La segregazione razziale negli Stati Uniti d’America

La segregazione razziale negli Stati Uniti d’America

Questo articolo è estratto dalla rivista Policlic n. 2 pubblicata il 27 giugno. 

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La tragica morte dell’afroamericano George Floyd, 46 anni, ammanettato e bloccato a terra, trattenuto con il ginocchio premuto sul collo per nove minuti da un agente bianco, Derek Chauvin, a Minneapolis (Minnesota), ha riproposto il dibattito, mai del tutto sopito, della questione razziale negli Stati Uniti d’America. Per provare a comprendere la complessità del fenomeno e la conseguente nascita del movimento “Black Lives Matter” è necessario soffermarsi sulle principali tappe del percorso storico che ha riguardato la condizione di vita della popolazione afroamericana.


La tratta atlantica degli schiavi

La massiccia presenza di persone di colore negli Stati Uniti d’America, stimata in 38.785.726, pari al 12,3% dell’intera popolazione, è ascrivibile al fenomeno noto come “tratta atlantica degli schiavi africani”. Fu un vero e proprio processo di deportazione che vide le principali potenze coloniali del periodo[1] trasferire forzatamente, tra il XVI e il XIX secolo, milioni di esseri umani dall’Africa al continente americano per la coltivazione delle grandi piantagioni di cotone, caffè e canna da zucchero. Sebbene non sia possibile quantificare con certezza la portata complessiva di tale fenomeno, la maggioranza degli storici contemporanei ritiene che furono trasferiti con la forza tra i 9,4 e i 12 milioni di esseri umani dall’Africa ai principali porti del continente americano[2], dando vita al secondo caso di deportazione più grande nella storia dell’uomo. Il traffico di esseri umani consisteva nella cattura e nella vendita, da parte dei negrieri, di milioni di uomini, donne e bambini che venivano trasferiti oltreoceano.

Gli schiavi affrontavano il viaggio in condizioni igienico-sanitarie disastrose, legati e vessati per tutto il tempo per il timore di ribellioni. Si stima che quasi 1,5 milioni di esseri umani rimasero uccisi prima di arrivare in America. Una volta approdati sulle coste, i ricchi proprietari terrieri li acquistavano e li inviavano a lavorare nelle grandi piantagioni situate, in particolare, nelle colonie americane del Sud i cui sistemi economici si fondavano prevalentemente sull’uso intensivo della terra. L’utilizzo di schiavi di origine africana fu la causa principale della nascita del pregiudizio razziale e della successiva segregazione che dilagò nei secoli successivi.


Dalla guerra di indipendenza alla guerra civile americana

La tratta degli schiavi era iniziata attorno al XVI secolo quando, a livello politico, erano state costituite le tredici colonie americane[3], fondate tra il 1607 e il 1732 e direttamente dipendenti dalla Gran Bretagna. La forte tassazione cui erano sottoposte le colonie, volta a finanziare le spese del vasto Impero britannico, fu all’origine di una serie di frizioni che portarono alla proclamazione unilaterale della Dichiarazione d’Indipendenza il 4 luglio del 1776, cui seguirono sette anni di conflitto.

Durante la Guerra d’indipendenza i flussi migratori non subirono alcuna interruzione e il regime schiavista non fu attenuato. Gli schiavi di colore e i nativi furono coinvolti solo marginalmente nella guerra: in alcuni casi essi tentarono la fuga approfittando dei disordini causati dal conflitto; in altri, invece, si schierarono a favore dell’esercito britannico, non per convinzione ma per mera convenienza, attirati dall’illusoria promessa di libertà in caso di vittoria inglese.

Il conflitto terminò il 3 settembre 1783 con la vittoria dei neonati Stati Uniti d’America e la sconfitta dell’Impero britannico di Re Giorgio III.

