Sul concetto di “attivismo”

Sul concetto di “attivismo”

La paura e il cercarsi a vicenda in essa

Un sano realismo vorrebbe probabilmente che la ricerca di un nuovo o rinnovato attivismo (tale si può definire per gli amanti del progresso in primis e successivamente per gli amanti della storia) fosse induttiva e non deduttiva; ricavata cioè dai fatti e non dalle parole e  dall’esplorazione dei mondi anziché del linguaggio.

Che dunque si tratti di economia, sociologia e/o politica.
Di terra dunque, non di mente.

È un po’ un motto sotterraneo della sinistra che si oppone all’intellettualismo da accademia o peggio da salotto: che state voi infatti a creare collegamenti di riga in riga mentre sulla terra ci sono umani strangolati da strategie perverse? Serve, c’è bisogno di strategia, non d’astrazione.

Valeva bene pertanto (forse) l’analisi del potere di Michel Foucault, contrapposta da Koopman all’analisi del testo partita da Gadamer e poi arrivata fino a Rorty, Derrida ed Habermas : l’idea cioè che tutto fosse linguaggio e questo potesse essere interpretato ed infine decostruito.
Un’idea che si affrontava, in qualche modo, anche con Foucault sostituendo al linguaggio il potere allo scopo di entrare nella politica, uscendo dalla retorica.

Ma la politica era anche fatta tramite l’analisi, e quindi tramite il testo.
Così come l’analisi del testo entrava direttamente nella politica  (famoso a riguardo è il dibattito sul perdono tra Derrida e Jankelevitch) tramite la c.d. “governamentalità” e con lo studio delle narrative si legavano pensiero (e quindi il linguaggio) e potere in maniera inscindibile.

Qual è dunque l’ulteriore passo? Quale la soglia di accesso nella storia?

Forse la politica attiva: non l’ideologia, ma la negoziazione, nella quale si pone il linguaggio al servizio dell’azione.
Questo in particolare se si ritiene che il potere non si fermi con le parole, ma con il potere, anche quando questo non sia contrapposto bensì complementare all’idea di una partecipazione dal basso, egualitaria e diffusa.
Perché in un mondo di giganti che macinano enormi masse di dati, denaro e risorse rigettando sul pianeta idee, beni e servizi i girotondi non sono che ritualismo per esorcizzare la realtà prima che questa venga a schiacciarci : quella dei realisti non è dunque una mossa anti-intellettuale, ma bensì uno spostamento di focus verso i problemi politici esistenti e l’urgentissima necessità di affrontarli, anche con una visione di più ampio respiro ed il cinismo necessario a guardare negli occhi il “lato oscuro” della realtà e dell’umano.

Di fatto si tratta di due modi diversi di gestire la paura di un mondo caotico: tramite la struttura narrativa offerta dalla logica dell’analisi e dalla linearità del discorso oppure tramite la praticità dell’atto fisico ed una visione che dia la sensazione di un maggiore controllo nei confronti di un nemico globale e terribile.

Eppure di fronte a quest’ansia di controllo rimangono appesi i feticci che essa vorrebbe combattere: il rischio – la possibilità che qualcosa di negativo ci possa accadere -, l’incertezza – la non conoscenza della probabilità del rischio – e l’ignoranza – la non conoscenza anche solo della natura di tale rischio.

L’incognita di un mondo realmente più complesso o percepito come tale è sostanzialmente qui, e di fronte a tale incognita si apre la domanda implicita posta dal realismo e dal pragmatismo, nei confronti del post-strutturalismo e dell’utopia: su quali basi cioè si possa capire il presente per studiarlo e per reagire alle minacce.

A questo non può che seguire un’ammissione di ignoranza, la quale porta a non poter davvero trovare una risposta definitiva al potere, così chiudendo la linea d’ombra tra pragmatici e utopisti e tra realismo e post-strutturalismo. Se la realtà è infatti così complessa, ambigua e sfuggente già a pochi battiti di cuore dalla sua coltura, la stessa dimostrazione di questa percezione dovrebbe attraversare talmente tante aree della conoscenza umana da rendere impossibile una risposta esaustiva, figurarsi una teoria generale. Quindi invalidando la reazione.

