Oceani di plastica: c’è ancora speranza

Oceani di plastica: c’è ancora speranza

Organizzazioni internazionali, Stati, imprese e individui impegnati nella pulizia dei mari

Nell’ottobre del 2018, su una spiaggia del Somerset, in Inghilterra, è stata raccolta una bottiglia di plastica risalente al 1971, ovvero a 48 anni fa. Era completamente intatta. Pochi mesi prima, l’ennesimo capodoglio senza vita era apparso sulle coste dell’Andalusia, con ben 29 kg di plastica nello stomaco. Si stima che nel mare siano presenti 150 milioni di tonnellate di plastica e che ogni anno se ne aggiungano dai 5 ai 12 milioni. Di essi, più del 50% è costituito da microplastiche, ossia frammenti di plastica con un diametro inferiore ai 5 mm; per via delle loro dimensioni, sfuggono ai processi di depurazione ed entrano nella catena alimentare marina, avvelenando la salute di numerosi pesci che finiscono per imbandire le nostre tavole. Secondo Greenpeace, ogni anno muoiono più di un milione di uccelli marini e oltre 100 mila mammiferi marini scambiano la plastica per cibo.

Nessun luogo è esente da questa piaga: dall’Artide all’Antartide sono stati rinvenuti ovunque polimeri inquinanti che colpiscono a più livelli l’ecosistema marino, l’economia, la salute e il clima. Limitare gli attuali danni ambientali è senz’altro un’ambizione titanica, per i più pessimisti un’utopia, per altri un obiettivo doveroso e raggiungibile grazie all’elevato grado di organizzazione e specializzazione raggiunto dalle società moderne. Risolverli completamente risulta quasi antitetico con il nostro vivere quotidiano, quasi come se l’esistenza stessa dell’essere umano sulla Terra implichi inevitabilmente un certo grado di inquinamento ambientale. Anche se così fosse, siamo ora obbligati a cooperare per arginare i danni, non soltanto per salvaguardare l’ambiente, ma soprattutto per garantire il nostro futuro sul pianeta.

In concomitanza con l’enorme problema delle sempre crescenti emissioni di gas a effetto serra, contro le quali si continua a fare molto poco, quello della contaminazione degli oceani è forse l’ambito dove più successi si possono raggiungere e dove più iniziative sono state messe in campo. L’articolo esporrà alcune delle numerose azioni nate e portate avanti grazie a una positiva cooperazione fra governi, organizzazioni internazionali, enti di ricerca e individui col fine di eliminare le principali cause di inquinamento marino e ripulire i mari.

Buone pratiche

Nel febbraio del 2017, il programma delle Nazioni Unite per l’ambiente ha lanciato Clean Seas(“Mari puliti”), un’ambiziosa campagna volta a eliminare entro il 2022 le principali cause dell’inquinamento marino: l’onnipresente plastica monouso, le microplastiche e l’inefficienza nello smaltimento dei rifiuti. La campagna, smuovendo l’opinione pubblica internazionale, mira a incanalare la volontà e l’indignazione in un percorso comune accompagnato da azioni concrete. Per fare ciò, ha adottato una strategia bidirezionale: da un lato agisce istituzionalmente, pressando gli Stati affinché adottino norme stringenti sulla produzione e l’utilizzo della plastica; dall’altro culturalmente, producendo corti di denuncia, documentari, film, animazioni e trend volti a informare e sensibilizzare i cittadini di qualsiasi età e classe sociale. In effetti, dal 2017 ad oggi abbiamo assistito quasi a una rivoluzione nelle politiche ambientali, e da quella data ben 57 Paesi hanno aderito alla campagna Clean Seas.

Fonte immagine: https://www.youtube.com/watch?v=wAJk7K2d_A8

La Nigeria, uno dei Paesi più inquinati, con la sua adesione si è impegnata ad aprire 26 impianti di riciclaggio, mentre il Kenya ha imposto una delle legislazioni più dure al mondo sulla proibizione di buste di plastica. L’India, che ha aderito alla campagna nel giugno del 2018, ambisce a eliminare tutte le plastiche monouso entro il 2022 (un cambio strutturale enorme per un Paese che conta 1 miliardo e 300.000 persone).

Gli Stati dell’America Latina e i Caraibi sono stati i primi e i più audaci nell’adottare norme drastiche. Nell’agosto del 2017, il Cile fu il primo Paese del subcontinente a proibire l’uso generalizzato di buste di plastica, delle quali il 90% finisce in discariche illegali (vicino a fonti d’acqua) o direttamente nei nostri mari. La legge concede sei mesi alle imprese per chiudere la produzione, tempo durante il quale possono fornire solo due buste a cliente. Coloro che non rispettano la nuova norma saranno pesantemente sanzionati con multe superiori a $370 per cliente.