I principi egualitari enunciati nella Costituzione americana, sebbene universali, si ritenevano implicitamente limitati ai bianchi americani e non furono estesi alla popolazione di colore né ai nativi. Ciò non deve sorprendere in quanto la schiavitù era funzionale al sistema produttivo degli Stati del Sud volto ad arricchire l’élite bianca. In questo contesto non va taciuta la circostanza secondo cui, prima della guerra civile americana, ben otto presidenti[4] furono proprietari terrieri e possidenti di schiavi per lo più di colore. Si trattava di un fenomeno molto comune nella società americana. Secondo il censimento degli Stati Uniti d’America del 1860 vi erano circa 385.000 proprietari di schiavi su una popolazione bianca nel profondo Sud di 7 milioni; ciò voleva significare che almeno una famiglia americana su quattro ricorreva sistematicamente alla schiavitù. Tale fenomeno determinò una forte opposizione negli afroamericani i quali, già alla metà del XIX secolo, costituirono organizzazioni di sostegno e di assistenza agli schiavi volte all’emigrazione in territori in cui vi fosse maggiore libertà. In altri casi, invece, la convivenza tra neri e bianchi fu avvertita come inconciliabile e si arrivò a teorizzare il rimpatrio degli schiavi verso il continente africano. Basti pensare che Henry Clay, inserito nella lista dei cinque più influenti senatori della storia degli USA, arrivò a dire che “i pregiudizi inimmaginabili derivanti dal colore della pelle umana non avrebbero mai permesso l’integrazione con i bianchi liberi di questo paese. Era auspicabile, perciò, nel massimo rispetto dovuto loro, rimpatriare tutta la popolazione nera”[5].

Conseguenza di tale posizione fu la fondazione della Liberia, stato dell’Africa occidentale, che deve il suo nome al fatto che fu fondata da alcuni ex schiavi liberati.

Negli anni immediatamente successivi alla nascita degli Stati Uniti d’America, la questione della schiavitù divenne oggetto principale del dibattito politico tra democratici e repubblicani. Nel 1807 il Congresso abolì formalmente la tratta degli schiavi. Con tale atto iniziò a profilarsi una profonda differenza tra Stati del Nord, tendenzialmente abolizionisti, e Stati del Sud, ancora legati alla tradizione agricola e convinti sostenitori della schiavitù.

La centralità della schiavitù portò a una grave tensione nei rapporti tra Nord e Sud culminata con la creazione degli Stati Confederati d’America l’8 febbraio del 1861 a opera di Alabama, Florida, Georgia, Louisiana, Mississippi, Carolina del Sud e Texas. Iniziava così la Guerra di secessione americana tra le cui cause storiche vi fu sicuramente il ruolo della schiavitù nella società americana. I maggiori leader secessionisti erano per lo più ricchi proprietari terrieri che possedendo un elevato numero di schiavi guardavano con profonda ostilità e preoccupazione l’elezione come presidente di Abraham Lincoln, dichiaratamente abolizionista.

Dopo cinque anni, il conflitto si concluse nel 1865 con la vittoria degli Unionisti del Nord.


Dalla guerra civile alle leggi Jim Crow

Dopo la conclusione della guerra civile, gli Stati Uniti, specie negli stati del Nord, andarono incontro a un periodo di forte industrializzazione che produsse un importante fenomeno migratorio dal profondo Sud. Qui, sebbene la schiavitù fosse stata formalmente abolita, si assisteva al predominio dei bianchi sulla popolazione afroamericana alla quale furono negati de facto i diritti civili inalienabili e si lasciava la stessa in una condizione di profonda arretratezza economica, sociale e politica. Quasi 1 milione e 600 mila afroamericani che nel 1900 ancora vivevano negli Stati del Sud, si trasferirono al Nord dove la loro presenza aumentò complessivamente del 20%, in particolare in città come Cleveland, Detroit, New York, Chicago[6].

