, Dalla “smart city” alla “human smart city” e oltre, Giuffrè Editore, Milano 2017.

[21] L. Raffini, op. cit.

[22] Ibidem.

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