Belize, Costa Rica, Panama, Jamaica, Perù, Bahamas ed Ecuador hanno già seguito l’esempio cileno. Nelle isole Galapagos, in particolare, è stata proibita l’introduzione di qualsiasi tipo di plastica monouso, trasformando quelle terre paradisiache nel primo arcipelago plastic free al mondo. Sempre nel 2017, in Colombia è stata introdotta una pesante tassazione sui sacchetti di plastica per la spesa (elevando il prezzo a 20 pesos ognuna), importo che aumenterà del 50% ogni anno. Secondo il governo colombiano, suddetta strategia ha già ridotto l’utilizzo di buste del 35%, riscuotendo 3,6 milioni di dollari solo nei primi sei mesi di attuazione. Anche il Brasile, nel settembre 2017, si è unito alla campagna Mari puliti, estendendo le sue aree marine protette del 24,5%.

La campagna Clean Seas è senza dubbio in rapida ascesa, anche se al momento vi aderisce meno di un terzo degli Stati del mondo; in particolare, si lamenta la pesante assenza di colossi inquinanti quali Cina, Stati Uniti e Russia, che per il momento non danno cenni di adesione. Se da un lato l’iniziativa ONU non può fornire una soluzione monolitica e unilaterale per la pulizia e la salvaguardia degli oceani, dall’altro sta consentendo di attuare una crescente rivoluzione nel modo in cui concepiamo e utilizziamo la plastica, responsabilizzando gli individui e relazionando fra loro settori e servizi apparentemente lontani col fine di produrre risultati positivi.

Le biobardas

Fonte immagine: https://www.iagua.es/noticias/guatemala/marn-guatemala/16/12/01/guatemala-instala-biobarda-100-metros-capturar

Interessante e moderno è il caso guatemalteco; il Paese centroamericano ha infatti iniziato a sperimentare le cosiddette biobardas, ossia barriere di contenimento composte da sezioni di bottiglie di plastica chiuse in una rete. Sono artigianali, di facile costruzione e prodotte con materiali riciclati facilmente conseguibili.[1] Poste sui corsi d’acqua, bloccano e contengono gran parte dei rifiuti, in modo da evitare la dispersione in mare. Ciò permette alle comunità locali di recuperarli, smaltirli o riciclarli, fornendo lavoro ai cittadini e aprendo nuove possibilità di occupazione nel Paese. Il suo utilizzo è riuscito a ridurre del 60% l’immondizia presente sulle coste; l’idea risultò essere così efficace che il governo guatemalteco, dal 2017 ad oggi, ne ha installate più di 100.[2]

Inoltre, il Ministero dell’ambiente impartisce ora periodici corsi di formazione ai governi locali, alle organizzazioni di quartiere e agli studenti sul modo di costruire queste barriere e sullo smaltimento dei rifiuti da esse contenute, promuovendo quel processo sociale di “riciclaggio comunitario” sempre più comune nelle zone maggiormente colpite dai cambiamenti climatici. Data la loro efficacia, anche Paesi limitrofi come Salvador, Honduras, Repubblica Dominicana e Panama le hanno installate in numerosi corsi d’acqua, confermando nuovamente la posizione di spicco dei Paesi ALC (America Latina e Caraibi) nella difesa ambientale.

Ambizioni europee

Per quel che riguarda la civile Europa, che fino a pochi mesi fa inviava alla Cina più del 50% della plastica destinata al riciclo (equivalente a meno di un terzo di quella che produce), è oggi obbligata a trovare una valida alternativa, identificando nella gestione e produzione di rifiuti plastici il fattore primario per risolvere il problema. Nel 2018, infatti, è stata presentata la prima “European Strategy for Plastics in a Circular Economy[3], che introduce requisiti minimi di qualità, disegno, etichettatura e composizione applicabili a numerosi prodotti di plastica che accedono al mercato europeo, nel tentativo di aumentare le componenti riciclabili in essi presenti, massimizzare il loro riutilizzo e informare adeguatamente il consumatore su come riciclarli.

Inoltre, il 27 Marzo 2019 il Parlamento UE ha approvato una direttiva volta a bandire, solo dal 2021, una lunga serie di prodotti di plastica usa e getta, quali posate, piatti, cannucce e bastoncini cotonati. Congiuntamente, sono stati introdotti nuovi obiettivi, come eliminare qualsiasi aggiunta di microplastiche in cosmetici, detergenti e prodotti simili entro il 2020; produrre il 100% di involucri alimentari riciclabili entro il 2030; riciclare il 90% delle bottiglie di plastica entro il 2029 e produrle con almeno il 30% di materiali riciclati entro il 2030. Secondo la Commissione europea, la plastica rappresenta più dell’80% dei rifiuti marini; questa nuova legislazione, che ora dovrà essere recepita e applicata dai governi nazionali, coprirebbe il 70% di tutti i rifiuti plastici inquinanti.