Le cause di tale fenomeno migratorio sono ascrivibili a una serie di fattori: innanzitutto alle durissime condizioni di vita cui erano sottoposti gli afroamericani nel Sud, ove subivano sistematicamente atti di razzismo. La condizione di ex schiavi alimentava il pregiudizio soprattutto nella popolazione bianca meno istruita e trovò terreno fertile per la diffusione dell’ideologia razzista tramite un’organizzazione tristemente nota come Ku Klux Klan che nel 1925 contava ben 4 milioni di iscritti e che fu responsabile di uccisioni, pestaggi, atti di violenza contro la popolazione di colore, spesso tollerati, se non in alcuni casi anche avallati, dalle forze di polizia locali. Ulteriori fattori che determinarono il fenomeno migratorio da Sud a Nord furono l’alluvione del Mississippi del 1927 che mise in ginocchio l’economia agricola e la grave crisi del 1929 con il crollo della borsa di Wall Street che colpì in particolare gli afroamericani. Le percentuali dei tassi di disoccupazione nella popolazione di colore furono il doppio rispetto a quella dei bianchi e anche la politica inaugurata dal presidente Franklin Delano Roosevelt[7] (nota come New Deal) discriminò sistematicamente gli afroamericani, facendo ottenere ai bianchi lavori migliori e salari più alti.

Nonostante la schiavitù fosse stata formalmente abolita negli Stati Uniti dopo la guerra di secessione, le condizioni di vita degli afroamericani non cambiarono minimamente a causa dell’emanazione delle leggi Jim Crow, provvedimenti locali varati dai singoli Stati tra il 1864 e il 1964. Tali norme servirono, di fatto, a mantenere la segregazione in tutti i servizi pubblici, istituendo uno status definito “separati ma uguali” nei confronti dei neri americani e delle altre minoranze. Il principio separate but equal consisteva in una dottrina legale formulata per la prima volta da una legge della Louisiana del 1890, successivamente confermata in diversi casi giudiziari[8], che giustificava e permetteva il regime di segregazione razziale ritenendolo compatibile con il XIV emendamento della Costituzione americana[9]. I principali esempi di queste leggi consistevano nella separazione tra neri e bianchi nelle scuole pubbliche, sui mezzi di trasporto, negli ospedali, nei bagni pubblici, nei ristoranti e negli alberghi[10].

L’approvazione di tali provvedimenti fortemente limitativi dei diritti degli afroamericani fu permessa dal controllo pressoché totale delle cariche elettive da parte dei bianchi. Nei primi anni del ‘900 le istituzioni locali votarono una serie di leggi volte a rendere sempre più difficile la registrazione nelle liste elettorali e la partecipazione alle elezioni politiche da parte dei neri. Questo fenomeno era accentuato nel profondo Sud dove le nuove Costituzioni dei singoli Stati esclusero, di fatto, gli afroamericani dal diritto di voto il cui esercizio era subordinato alla presenza di requisiti fiscali e di alfabetizzazione per loro irraggiungibili.

Per tali ragioni la minoranza di colore fu privata della necessaria rappresentanza democratica e ciò finì per escludere i neri anche dalle giurie dei tribunali locali, determinando, come conseguenza, frequenti casi di errori giudiziari. Neanche la partecipazione ai due conflitti mondiali riuscì ad attenuare il razzismo insito nella società americana. Nelle forze armate fu attuata una rigida separazione razziale e gli afroamericani non ebbero ruoli rilevanti nelle grandi battaglie della Seconda guerra mondiale se non in casi eccezionali.


