Le turbinose metamorfosi della prescrizione penale

Le turbinose metamorfosi della prescrizione penale

Questo articolo è estratto dalla rivista Policlic n. 1 pubblicata il 27 maggio.

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Il lodo Conte-bis ricuce la maggioranza di governo

Lo scorso 13 febbraio, pochi giorni prima che l’epidemia di COVID-19 monopolizzasse l’attenzione della politica e dell’opinione pubblica italiana, il Consiglio dei ministri ha approvato un disegno di legge per la riforma del processo penale che, a oggi, non ha ancora ricevuto l’approvazione delle Camere. Il progetto governativo, volto a render più efficiente la giustizia penale, contiene anche il lodo Conte-bis, così chiamato dal nome del suo firmatario, il deputato di LeU Federico Conte. Si tratta di una proposta che mira a modificare la disciplina italiana della prescrizione penale, provando a mediare tra due posizioni contrapposte. Da un lato, quella del Movimento 5 Stelle, cui deve riconoscersi la paternità della cosiddetta “legge spazzacorrotti, provvedimento che per ultimo è intervenuto in tema di prescrizione e che è stato fortemente voluto dal ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. Dall’altra, quella dell’area della sinistra democratica, la quale ha chiesto a gran voce che fosse elaborata una disciplina in grado di offrire maggiori garanzie ai cittadini.

Per meglio comprendere il complesso dibattito generatosi sul punto e le argomentazioni che lo hanno animato, si rende necessario ricostruire, almeno per sommi capi, la natura e il funzionamento dell’istituto giuridico della prescrizione. 


Natura e funzione della prescrizione penale

La prescrizione appartiene al novero delle cosiddette “cause estintive del reato”, ossia quei fattori che, intervenendo tendenzialmente prima della sentenza di condanna definitiva[1], fanno venir meno la ragion d’essere del processo penale[2].

Più in dettaglio, essa opera a seguito del decorso di un certo lasso di tempo dalla commissione del reato, la cui durata è normalmente commisurata alla gravità del crimine. In altri termini, proprio il tempo trascorso dalla realizzazione del fatto penalmente rilevante fa sì che l’ordinamento perda interesse alla sua repressione, per almeno due ordini di ragioni. Innanzitutto, perché lo Stato di diritto esige tempi di giustizia certi, ragion per cui il cittadino non può restare sine die assoggettato al possibile esercizio della pretesa punitiva. In secondo luogo, poiché la tardiva esecuzione della pena striderebbe con la sua finalità rieducativa, l’unica a esser riconosciuta dalla Costituzione. A tal proposito, è stato osservato che la persona eventualmente punita oggi per un fatto commesso decenni or sono non è più la stessa di allora, sicché non si comprende quali benefici, in termini rieducativi, ella potrebbe trarre dall’esecuzione della pena.

Se, dunque, la prescrizione è essenzialmente volta a sottrarre il cittadino alla minaccia eterna della sanzione, egli può liberamente scegliere di non avvalersene, rinunciandovi espressamente una volta che il relativo termine sia già maturato[3]. Non deve sorprendere che qualcuno possa ricusare l’operatività di un istituto favorevole, poiché la sentenza che accerta l’intervento della prescrizione è meno vantaggiosa rispetto a quella assolutoria con formula piena. La prima, infatti, interviene al sol scopo di certificare l’eccessivo decorso del tempo dalla commissione del fatto, senza nulla aggiungere in ordine alla responsabilità del suo presunto autore. La seconda, invece, attesta che il reato non è esistito o che, quantomeno, non è stato commesso dall’imputato. È allora evidente quanto sia più conveniente, in primis sul piano sociale, una sentenza del secondo tipo.

Per quanto riferito, laddove il giudice ritenga, sulla base degli elementi sino a quel momento raccolti, di poter assolvere l’imputato nel merito, dovrà procedervi nonostante sia già decorso il termine prescrizionale. Infatti, essendo l’assoluzione l’unica forma di proscioglimento in grado di mondare il soggetto processato dallo stigma sociale del sospetto, essa prevale sulla prescrizione, la quale attesta soltanto il disinteresse dello Stato alla punizione.