Che ne facciamo quindi delle parole, se le parole non chiudono il cerchio o peggio – in quanto viste come narrative – creano strutture che non reggono il peso della complessità del reale?
In tal senso le stesse parole subiscono anche le dinamiche sociali, i rapporti di potere e l’influenza nefasta della retorica che rende una narrativa dominante sull’altra in base a dei meccanismi perversi, facendo delle parole un oggetto semmai ancora più pericoloso. L’opera d’arte diventa così nemica dell’opera nel mondo, un’arma nelle mani del potere: il ritiro dal mondo nell’accademia o il rovesciamento degli ideali nella corporate ideology*.

Che si tratti dunque di realismo di destra o di sinistra, l’utopismo – in particolare quello del mondo neo-liberale e della fine della storia – sembra uscirne tremendamente sconfitto, impotente di fronte al potere e alla violenza scatenata dal crollo del progetto del mondo unipolare quanto della fine delle ideologie.

Serve di nuovo – e soprattutto – strategia, non parole, perché la storia tira da un’altra parte e citando un pensiero di Antonio Gramsci:

“Il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri.”

Bisogna fare presto.

Cercatori e collezionisti

Quindi un mondo caotico e una sinfonia di narrative discordanti giunte ad un livello di sofisticazione tale da trasformarsi da strumento ad arma.
La rete di comunicazioni che servono a dare significato catturando il mondo all’interno dello spazio del “comprensibile” e portando il proprio messaggio verso l’altro sembra compromessa : come organizzare allora l’attivismo se le parole hanno perso di significato o se vengono utilizzate come mezzi, nella guerra tra le ideologie, per assoggettare (anziché raggiungere) l’altro tramite la logica e la retorica? Il realismo vuole in parte riscoprire il senso delle parole, in parte crearne di nuovo, ma lo strumento rimane spuntato.

Ma sono le parole ad essere spuntate o siamo forse noi ad esserlo?
Probabilmente entrambe le cose, perché se le parole non riescono a trasmettere nella sua essenza il messaggio, l’uomo non può a sua volta concettualizzare ed agire se non nel suo limite. Colto nella rete delle azioni e delle parole che concorrono a costruire il cambiamento nell’ambiente che lo ospita, l’individuo è costretto ad una continua interazione con gli altri individui, animali e cose ; un’interazione fatta anche di mediazione, negoziazione e conflitto.

All’uomo utopista sembra quindi non restare che una navigazione indipendente nel passare del tempo e delle interazioni che esso condurrà, limitato nella non-devianza dal sistema e portato ad un cambiamento solo marginale: come un giocatore di teoria dei giochi infatti,  l’individuo non cambia gli elementi portanti  (attori, azioni possibili e conseguenze) – ma solo le proprie scelte all’interno di questi rigidi parametri.

Paradossalmente lo scardinamento del sistema viene preso in carico proprio dal realista, mentre all’utopista non resta che la lotta intimista e quasi mistica affidata alle micro-scelte dell’esistenza quotidiana, come nell’elegante danza di un pesce rosso che aspetta giornalmente un nutrimento che forse un giorno non verrà, lasciandolo sofisticato ma morto.

Nella scelta si possono così distinguere tre livelli : quello dell’utopismo extraterreno, quello del realismo e quello dell’utopismo sotterraneo. Il primo vuole portare il paradiso in terra, il secondo vuole rendere la terra un po’ più felice senza pensare troppo al paradiso mentre il terzo trova il paradiso sparso in mille frammenti sulla terra e lo eleva al cielo.

