Sulla ciclicità del capitalismo

Sulla ciclicità del capitalismo

La parabola economica degli Stati Uniti

Quando si pensò che il capitalismo, essendo riuscito a sopravvivere al comunismo sovietico, fosse il sistema vincitore assoluto, destinato a non morire, probabilmente il mondo occidentale fu colto da una miopia a senso unico, soprattutto perché si tende preoccuparsi dei difetti e dei limiti del sistema rivale, ma non dei propri.

È ancora fresco il ricordo della crisi finanziaria ed economica di dieci anni fa. Un decennio non è sufficiente per poter analizzare in maniera esaustiva le cause complessive di quanto avvenuto, per definire in maniera chiara le possibili via d’uscita più durature e, in sostanza, imparare la lezione. Quest’ultimo è in realtà il problema più complesso. Non è un mistero che società e politica siano ancora scottate per i fatti avvenuti, soprattutto perché è stato necessario ricostruire un sistema economico in frantumi. Non è stato solo il crollo a mettere in crisi il sistema economico a tendenza occidentale. Nuovi competitor economici globali si sono affacciati da tempo alla finestra del mercato, facendo la voce grossa. Sistemi tecnologici potenziati rendono sempre più obsoleti i vecchi metodi di produzione, con tutte le conseguenze che questo fenomeno comporta nelle dinamiche lavorative e, per diretta conseguenza, sulle diverse società coinvolte.

Non è però la prima volta che ciò succede. All’inizio del secolo scorso, nell’arco dei primi vent’anni, straordinari cambiamenti economici hanno mutato radicalmente le società occidentali. Come mai? Quali strumenti consentirono quell’innovazione? Quali paesi furono i protagonisti di quest’ascesa? L’obiettivo di questo focus è quello di tentare di dare una risposta, breve ma più esaustiva possibile, a queste domande. Il punto di partenza dell’esposizione saranno gli Stati Uniti, esempio di paese che ha recuperato un gap notevole con il vecchio continente in poco tempo, facilitato da alcune condizioni economiche, territoriali e, per così dire, di circostanza. Questo stesso paese è riuscito nell’arco di un decennio a qualificarsi come paese con una crescita tra le più poderose della storia e, allo stesso tempo, a ritrovarsi con il proprio sistema economico collassato, inghiottito dalle storture che l’ascesa economica aveva creato. Tutto ciò si rese evidente in un non più anonimo martedì di settembre del 1929. Tanto negative furono le conseguenze di quel martedì 29 settembre da passare alla storia come “martedì nero”. Eppure, novant’anni dopo, siamo ancora qui a parlare di squilibri economici e finanziari e non solo in una prospettiva di analisi storica. Quanto avvenuto si è ripetuto, con delle ovvie differenze legate ai mutati contesti economici, finanziari e sociali. Eppure, il richiamo a quei fatti del secolo scorso è quasi naturale. Comprendere la crisi del ‘29, le cause, le conseguenze e tutto ciò che venne fatto dal governo statunitense per uscirne può essere utile oggi alle classi dirigenti mondiali che si trovano spesso a dover fronteggiare un capitalismo in continua evoluzione. Per fare ciò, è interessante ricostruire l’evoluzione del sistema economico americano, anche tornando più indietro nel tempo, senza aver paura di allontanarci troppo.

Si cercherà di comprendere la parabola dello sviluppo economico statunitense e di comparare, in maniera sintetica, i difetti, le cause, le conseguenze e le modalità per venire fuori dal collasso economico degli anni Trenta. L’ultima parte del focus tratterà dei limiti con i quali deve fare i conti il sistema capitalistico contemporaneo, frutto dei difetti funzionali dello stesso, per i quali si reputa necessario l’intervento delle autorità pubbliche.