La nascita del movimento per i diritti civili degli afroamericani

Negli anni Cinquanta del 1900 si assistette a un processo volto a superare gradualmente il regime di segregazione razziale ancora vigente negli Stati Uniti. L’introduzione e il crescente uso dei mezzi di comunicazione di massa, la diffusione della cultura afroamericana, in particolare nel campo musicale, l’elezione di un giovane presidente democratico di idee progressiste come John F. Kennedy furono fattori che contribuirono a rendere note le condizioni di vita degli afroamericani, considerate intollerabili da una crescente parte della popolazione. I primi tentativi di superamento della segregazione razziale vigente nell’istruzione furono attuati in Virginia nel 1951 dove un nutrito gruppo di studenti iniziò a protestare contro il diseguale e segregazionista sistema scolastico, oltre che per la mancanza di infrastrutture e servizi. Il caso fu portato dinanzi alla Corte Suprema e con una storica sentenza[11] la segregazione nelle scuole fu giudicata incostituzionale. Se la notizia non generò particolari proteste al Nord, lo stesso non può dirsi per il Sud. Qui il sentimento razzista era molto più radicato nella popolazione e molti governatori decisero di chiudere le scuole pubbliche piuttosto che permettere l’integrazione. Non vi furono sostanziali differenze tra i due principali partiti, Democratico e Repubblicano, nel mantenimento della segregazione razziale e nella forte opposizione alle politiche di integrazione. Basti pensare che il neoletto governatore democratico dell’Alabama, George Wallace, nel discorso di insediamento, arrivò a sostenere la segregazione razziale, dicendo: “segregazione oggi, segregazione domani, segregazione sempre”. In Alabama si rischiò un inedito scontro tra istituzioni locali e governo centrale tanto da obbligare il presidente in carica Lyndon B. Johnson[12] a inviare l’esercito[13] per scortare l’entrata nell’Università dei primi due studenti di colore.

Un altro settore in cui vigeva una rigida segregazione razziale tra bianchi e neri era rappresentato dai mezzi di trasporto pubblico. L’episodio che passò alla storia fu il rifiuto da parte di un’attivista per i diritti degli afroamericani, Rosa Parks, di cedere il suo posto a un bianco. L’attenzione mediatica causata dal suo arresto spinse la comunità nera a un sistematico boicottaggio dei mezzi pubblici a Montgomery, in Alabama, che terminò dopo ben 381 giorni con l’abolizione dell’ordinanza locale che imponeva la segregazione razziale. Tale movimento per i diritti civili si caratterizzava per forme di protesta non violente e atti di disobbedienza civile, sebbene non mancassero scontri particolarmente cruenti con le forze di polizia. Il movimento fu guidato da un giovane pastore protestante, Martin Luther King, che nel 1963 organizzò un grande corteo a Washington di 250.000 persone per chiedere l’eliminazione della segregazione razziale che ancora attanagliava gli Stati Uniti. Nel 1964 per il suo impegno nella lotta per i diritti degli afroamericani fu insignito del Premio Nobel per la Pace e negli anni successivi, prima di essere vittima di un attentato, guidò una simbolica marcia di protesta da Montgomery a Selma volta a riconoscere agli afroamericani il diritto di voto. Le immagini di tali manifestazioni e la brutalità usata dalle forze di polizia spinsero gran parte dell’opinione pubblica a sostenere il movimento per i diritti civili. Nel 1964 ciò portò il governo federale all’emanazione del Civil Rights Act che dichiarò illegali le disparità di registrazione nelle liste elettorali, invalidò le leggi Jim Crow, vietò la discriminazione razziale nelle strutture pubbliche, nelle scuole e nei luoghi di lavoro. Tali provvedimenti andavano verso una totale uguaglianza, non solo formale, ma sostanziale tra neri e bianchi.


Il lungo cammino verso l’emancipazione degli afroamericani

Sebbene da un punto di vista legislativo gli anni Sessanta furono fondamentali per il superamento delle discriminazioni razziali, la piena eguaglianza tra bianchi e neri fu di difficile attuazione nonostante gli sforzi dei successivi governi. Tra la popolazione afroamericana rimasero alti i livelli di analfabetismo, disoccupazione e criminalità; la frattura tra bianchi e neri fu emblematica anche a livello residenziale, dove vennero a crearsi veri e propri quartieri, se non ghetti, principalmente di afroamericani. Il difficile accesso alle cure mediche, gli esigui investimenti pubblici in favore delle minoranze, la scarsa qualità dei servizi assistenziali determinarono una spaccatura nella società americana e frequenti furono le ribellioni che ebbero come casus belli l’uso eccessivo della forza da parte della polizia. Emblematica fu la rivolta scoppiata a Los Angeles nel 1992 dopo l’assoluzione di quattro agenti responsabili del brutale pestaggio del tassista afroamericano Rodney King ripreso da una telecamera e mandato in onda sulle principali televisioni di tutto il mondo. La città fu messa a ferro e fuoco da bande armate di teppisti e solo l’intervento dell’esercito riportò la calma dopo ben cinque giorni di scontri.