L’utopismo extraterreno non rivive se non tramite piccoli echi principalmente nei temi legati alla tecnologia, all’esplorazione spaziale e alla nuova frontiera, quella delle missioni di esplorazione e colonizzazione di altri pianeti (ad esempio Mars One), ma ha anche un impatto su quel sentimento che cerca un altro mondo non attraverso la politica classica (partiti, movimenti e simili) ma tramite nuove forme di aggregazione e di attivismo (in parte, dai c.d movimenti dal basso).
D’altronde, e la parabola del M5S dovrebbe dimostrarlo, spesso l’utopismo extraterreno è cavalcato da realisti fin troppo pragmatici e decisamente poco affezionati all’utopia mentre aspirano molto al potere che ne deriva.

Il realismo – quello sano che non serve da maschera alla brutalità – si è liberato del peso dell’utopia per perseguire obiettivi più raggiungibili e per mettere un freno reale all’avanzata dell’odio.

L’ utopismo sotterraneo infine trova le ragioni per combattere l’odio, ma soprattutto trova le ragioni per voler creare un contatto con esso, perché l’odio è in ognuno di noi in quanto misto alla paura e al sentimento ; cercarlo dunque solo nel nemico non solo ci inimica dinnanzi agli altri, ma allo stesso tempo alimenta l’odio stesso.

La “golpe” ed il “lionedi machiavellica memoria, il governo e la forza/mano militare, non possono vivere senza il monachesimo o il poeta.
E’ probabile che un realista aggiungerebbe : neanche il contrario.
Ma almeno il lione e la golpe sapranno trarre dal monaco o dal poeta il bisogno di proteggere non solo la carne o la cultura ma anche l’umano, fosse anch’esso il nemico?

È qui che diventa problematica l’utopia, perché ritorna il dibattito del diritto e dell’etica come i mondi che “dicono la verità al potere” oppure “consigliano il Re”, comunque limitando il loro ruolo nel recinto di ciò che si dovrebbe fare, non ciò che si farà.

Mentre l’utopista extraterreno ha dalla sua l’opzione della lacerazione, cioè la scelta di distaccarsi dal mondo creando comunità indipendenti oppure di aggredirlo per rovesciare l’attuale gerarchia, all’utopista sotterraneo non rimane che cogliere l’epifania positiva, ossia cogliere i momenti di rivelazione della bellezza nel mondo.

Può farlo da cercatore di epifanie positive, come in fondo sono alcuni grandi fotografi e fotoreporter  (un esempio evidente è Faraci)  andando nel mondo a scavare per estrarre momenti e atti di bellezza.
Oppure può farlo da collezionista di tali epifanie, cercando di raccogliere quanto cacciato da altri e mettendolo a sistema (basti pensare a Atlas Obscura, un sito che si autodefinisce “la guida definitiva ai luoghi meravigliosi e curiosi del mondo”) Quello del collezionista è quindi un lavoro da divulgatore, ma la vera scoperta resta nelle mani del cercatore.

Cosa succederebbe però se l’epifania risultasse negativa? Tanti aggregatori oggi ricordano la natura profondamente controversa dell’attività umana : CorporateWatch ad esempio sonda il mondo economico dando un forte impulso sulle azioni scorrette di questa o quella azienda, mentre OCCRP analizza costantemente il legame ambivalente tra il crimine e la politica.
Anche qui insomma esistono cercatori e collezionisti e ognuno di loro, in qualche modo, si è trovato un compito.

Cercatori e collezionisti lavorano in maniera complementare, così come fa chi investiga quelle che diventeranno epifanie positive e negative. Entrambi mandano un impulso che la società può cogliere, un impulso che non indica banalmente cosa ricercare e cosa combattere, ma dona una visione non univoca, non lineare, contribuendo a mappare la realtà, la civiltà quanto la sua disgregazione.

Entangled: attori, scelte e conseguenze

Ma cosa può fare la specie umana, quella dei primi nuclei preistorici composti dai cacciatori-raccoglitori oltre a cercare e collezionare?
Una linea di analisi è quella che non porta dalla caccia alla creazione, ma alla trasformazione : l’essere umano si pregia infatti di essere a suo modo un creatore, dialogando con la macchina e sostenendo la propria specificità come consapevole e libero di generare una prole al di là dell’istinto di conservazione della specie (con buona pace di Arthur Schopenhauer). Si lega inoltre alla sua opera materiale, al legame lockiano, smithiano o fordista tra prodotto e produttore.