Il tempo necessario a prescrivere il reato

Fatte queste premesse di ordine generale, è ora possibile interrogarsi su quali siano le tempistiche in concreto idonee a prescrivere un reato.

In primo luogo, occorre considerare che il termine di prescrizione inizia a decorrere dalla consumazione del reato[4], ossia – concedendoci una semplificazione – dal momento della sua commissione[5]. Ciò posto, sarà proprio la gravità del reato a influenzare la consistenza del termine, che normalmente coincide con la pena massima stabilita dalla singola norma incriminatrice[6]. In ogni caso, anche se puniti con una pena inferiore, i delitti non possono prescriversi prima che siano trascorsi sei anni dalla loro commissione. Inoltre, i reati puniti con l’ergastolo sono imprescrittibili.

Esemplificando, dalla concreta applicazione di queste coordinate discende che il furto, punito con la pena massima di tre anni di reclusione, si prescriva in sei anni ai sensi dell’art. 157 c.p.  Diversamente, essendo il delitto di ricettazione punito con la reclusione fino a otto anni, esso si prescrive in otto anni; l’omicidio aggravato, per il quale è previsto l’ergastolo, è invece imprescrittibile.

In aggiunta, il codice prevede che, al verificarsi di determinati eventi, il decorso della prescrizione venga sospeso o interrotto. Più in dettaglio, distinguiamo cause sospensive e interruttive della prescrizione in base all’effetto che esse producono sul tempo già trascorso: le prime lo congelano, sicché, una volta venute meno, il decorso del termine potrà nuovamente riprendere dal punto in cui si era fermato; le seconde, invece, lo azzerano, facendo ripartire daccapo il computo della prescrizione.

Dal punto di vista pratico, laddove sia trascorso un anno dalla commissione del reato, l’intervento di una causa sospensiva fa sì che, al momento della sua cessazione, la prescrizione riprenda a decorrere dai dodici mesi già maturati. Se a intervenire fosse invece una causa interruttiva, di quell’anno non si dovrebbe tener conto e il decorso della prescrizione ripartirebbe da zero.

È evidente come, nei casi in cui ricorrano più cause interruttive in seno al medesimo procedimento, si configuri il rischio di un’eccessiva dilatazione del termine di prescrizione. A fronte di ciò, la legge cosiddetta “ex Cirielli”[7] ha stabilito che “in nessun caso l’interruzione della prescrizione può comportare l’aumento di più di un quarto del tempo necessario a prescrivere”. Pertanto, riprendendo l’esempio precedente, il reato di furto si prescriverà nel termine massimo di sette anni e mezzo, derivante dall’applicazione del predetto aumento sui sei anni ordinariamente previsti.

Nel limite appena descritto, molti hanno ravvisato la causa dell’enorme mole di processi che, ogni anno, si prescrive prima che venga emessa una sentenza definitiva[8]. Persino la Corte di giustizia dell’Unione Europea, in una recente pronuncia del 2017, ha ritenuto che la disciplina italiana della prescrizione, nella parte in cui non consente un prolungamento superiore a un quarto del relativo termine, “impedisca di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi […] che ledono gli interessi […] dell’Unione europea”[9].


I reiterati interventi del legislatore. La riforma Orlando.

Per contenere il numero dei processi destinati a cadere nel nulla, le norme dettate in tema di prescrizione sono state riformate per ben due volte negli ultimi tre anni.

Il primo intervento si è avuto nel 2017, con la riforma voluta da Andrea Orlando che all’epoca era ministro della Giustizia[10]. Tra i vari profili di novità apportati dal provvedimento, spicca l’introduzione di ulteriori meccanismi sospensivi della prescrizione. In particolare, la riforma prevedeva che il decorso del termine prescrizionale si bloccasse, per un periodo non superiore a diciotto mesi, a seguito della sentenza di condanna intervenuta in primo o secondo grado. In tal modo, veniva dilatato fino a un massimo di tre anni il tempo necessario a prescrivere nei casi in cui lo Stato avesse palesato, attraverso la condanna, il proprio interesse concreto alla punizione di un determinato fatto di reato[11].