Per comprendere le peculiarità e le potenzialità dell’economia degli Stati Uniti è necessario fare un passo indietro, ricostruendo il percorso di sviluppo avviato a metà del XIX secolo che ha condotto il paese al boom economico. Gli Stati Uniti hanno rappresentato un paradigma di ascesa economica quasi senza precedenti nella storia, trattandosi di una colonia scoperta quando le potenze europee avevano un dominio assoluto del mondo. Con la dichiarazione di indipendenza del 1776, il paese ha assunto la direzione della propria economia, dando ad essa un corso che, per numerosi aspetti, era piuttosto diverso da quello delle economie europee del tempo. Vediamo quali furono i vantaggi territoriali e materiali alla base di quest’ascesa.

Un primo fattore di vantaggio territoriale fu l’ampia disponibilità di risorse in rapporto alla popolazione. Gli europei che attraversavano l’oceano per giungere nel nuovo mondo vi trovarono un’abbondanza di risorse tale da rendere non necessari i conflitti per l’attribuzione delle stesse[1]. Al contrario, i problemi legati alla diseguale distribuzione delle risorse e alla loro scarsità in rapporto alla popolazione hanno sempre condizionato la storia del vecchio continente. Questo genere di criticità ha causato sia guerre tra stati, sia situazioni di conflitto interne agli stati stessi, con epiloghi spesso traumatici e cambiamenti radicali dei sistemi politici e sociali. La Rivoluzione francese e quella russa sono i due maggiori esempi, declinati in contesti storici e ideologici differenti. Tra le risorse presenti in abbondanza negli Stati Uniti spiccavano: l’immensa distesa di terreni; l’oro, che determinò il fenomeno americano della “corsa all’oro”; il petrolio, che diventò fondamentale nella fase matura dello sviluppo economico americano.

Data quest’abbondanza, non vi era la necessità di spendere energie e tempo in conflitti legati all’approvvigionamento di risorse, per cui i coloni poterono impegnarsi nel miglioramento dell’economia e nel continuo perfezionamento dei sistemi produttivi. Da questa ricerca è emerso un nuovo modello di impresa che avrebbe dominato lo scenario mondiale dell’economia. La grande impresa, l’archetipo delle moderne multinazionali, ha costituito il motore dello sviluppo americano, grazie alla capacità di pianificazione e di gestione delle risorse, della produzione e della commercializzazione dei beni prodotti.

La dimensione delle grandi imprese nel sistema economico americano fu determinata da tre aspetti: produzione di massa, commercio di massa e sviluppo delle ferrovie. Lo sviluppo della produzione e della commercializzazione di massa ha sicuramente incentivato la crescita delle grandi imprese, in un rapporto di reciproco condizionamento. In entrambi i processi il ruolo della ferrovia è stato determinante, sia per quanto riguarda l’evidente facilitazione del trasporto di merci e persone, sia per quanto riguarda i modelli gestionali delle imprese stesse, spesso emulati dalle grandi società ferroviarie. La rapida crescita delle tratte (e la mole di lavoro necessaria per la verifica del buon funzionamento delle stesse) resero necessaria la creazione di grandi organizzazioni con divisioni specializzate al controllo e alla gestione.

In merito alla produzione di massa, è bene sottolineare che essa non ha avuto lo stesso sviluppo in tutti i settori industriali, poiché alcuni più di altri erano meglio predisposti a recepire le innovazioni necessarie per raggiungere alti livelli di produttività. Allo stesso modo, tutti i miglioramenti apportati in ambito organizzativo dalle imprese, che operavano contestualmente nel settore del commercio e nelle ferrovie, sono stati condizioni necessarie ma non sufficienti per realizzare elevati standard di produzione. Per accrescere la produttività e lo scorrimento dei materiali all’interno delle unità produttive, era essenziale fare investimenti in tutti gli ambiti della produzione coinvolti. Per utilizzare i concetti di Marx, l’impresa aveva bisogno di investire sia in capitale costante e sia in capitale variabile, migliorando sia i macchinari e sia la forza lavoro, così come occorreva migliorare la preparazione dei dirigenti. Non bastava sostituire la manodopera classica con macchinari semplici per ottenere notevoli aumenti di produttività:

Il potenziale di espansione della velocità e del volume produttivi era basso nei settori industriali in cui la meccanizzazione era consistita semplicemente nella sostituzione di lavoro manuale con macchina relativamente semplici: questo era il caso ad esempio dell’abbigliamento, dell’industria del legno, dei tessili, dell’industria conciaria, della selleria, dell’industria del mobilio e dei rivestimenti edilizi, infine della stampa di libri, quotidiani e riviste. Una volta messe a punto le apparecchiature fondamentali, una migliore formazione delle maestranze e dei dirigenti poteva servire bensì ad accrescere la produttività dello stabilimento, ma l’incremento della produzione non poteva risultare in primo luogo che dall’aggiunta di nuove macchine e di nuove maestranze [2]

In quali settori ci fu questa combinazione di innovazioni tecniche e di migliore formazione professionale? E inoltre, dove vi è stata una massiccia introduzione di nuovi macchinari utili a un’ottimizzazione della produzione? Protagoniste principale furono la raffinazione, la distillazione, la trasformazione delle derrate agricole e le industrie per la lavorazione dei metalli. Tra le innovazioni più importanti introdotte in questi settori si possono citare la lavorazione con vapore surriscaldato e il cracking per velocizzare i processi di distillazione e raffinazione[3]. Per quanto riguarda invece la prima lavorazione dei metalli, a fare la differenza, ai fini dell’aumento della produttività, fu l’introduzione degli altiforni, processi di produzione a focolare aperto e il forno Bessemer, introdotto e migliorato negli Stati Uniti dall’ingegnere Alexander J. Holley.

L’introduzione di queste innovazioni in campo siderurgico è strettamente connessa con i principali clienti di questo settore: le grandi compagnie ferroviarie. Il contributo delle ferrovie non si limitò all’incremento degli ordinativi di acciaio. L’ingrandirsi di queste società e la necessità di gestire servizi sempre più ampi determinò lo studio e la messa in pratica di nuovi sistemi di gestione societaria. Questi modelli sono stati un esempio che le altre grandi imprese non esitarono a fare proprio. Le due figure di riferimento in questo ambito furono Frederik W. Taylor e Henry Ford. Entrambi tentarono di mettere a punto teorie e modelli organizzativi in grado di rendere più veloce la produzione. A distanza di circa un decennio dalla messa a punto delle teorie sulla divisione scientifica del lavoro di Taylor, Ford introdusse nelle sue fabbriche automobilistiche la catena di montaggio, un processo di produzione fondato sull’impiego di energia meccanica per regolare il flusso di materiali. Il vero nodo della questione fu l’insostenibilità di questi livelli di produzione raggiunti dalle imprese senza una proporzionale capacità distributiva dei prodotti (e di questo di tratterà nel prossimo articolo).

Assieme alla produzione massificata, la creazione di un commercio di massa permise alle imprese di trovare sbocchi pressoché immediati ai beni prodotti. Cosa portò a questa commercializzazione di massa? Principalmente due fattori: la definizione di nuovi modelli organizzativi d’impresa e lo sfruttamento delle nuove forme di comunicazione (ferrovie e telegrafo).

La crescita esponenziale dei commerci rese necessaria una profonda ristrutturazione delle imprese coinvolte, poiché il volume delle merci acquistate e vendute coinvolgeva sempre più forza lavoro. Così, nel periodo di tempo che va dalla metà del XIX secolo fino ai primi decenni del XX, crebbero a dismisura le nuove forme di distribuzione, come i grandi magazzini e le catene commerciali, responsabili della progressiva sostituzione dalla scena economica americana dei vecchi mercanti. Le imprese commerciali erano riuscite a creare un portafoglio di attività tale da coprire tutte le esigenze legate al trasporto di merci, così da rendere obsolete tutte le figure di intermediari. Uffici acquisti e uffici vendite divennero le colonne portanti di queste nuove imprese, in grado di veicolare grandi quantità di beni dalle industrie ai commercianti al dettaglio. Queste imprese divennero sempre più grandi e ramificate sul territorio, consentendo una gestione ottimale dei traffici, con una rilevante riduzione dei prezzi.

