Il federalismo europeo dalla teoria alla prassi: intervista a Dastoli

Il federalismo europeo dalla teoria alla prassi: intervista a Dastoli

Questo articolo è estratto dalla rivista Policlic n. 2 pubblicata il 27 giugno. 

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Nell’inverno del 1941 Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi scrivevano sull’isola di Ventotene, dove erano confinati in quanto antifascisti, il Manifesto per un’Europa libera e unita. Il 12 maggio 1949 nasceva ad Anzio, altra località dall’indubbio valore storico, Pier Virgilio Dastoli, con il quale Policlic ha deciso di analizzare passato e presente del federalismo europeo.

Dastoli è stato assistente parlamentare di Altiero Spinelli alla Camera dei Deputati dal 1977 al 1983 e al Parlamento Europeo dal 1977 al 1986. Con lui ha vissuto l’esperienza del “Club del Coccodrillo” e fondato l’omonima rivista, che ha diretto dal 1980 al 1995. Negli anni ha ricoperto vari ruoli istituzionali a livello europeo e attualmente è Presidente del Movimento Europeo- Italia, dove continua nell’impegno per la traduzione dalla teoria alla prassi delle idee del Manifesto di Ventotene.

Presidente, in un certo senso partiamo dal principio. Nel 1941 gli antifascisti Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi pubblicarono lo scritto intitolato Per un’Europa libera e unita, progetto d’un manifesto. Quale fu lo spirito che animò quel progetto e cosa rimane, oggi, di quella spinta propulsiva?

Spinelli e Rossi, insieme a un gruppo di compagni di confino, in particolare l’ebreo socialista Eugenio Colorni e la moglie Ursula Hirschmann (poi divenuta moglie di Spinelli dopo l’assassinio di Colorni per mano fascista) e la moglie di Rossi, Ada, erano convinti – nel momento più duro della seconda guerra mondiale – che alla fine avrebbero vinto le democrazie contro il nazismo e il fascismo.

Erano tuttavia convinti che le democrazie nazionali non erano una garanzia di fronte al rischio della guerra e che l’unico modo di evitare che l’Europa fosse travolta un’altra volta dal totalitarismo e dalla guerra era di combattere nello stesso tempo due nemici: la sovranità assoluta, che era un problema mondiale, e lo Stato-nazione, che era un problema europeo. Per superare questi problemi, l’unica strada era quella di creare in Europa un sistema federale – gli Stati Uniti d’Europa – come tappa verso uno Stato e un governo a livello internazionale.

Per raggiungere questo risultato non bastava proclamare l’obiettivo dell’unificazione del continente come una bella utopia intellettuale, così come avevano fatto degli uomini di pensiero nel corso di molti secoli. Bisognava agire e far agire la generazione europea che sarebbe uscita dalla Seconda guerra mondiale, mobilitandola all’interno di un movimento a carattere rivoluzionario (quello che poi divenne nel 1943 il Movimento Federalista Europeo in Italia e successivamente l’Unione Europea dei Federalisti in Europa); e convincere le forze politiche di ispirazione cattolica (che erano nate universaliste nel diciannovesimo secolo), di  ispirazione socialista (che erano nate internazionaliste) e di  ispirazione liberale (che erano nate cosmopolite) che la linea di divisione fra progresso e reazione passava dalla scelta fra il superamento della divisione dell’Europa in Stati-nazione o l’accettazione passiva di apparenti sovranità nazionali.

Quelle idee sono ancora attuali e la crisi che vive oggi il processo di integrazione europea può essere superata solo tornando al contenuto del progetto e al metodo concepito da Spinelli e Rossi nell’inverno del 1941.

In che modo le idee federaliste del tempo furono influenzate dall’esperienza statunitense?

Le idee federaliste contenute nel Manifesto di Ventotene furono ispirate, oltre che da un’analisi delle cause della guerra, da alcuni testi di federalisti inglesi, i quali si erano ispirati a loro volta dai Federalist Papers statunitensi. In parte il modello federale a cui si pensava era simile a quello degli Stati Uniti d’America, adattato alla situazione europea e con una forte componente sociale.

Lei è stato assistente di Altiero Spinelli prima alla Camera dei Deputati e poi al Parlamento Europeo. Che ricordi ha di quell’esperienza? Cosa ci può dire di Spinelli, a livello umano e politico?

Spinelli aveva deciso di dedicare la sua azione politica e quella che lui chiamava “la mia ultima avventura” alla battaglia per la federazione europea attraverso la rivendicazione del ruolo costituente del Parlamento europeo, quando sarebbe stato eletto a suffragio universale e diretto (come avvenne nel giugno 1979). Era un uomo politico di pensiero e azione e per questo era – e lo è stato particolarmente per me – un maestro di vita.

Che tipo di rapporto c’era e quale influenza ebbe Spinelli sull’azione politica di Alcide De Gasperi, soprattutto in occasione dell’inserimento dell’articolo 38 nel trattato della CED?