Occorre tuttavia osservare come l’intervento del legislatore, pur volendo incrementare l’efficienza della repressione penale, non abbia trascurato di riconoscere al cittadino alcune indefettibili garanzie. Infatti, per come modificato, l’art. 159 c.p. prevedeva che, laddove nel grado di giudizio successivo a quello originante la sospensione si fosse avuto il proscioglimento dell’imputato, si sarebbe dovuto computare nel termine di prescrizione anche il tempo in cui il processo era rimasto sospeso.

Con maggior sforzo esplicativo, nel caso in cui il giudizio di primo grado si fosse concluso con una sentenza di condanna, il decorso della prescrizione restava sospeso fino a diciotto mesi, in modo tale da consentire la celebrazione del processo di appello. Se anche il secondo grado di giudizio si fosse concluso con un esito sfavorevole per l’imputato, la prescrizione sarebbe stata nuovamente sospesa per ulteriori diciotto mesi, in attesa della pronuncia definitiva della Cassazione. Diversamente, laddove in appello fosse stata emessa una sentenza assolutoria, si sarebbe dovuto computare nel termine di prescrizione il tempo intercorso tra essa e la precedente pronuncia di primo grado.


La legge “spazzacorrotti”

A meno di due anni di distanza, il quadro sinora delineato è stato stravolto dalla cosiddetta “legge spazzacorrotti”[12], le cui innovazioni sulla prescrizione sono però entrate in vigore solo il 1° gennaio 2020. Tra esse, la più rilevante è certamente quella per cui, una volta pronunciata la sentenza di primo grado, il decorso del termine prescrizionale resta sospeso fino all’emissione della sentenza definitiva[13].

Se la riforma Orlando faceva dipendere il tempo necessario a prescrivere dall’esito processuale, a seconda che questo fosse assolutorio o di condanna, la legge spazzacorrotti blocca il corso della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, indipendentemente da quale sia il suo tenore.


Il lodo Conte-bis

Lo scenario appena descritto ha raccolto da più parti aspre critiche, tutte sostanzialmente volte a censurare il contrasto della riforma da ultimo operata con alcuni principi costituzionali[14]. È stato in particolare sostenuto che una così drastica paralisi della prescrizione recherebbe un vulnus alla ragionevole durata del processo, alla presunzione d’innocenza, al diritto di difesa e alla finalità rieducativa della pena.

L’intenso dibattito politico che ne è conseguito, foriero di tensioni anche in ambito governativo[15], ha condotto alla formulazione del lodo Conte-bis, frutto dell’accordo intervenuto tra i partiti di maggioranza[16]. Il provvedimento, inserito nel disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri lo scorso 13 febbraio, andrà a modificare nuovamente la disciplina della prescrizione mediando tra le ultime due riforme.

In particolare, esso prevede per l’imputato un trattamento diversificato in base all’esito del giudizio di primo grado. Laddove questo si concluda con una sentenza assolutoria, la prescrizione del reato continuerà a decorrere. Per contro, nel caso in cui venga emessa una sentenza di condanna, il termine prescrizionale resterà sospeso fino al momento della sua esecutività, senza che sia stato riproposto il limite dei diciotto mesi previsto dalla riforma Orlando. In linea con essa, tuttavia, laddove il successivo grado di giudizio dovesse concludersi con un esito sostanzialmente assolutorio, il tempo della sospensione sarà “recuperato” nel computo della prescrizione, la quale contestualmente riprenderà a decorrere. In altre parole, il termine di prescrizione non sarà più indiscriminatamente bloccato dopo la conclusione del giudizio di primo grado, come previsto dalla legge spazzacorrotti, bensì solo a fronte di due successive sentenze di condanna.

Quando sarà approvato, all’esito di un iter parlamentare che si preannuncia tortuoso, il lodo Conte-bis dovrebbe produrre effetti sui circa dodicimila processi che, ogni anno, vedono assolvere in appello l’imputato precedentemente condannato in primo grado. Questi, in tal modo, potrà vedersi restituito il tempo utile alla prescrizione “perduto” a causa della sua sospensione tra la prima e la seconda sentenza.