Eppure non è che un trasformatore che trae energia, materiale e informazione dal mondo per rigettarle nel mondo. L’entanglement con esseri umani, animali e cose è quindi inestinguibile, indistricabile nel flusso che compone l’affascinante materia che chiamiamo realtà – e che di nuovo si evolve anche senza l’uomo nell’interazione tra cose.
Anzi, si evolve in spirali, come la storia per Giambattista Vico e il poeta Ocean Vuong, un’immagine vecchia di secoli che collide perfettamente con una concezione del mondo caotica, dove la percezione ritrova nel presente schemi del passato (la storia come circolare) che potrebbero però svanire nella più lieve brezza dando vita ad una strada nuova e inesplorata.

Il flusso degli eventi sfugge così alla concezione di reale per inerpicarsi sulle vie della fisica teorica, della matematica, della filosofia teoretica o della cibernetica.

Il legame e la trasformazione sono quindi concetti chiave che indicano la via anche al livello di analisi più banale e scarno possibile: quello del rapporto causa-effetto.

Tale rapporto rimarrebbe valido anche di fronte a limiti nella nostra informazione – incertezza, rischio, etc. – o nell’ontologia stessa del reale – l’indefinitezza, cioè la non scomponibilità della realtà in entità distinte. Questi limiti ridurrebbero la probabilità e/o l’impatto del rapporto causa-effetto non l’esistenza di qualsiasi legame puramente empirico tra azione e reazione, tra ciò che faccio e ciò che ne consegue.

L’attivismo pertanto consiste nell’unione della consapevolezza della natura indefinita e spesso indecifrabile del reale con l’assunzione di responsabilità di fronte alla necessità di analizzare il mondo, cambiandone anche solo un frammento al fine di essere d’aiuto, non lasciando che la solitudine, l’ansia e la paura prendano il sopravvento. Dalla spinta morale deriva così una logica interpretativa del reale e del proprio ruolo e infine l’azione. E viceversa l’azione scatena una conoscenza che modella la morale, in un eterno contatto con sé e col mondo.

Warmonger e Peacemonger: essere pacifici in un mondo di conflitti

L’azione dev’essere – in pieno realismo – autorevole, perché l’azione non può essere efficace (o semplicemente essere) se non è legata al potere. Come in Singer e Friedman:  

“Essere potenti significa avere la scelta. Essere deboli non averla” (Singer, Friedman, 2014, p. 152).

Essere potenti assume però altrettanti significati quante sono le innumerevoli forme del potere : non a caso infatti l’essere potenti, nel mondo della sicurezza, significa innanzitutto saper ottenere, analizzare e verificare le informazioni al di là delle manipolazioni derivate dall’azione consapevole o inconsapevole degli altri, ma soprattutto della propria mente.

Significa poi essere coscienti del mondo esterno e dei rischi ad esso associato senza perdere la serenità, un equilibrio che il mondo della sicurezza definisce situational awareness e che il ninjutsu racchiude nel principio del saper essere nella luce senza dipenderne ed essere nell’oscurità senza diventarne parte.

Solo su queste basi si può poi riconosce il referent object, la materia oscura e preziosa degna di essere difesa, evitando di precipitare nella paranoia o nella securitarizzazione che inghiotte il mondo del politico in quello della sicurezza. In conclusione si arriva al potere come forza cinetica, come gli strumenti per giungere ad un compromesso col mondo dove il rischio residuo – quello che non possiamo eliminare – si avvicini il più possibile a quello accettato – quello dal quale siamo consapevoli di non poter evadere.

Da questo pur limitato punto di vista – quello della sicurezza – l’attivismo come il potere prende infinite forme, ridando spazio e dinamismo all’utopismo sotterraneo, quanto però al realismo: l’attivismo è espressione, quasi in una visione idealista slancio vitale.
È il piccolo sacrificio per una persona cara quanto manifestare per la caduta del regime.