De Gasperi all’inizio non era convinto della centralità della battaglia federalista e del fatto che l’interesse europeo coincidesse con l’interesse dell’Italia. Spinelli lo convinse (e convinse il suo braccio destro Giulio Andreotti) che non si poteva fare un esercito europeo comandato da generali se esso non fosse stato sottoposto al controllo di un governo europeo, che il governo europeo poteva nascere solo attraverso una costituzione europea e che la costituzione dovesse essere scritta da una assemblea dotata di un mandato costituente.

Passiamo al “Club del coccodrillo”. Come mai questo nome così particolare? Come si svolgevano le riunioni? Che atmosfera si respirava?

Ci chiamammo “del Coccodrillo” perché la prima cena si svolse il 9 luglio 1980 in un ristorante di Strasburgo vicino alla cattedrale che si chiama Le Crocodile. Spinelli disse che era inutile cercare per quel Club un nome già carico di storia perché avremmo perso molte ore a trovare un accordo su un nome condiviso. Poiché il Club si preparava a proporre al PE un atto sostanzialmente rivoluzionario, ci saremmo ispirati ai giacobini francesi, che si erano chiamati così perché si erano riuniti la prima volta in un convento di frati giacobini.

Le riunioni successive si svolsero nelle sale del PE mangiando panini e furono sempre più frequentate. Eravamo convinti che stavamo scrivendo una pagina importante della storia europea. E così fu!

Quali erano i lineamenti fondamentali del cosiddetto “Progetto Spinelli”? Era troppo ambizioso?

Era un progetto realista, breve (meno di 90 articoli), giuridicamente solido e coerente. Molte cose di quel progetto trovarono collocazione nelle successive modifiche dei trattati (la cittadinanza europea, l’idea di una carta dei diritti fondamentali e delle sanzioni agli Stati che li violavano, il potere di codecisione del PE, il principio di sussidiarietà, il carattere democratico per aderire all’Unione, la ripartizione delle competenze fra Stati e Unione, il bilancio pluriennale, le risorse proprie). I governi non accettarono il realismo del progetto Spinelli e adottarono un nuovo Trattato (l’Atto Unico) inadeguato alla realtà della crisi europea. Tutto quello che non ha trovato collocazione nella revisione dei trattati dovrà essere inserito in un nuovo trattato a cominciare dal rafforzamento dei poteri del PE, dall’eliminazione del voto all’unanimità nel Consiglio, dalla trasformazione della Commissione in un governo europeo, dal trasferimento di competenze “federali” dagli Stati all’Unione e da una vera politica estera. Con realismo questo è l’unico modo di far uscire l’Unione dalla sua crisi e evitarne il suo scioglimento.

In questi giorni caratterizzati dall’emergenza COVID-19 ha avuto un ruolo centrale il dibattito sui cosiddetti “Euro Bond”. In passato lei si è occupato della proposta di prestiti e mutui europei, allora denominati “Project Bond”. Quali erano le caratteristiche della proposta e che tipo di comparazione si può fare con quella attuale?

L’idea è di creare debito pubblico europeo consentendo all’Unione di emettere titoli del Tesoro europeo da offrire sui mercati dei capitali. Non si tratta di mutualizzare i debiti nazionali, ma di consentire all’Unione di finanziare con il proprio debito e attraverso prestiti e mutui (loans) investimenti europei a lunga durata. Con la proposta del Next Generation EU ci si sta avviando su questa strada.

Siamo in periodo di “Conferenza sul Futuro dell’Europa”. Quale futuro e quali prospettive programmatiche per l’Europa in generale e per il federalismo in particolare?

La Conferenza deve essere concepita come uno spazio pubblico (avrebbe detto Habermas) di incontro fra la democrazia rappresentativa e quella partecipativa. All’interno della Conferenza il PE deve rivendicare il suo potere costituente (“noi, a nome dei cittadini europei che ci hanno eletto”) cercando un consenso ampio fra le associazioni rappresentative della società civile europea e maggioranze politiche fra i rappresentanti dei parlamenti nazionali. Al termine di questo processo democratico il PE deve adottare un trattato di natura costituzionale da sottoporre a un referendum europeo lo stesso giorno delle elezioni europee nel maggio 2024. Il progetto deve prevedere una nuova forma di associazione fra l’Unione riformata e gli Stati europei che non vorranno o non potranno aderirvi.

Non crede sia necessaria, per dare impulso alla creazione di una vera opinione pubblica europea, una collaborazione tra gli organi televisivi e di stampa dei vari Paesi per raccontare reciprocamente quello che avviene nelle rispettive realtà? Spesso accade che il cittadino medio poco o nulla sappia di ciò che avviene in Germania o in Francia, per citare solo due dei nostri partner europei.

Certo, per porre le basi di una opinione pubblica europea ci vogliono media europei. Un passo in avanti importante è stato fatto dalla Commissione istituendo un osservatorio sulla lotta alla disinformazione e alle fake news. Il Movimento europeo organizzerà nel prossimo autunno un Forum sulla comunicazione pubblica e istituzionale in una dimensione europea.

Federico Paolini per www.policlic.it

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