L’elezione alla presidenza nel 2008 del primo afroamericano, Barack Obama, certamente ha rappresentato una tappa fondamentale per il superamento del pregiudizio razziale, ma non ha risolto i gravi problemi di razzismo culturale che continuano a persistere nella società americana caratterizzata da forti disparità economiche.

La tragica morte di George Floyd, fermato dalla polizia di Minneapolis e tenuto per nove minuti sotto il ginocchio dell’agente Derek Chauvin – filmato in tempo reale e visto da milioni di utenti in tutto il mondo –, ha riproposto il problema del pregiudizio razziale, mai del tutto sopito. Tale evento ha dato linfa a un movimento di recente creazione noto come “Black Lives Matter” volto a ottenere migliori condizioni di vita per gli afroamericani. La morte di George Floyd, nell’anno in cui si svolgeranno le elezioni presidenziali che vedono contrapposti Donald Trump e Joe Biden, potrebbe comportare serie ripercussioni politiche, come già avvenuto in passato nel 1992 quando, a sorpresa, non ci fu la rielezione del presidente uscente George H. W. Bush senior.

Diversi sono gli episodi di uso sproporzionato della forza a opera delle forze di polizia contro cittadini di colore che determinano, come conseguenza, l’esplosione irrazionale di una rabbia che, alla luce degli eventi storici trattati, affonda le proprie radici in quello che può essere definito come il peccato originale degli Stati Uniti d’America: la discriminazione razziale.

Luca Battaglia per www.policlic.it


Riferimenti bibliografici

[1] Spagna, Portogallo, Inghilterra, Francia, Paesi Bassi.

[2] David Northrup, The Atlantic Slave Trade, College Div, 2nd edition, Houghton Mifflin Company, Boston/New York, 2002, p. 203.

[3] Le tredici colonie erano così suddivise: New Hampshire, Connecticut, Massachusets, Rhode Island, New York, New Jersey, Delaware, Pennsylvania, Maryland, Virginia, Carolina del Nord, Carolina del Sud e Georgia.

[4] Tra i quali anche padri costituenti come George Washington.

[5] Maggie Montesinos Sale, The slumbering volcano: American slave ship revolts and the production of rebellious masculinity, Duke University Press, 1997. p.264

[6] Gli afroamericani crebbero del 70% a New York e del 148% a Chicago.

[7] Instancabile sostenitrice dei diritti degli afroamericani fu, invece, la first lady Eleonore Roosevelt che spinse il marito ad attivare, per la prima volta, forme di sostegno per le minoranze.

[8] Tra cui il caso noto come “Plessy vs. Ferguson” dinanzi alla Corte Suprema degli Stati Uniti nel 1896.

[9] Il XIV emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America fu emanato dopo la Guerra di secessione al fine di tutelare i diritti degli ex schiavi.

[10] Tristemente noti erano i Negro Motorist Green Books, particolari guide turistiche che indicavano alberghi, ristoranti, locali e modi di viaggiare “sicuri” per i neri, che avrebbero potuto evitare discriminazioni e situazioni sgradevoli.

[11] Brown vs. Board of Education, Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, 17 maggio 1954.

[12] Divenuto Presidente degli Stati Uniti dopo l’uccisione di J.F. Kennedy avvenuta a Dallas il 22 novembre 1963.

[13] L’invio dell’esercito era già stato attuato nel 1962 dal presidente John. F. Kennedy in occasione dell’ammissione presso l’Università del Mississippi del primo studente di colore, James Howard Meredith.

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