L’enorme problematica sottostante alla non riducibilità dell’attivismo ad un mezzo o ad un fine – per quanto grande, che sia il bene, il progresso, la libertà, la democrazia – è il grandioso limite dell’utopismo sotterraneo, quello extraterreno, ma anche del realismo. Perché la lotta per il miracolo nascosto si perde in un intimismo che si incanala docile nella struttura, la lotta per la fine della storia finisce per devastare la struttura stessa, inondandola di caos.

Il realismo, da parte sua, usa metodi diversi dal potere per raggiungere lo stesso obiettivo o gli stessi metodi per raggiungere obiettivi diversi, diventando contro-potere e lasciando poi la stessa questione aperta dell’utopismo extraterreno, quando questo vince: cosa diventa il contro-potere quando ormai non ha più nulla ad opporlo, se non il potere che verrà un giorno osteggiato e opposto da altri? È un po’ anche la storia della democrazia, dove un nuovo sfidante emerge sempre per l’incombente, però è quantomeno ironico diventare prima o poi l’odiato nemico, ancor di più se questo avviene a ragione (è per me illuminante allegare a questa riflessione una citazione tratta dal film Il Cavaliere Oscuro:  “O muori da eroe o vivi tanto a lungo da diventare il cattivo”.)

Il limite di questa visione dell’attivismo – non una storia, non un fenomeno, ma una traccia, un’energia e un segnale – costa nel non poter legare il concetto a nulla, neanche all’umano. Perché legare l’attivismo all’umano significherebbe legare l’umano al bene, così mettendo un peso troppo grande sul piatto della bilancia che definisce ciò che è l’uomo, se un bene o un male, spingendo l’attivismo sul fronte dell’umanismo e dell’utopia, negando una strada al realismo quanto al transumanismo che vorrebbe il progresso come la strada tracciata verso il superamento dell’umano.

Al limite dell’invocazione dell’imprecazione contro l’autore di questo testo, l’attivismo non è e non può essere un dominio da detenere o contendere: semplicemente non è di nessuno e non può essere fatto proprio da nessuno perché appartiene a tutti. E questo rende terribilmente difficile la sua pratica, perché ogni essere umano ha il diritto di trovare la propria strada verso l’attivismo e solo tramite la mediazione, la negoziazione e l’ascolto dell’altro può raggiungere la sfera del politico – qui segnando devo dire a malincuore un punto per i realisti che ci avevano visto benissimo.

È quindi consequenziale dire che le ormai abusate parole del Mahatma Gandhi:

“Be the change you want to see in the world”

Non possono essere ridotte al “You be”, al tu sii, né tantomeno al “We are”, al noi siamo, ma all’ ”I are”, io siamo, io nell’accordo e nel conflitto scelgo con altri di essere qualcosa e di perseguire qualcosa. Io con altri veicolo l’attivismo come essere umano che partecipa ad un obiettivo che percepisco come comune. In un mondo fatto di danni strutturali dove dominano la ricerca della purezza e del controllo è una prospettiva spaventosa: non sappiamo cosa perseguiamo, come e con chi.

Questo ci fa sentire piccoli e impotenti, ma in realtà ci dà un potere diverso da quello individualista che fa del fallimento una colpa individuale, un assioma chiave nell’individuazione della devianza (v. Macioti, 2001, p. 21).

C’è infatti il potere di chi sa farcela da solo e quello di chi sa avvicinare gli altri facendoli parte della propria missione e diventando parte della loro. Si tratta di un concetto già affrontato nell’anime Naruto Shippuuden (ep. 420): al “genio”, il predestinato dotato di un talento quasi sovrumano si contrappone chi considera come priorità il team – il referent object, utilizzando i termini della sicurezza – sviluppando una forza diversa ma altrettanto capace di cambiare le sorti della battaglia.