Si giunge così al terzo vertice del triangolo dello sviluppo degli Stati Uniti, ciò che ha materialmente consentito lo sviluppo della commercializzazione e quindi la sostenibilità della produzione, ovvero la diffusione delle ferrovie:

Sin dai loro inizi, pertanto, le nuove forme di trasporto e di comunicazione diedero luogo alla nascita di imprese articolate in unità molteplici e in questo senso aprirono la strada al big business moderno. Rendendo possibile un grado di velocità, regolarità e densità dei trasporti e delle comunicazioni per l’innanzi sconosciuto, esse ampliarono inoltre il mercato dei produttori di beni e di servizi del paese. L’abbassamento dei costi di distribuzione e l’incremento delle quantità producibili, resi possibili dalle ferrovie e dal telegrafo, servirono in primo luogo a incoraggiare lo sviluppo delle nuove tecniche di commercializzazione e produzione di massa, e poi a favorire l’avvento della grande impresa industriale, destinata ad integrare la produzione e la distribuzione di massa[4]

L’aspetto che è utile sottolineare è come la grande dimensione dell’impresa ferroviaria abbia contribuito anch’essa alla definizione di nuovi tipi di organizzazione per le imprese e alla creazione dei primi legami tra grandi compagnie e Wall Street, alla ricerca dei nuovi capitali richiesti dalle dimensioni di tali attività. La rete sempre più estesa con corse sempre più frequenti richiedeva sempre più personale e un’organizzazione sempre più grande e scientifica. Tutto ciò non era realizzabile senza le adeguate coperture finanziarie e infatti solo nel 1850, grazie ai moderni metodi di compravendita e trasferimento di titoli, le imprese ferroviarie avevano capitali raccolti del valore di oltre 700 milioni di dollari[5]

Con la tabella qui riportata, si vede chiaramente che lo sviluppo delle ferrovie degli Stati Uniti non ha eguali in nessun altro paese nell’arco di tempo considerato (1870-1913)[6]:

Nel giro di quarant’anni la rete ferrovia statunitense è più che quadruplicata, guadagnandosi il primato mondiale in termini di estensione. Questi vantaggi garantirono la crescita dell’economia, ma non furono esenti da conseguenze, sotto numerosi punti di vista. Stabilite così le basi dello sviluppo americano, nel prossimo articolo di tratterà dell’evoluzione di questo sistema economico nei primi decenni del Novecento: dai “ruggenti” anni Venti sino al crollo del 1929.

Luca Di San Carlo per Policlic.it


Fonti bibliografiche

[1] Zamagni, V. (2015). Perché l’Europa ha cambiato il mondo. Una storia economica. Bologna, Il Mulino, p. 113

[2] Chandler, A. D. (1992). Stati Uniti: l’evoluzione dell’impresa. In Storia Economica Cambridge vol. 7.2 (p. 89-165). Torino, Einaudi, p. 125

[3] Il cracking, un procedimento chimico di rottura delle molecole di idrocarburi, ha permesso di aumentare la resa del Kerosene del 20% rispetto ai metodi di lavorazione usati in precedenza

[4] Chandler, A. D. (1992). Stati Uniti: l’evoluzione dell’impresa. In Storia Economica Cambridge vol. 7.2 (p. 89-165). Torino, Einaudi, p. 121

[5] Chandler, A. D. (1992). Stati Uniti: l’evoluzione dell’impresa. In Storia Economica Cambridge vol. 7.2 (p. 89-165). Torino, Einaudi, p. 113

[6] Zamagni, V. (2015). Perché l’Europa ha cambiato il mondo. Una storia economica. Bologna, Il Mulino, p. 79

 

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