L’Italia si è dimostrata pioniera nella lotta alla plastica, proibendo già dal 2011 i sacchetti della spesa non biodegradabili (e nel 2018 i sacchetti per l’ortofrutta), mentre nel 2019 è stata il primo Paese europeo a vietare la produzione di bastoncini cotonati non biodegradabili e compostabili. Anche a livello locale molte regioni e città si stanno gradualmente attivando per proibire sia la produzione che l’utilizzo di oggetti in plastica.

Innovazione scientifica

Se campagne internazionali, invenzioni e norme regionali combattono per ripulire i mari, il mondo scientifico non rimane certo ai margini. Buone notizie, infatti, arrivano anche dal Regno Unito, dove dei ricercatori di Cambridge e della Swansea University hanno trovato un metodo per trasformare le microplastiche in gas idrogeno puro, il combustibile più pulito al mondo e capace di alimentare i potenziali futuri mezzi di trasporto.

Fonte immagine: https://www.acsh.org/news/2018/09/06/some-cool-chemistry-using-light-turn-waste-plastic-hydrogen-fuel-13387

La tecnica adoperata è quella del foto-reforming[4]: in sintesi, prima si aggiunge ai polimeri un materiale che assorbe la luce solare, dopodiché si immergono in una soluzione chimica di idrossido di sodio. Le microplastiche così processate, se esposte al sole, subiscono una trasformazione molecolare, convertendo i polimeri in molecole di idrogeno. Il processo funziona anche in presenza di residui alimentari sulle loro superfici, dunque non sussiste il bisogno di sottoporle a lunghi e costosi processi di lavaggio. Inoltre, la tecnica non è solo semplice ed economica, ma attuabile a temperature e pressioni atmosferiche comuni, fattore che rappresenta un immenso vantaggio per le sue future applicazioni industriali.

La campagna internazionale e le iniziative fin qui citate sono orientate a considerare risorsa ciò che per troppo tempo è stato trattato come scarto, a ridurne contemporaneamente la produzione e generare nuovo lavoro e profitto senza intaccare drasticamente gli interessi delle industrie fossili. Come è possibile notare, se alla soluzione di pratiche inquinanti si applica un rimedio capace di generare nuove opportunità, come è il caso della plastica negli oceani, le azioni concrete risultano efficaci e di rapida diffusione. Esse sono solo alcune delle centinaia di attività impegnate in questo ambizioso obiettivo; imprese private, organizzazioni, volontari, pescatori e cittadini comuni che si impegnano a ripulire le spiagge, investire in impianti di riciclaggio e ridurre la produzione di plastiche monouso costituiscono la base operativa di questi e altri futuri successi.

La strada è comunque ancora tutta in salita. Le soluzioni apparentemente perfette mostrano spesso i loro limiti nel tempo, e per il momento suddette iniziative non sono ancora riuscite né a estendere le buone pratiche alla maggioranza dei Paesi del mondo né a ridurre significativamente i milioni di tonnellate di plastica che annualmente sfociano nei nostri mari. Nonostante ciò, esse rappresentano un punto di partenza in rapida espansione che nella quotidiana negatività dei dati ambientali può fornirci margini di speranza. Gli attuali e futuri sforzi per la salvaguardia ambientale devono inevitabilmente derivare sia dalla cooperazione multilivello del maggior numero di attori internazionali sia dalla volontà individuale, dove risiede ancora la speranza e il desiderio capaci di garantire un futuro degno all’uomo e all’ambiente.

Nel prossimo articolo, esaminando un caso nordeuropeo, si analizzerà la relazione esistente fra politiche pubbliche ed ecologia, nell’intento di comprendere, almeno parzialmente, il precario e fragile equilibrio fra teoria e prassi che le strategie ambientali perseguono.

Amir Mohamed per Policlic.it


[1] Ministerio de Ambiente y Recursos Naturales de Guatemala: “Biobardas: un ejemplo para el mundo”, USAID e Ministerio de Ambiente y Recursos Naturales, 2018. http://www.marn.gob.gt/Multimedios/13811.pdf

[2]Intervista delegato del Ministero dell’ambiente guatemalteco – https://www.youtube.com/watch?v=N-_vNrCclJs

[3]Per ulteriori informazioni vedere: European Commission: “European Strategy for Plastics in a Circular Economy”, http://ec.europa.eu/environment/circular-economy/pdf/plastics-strategy-brochure.pdf

[4] Per maggiori informazioni vedere: International Scholarly Research Network: “Hydrogen Production by Photoreforming of Renewable Substrates”, Volume 2012, Article ID 964936, ISRN Chemical Engineering, 2012.https://air.unimi.it/retrieve/handle/2434/220700/278675/rossetti964936.pdf

 

 

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