Max Weber forse lo definirebbe potere carismatico, con tutte le problematiche che ne derivano, inclusi sia la difficoltà di interagire in assenza di una struttura legale stabile ma anche la problematica dell’effettiva integrazione del potere carismatico con il potere tradizionale e quello legale-razionale (per una definizione dei tre poteri vedere qui). Eppure è una visione che ci dà forza nella debolezza.

Da una condizione dove la devianza è stabilita dal potere e subita da chi il potere non lo ha, si creano le basi per una missione che sfugge tanto all’estetica dell’eroismo tratteggiata dai warmongers (i portatori di guerra o guerrafondai) – quanto all’estetica dei (finti) poveri – quella degli spot e dei libri motivazionali, sponsorizzati dalle corporazioni o pagati a caro prezzo dai wanna-be-happy**.
Saturi di design, pulizia e ricette verso un successo adatto ad essere sintetizzato in elenchi puntati, liste della spesa o presentazioni PowerPoint (o…ancora meglio…Prezi, un bel software per presentazioni d’avanguardia divenuto uno status symbol dei professionisti “in”).

I peacemonger invece, tramite l’attivismo, sfuggono dalla porta di emergenza sia agli eroi della guerra necessaria (perché con la guerra giusta invece dobbiamo conviverci tutti e dobbiamo armarci ogni tanto, fisicamente o moralmente, ma quella necessaria possiamo almeno abolirla), sia agli eroi dell’attivismo abbozzato da qualche creativo che pensa di salvare il mondo organizzando eventi di beneficienza dopo l’aperitivo con i colleghi.

Siamo in fondo una specie che ha bisogno di gesti perché i gesti hanno un significato che può essere trasmesso, ma questo nell’opera diretta dall’attivismo trova anche una sua manifestazione, una sua epifania. Da collezionista e cacciatore, ecco che l’uomo è divenuto creatore – anzi trasformatore – di epifanie.

L’altro non è più altro generalizzato, è un essere umano in carne, ossa e umanità che come noi trasforma. Il passo seguente è quello di decidere cosa si vuole – di qui l’etica e l’utopia sotterranea – cosa si può – e di qui l’analisi del potere, Foucault e il realismo – cosa si può volere – analizzare il successo, cosa significa davvero per noi e cosa invece ci è imposto.
Infine, cosa vogliamo non potere, il sottile limite tra avere il potere e avere più potere di quanto sia giusto accentrare in noi, di quanto sappiamo controllare, di quanto dobbiamo rifiutare perché in fondo siamo umani e forse dovremmo lasciare agli altri uno spazio.

Perché l’altro potrebbero insegnarci qualcosa, fosse anche una tra quelle che Friedrich Schiller definiva “grazia e dignità” ossia la levità di chi oggi ha vinto e la forza morale di chi oggi ha perso (Schiller, 2010).

Gli altri potrebbero voler comunicare, potrebbero voler essere comunità.
Così l’epifania diviene un dono, un dono che è creazione…o meglio, trasformazione.

Perché in fondo tutto è in prestito.

Francesco Finucci per www.policlic.it

Fonti

Macioti, M. I. (2001), Il concetto di ruolo nel quadro della teoria sociologica generale, Editori Laterza
Schiller, F. (2010), Grazia e Dignità, Sellerio Editore
Singer, P., W., Friedman, A, (2014), Cybersecurity and Cyberwarfare: What everyone needs to know, Oxford University Press

* Per “Corporate Ideology” si intende qui la visione e missione delle grandi corporazioni, estesa oggi ben oltre l’utilità dell’oggetto prodotto fino ad includere una vera e propria ideologia politica alla quale contribuiscono gli sforzi di molti artisti e creativi.

** I “wanna-be-happy” possono essere definiti come i fruitori della macchina ideologica motivazionale che sforna oggi decine di libri, articoli e spot su quanto sia bello il mondo ma noi non ce ne accorgiamo ma basta poco – davvero! – per essere tutti felici, realizzati, caritatevoli.

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