In definitiva, il lodo Conte-bis sembra ricondurre entro i binari costituzionali la disciplina dettata dal codice in tema di prescrizione. Prevedendo un differente decorso del termine in base all’esito del giudizio di primo grado, esso tempera infatti il nocumento arrecato indiscriminatamente a tutti gli imputati dalla legge spazzacorrotti. Tuttavia, la nuova riforma trascura un ulteriore rischio, ossia quello relativo alla possibile dilatazione temporale dei gradi di giudizio successivi al primo. Non essendo previsto alcun termine massimo di sospensione dopo la condanna in primo grado, i giudici d’appello potranno celebrare il processo scevri da ogni pressione, così paventandosi il rischio di una maggiore durata del giudizio.

Francesco Battista per Policlic.it


Fonti

[1] Il codice penale, prendendo come riferimento temporale la sentenza di condanna definitiva, distingue tra le cause di estinzione del reato, che interverrebbero prima di essa, e le cause di estinzione della pena, che opererebbero invece in un momento successivo. Ritengono “approssimativa e impropria” questa distinzione S. Canestrari, L. Cornacchia, G. De Simone, Manuale di Diritto penale, Parte generale, Il Mulino, Bologna 2007, p. 841, poiché “talune cause di estinzione del reato intervengono, o possono intervenire, anche dopo una condanna passata in giudicato”, come fa ad esempio la sospensione condizionale della pena.

[2] Oltre alla prescrizione, sono cause di estinzione del reato la morte del reo prima della condanna, l’amnistia, la sospensione condizionale della pena, la remissione di querela, l’oblazione nella contravvenzione e il perdono giudiziale.

[3] Così dispone l’art. 157, comma 7, c.p.

[4] Più in dettaglio, ai sensi dell’art. 158, comma 1, c.p., la prescrizione decorre, per il reato consumato, dal giorno della consumazione; per quello tentato, dal momento in cui è cessata l’attività del colpevole; infine, per quello permanente (ad es., il sequestro di persona), dal giorno in cui è cessata la permanenza (ossia, continuando l’esempio, dal momento in cui l’ostaggio viene liberato). Inoltre, il comma 3 dell’articolo citato dispone che, per alcuni reati sessuali commessi in danno di minori, “il termine della prescrizione decorre dal compimento del diciottesimo anno di età della persona offesa”.

[5] In realtà, come ribadito da una recente sentenza della Corte di cassazione a Sezioni Unite, il momento della consumazione del reato non coincide con quello della sua commissione. Ai fini che qui interessano, tuttavia, possiamo artificiosamente considerarli sovrapponibili. Per approfondire, si veda Cass. pen., SS.UU., sent. 24 settembre 2018, n. 40986.

[6] Per alcune gravi ipotesi di reato, l’art. 157 c.p. prevede, al comma 6, il raddoppio dei termini prescrizionali.

[7] Così chiamata perché il deputato Edmondo Cirielli, suo primo firmatario, a seguito delle modifiche apportate dal Parlamento la disconobbe e votò contro, chiedendo successivamente che non venisse più chiamata con il suo nome.

[8] Secondo le statistiche, nel 2018 in Italia si sono prescritti circa 130.000 processi. Più in dettaglio, la prescrizione incide maggiormente in Appello, dove il 25% dei procedimenti si conclude con la declaratoria di estinzione del reato. Diversamente, nel primo grado di giudizio si prescrive solo l’8,8% dei procedimenti mentre in Cassazione meno del 2%. Cfr. G. L. Gatta, Una riforma dirompente: stop alla prescrizione del reato nei giudizi di appello e di cassazione, in “Diritto Penale Contemporaneo”, 21 gennaio 2019.

[9] Corte di giustizia (Grande sezione), sentenza 5 dicembre 2017, causa C-42/17, Taricco. Sul piano comparatistico, il funzionamento della prescrizione negli ordinamenti stranieri è illustrato in M. Vurruso, La riforma della prescrizione, in “Altalex”, 1 aprile 2020.

[10] La riforma Orlando è stata operata con l. 23 giugno 2017, n. 103.

[11] Nella relazione illustrativa al disegno di legge, si legge che “il nucleo della riforma fa leva sulla sentenza di condanna […] che, affermando la responsabilità dell’imputato non può che essere assolutamente incompatibile con l’ulteriore decorso del termine utile al c.d. oblio collettivo rispetto al fatto criminoso commesso. Non si tratta però di far cessare da quel momento la prescrizione, quanto di introdurre specifiche parentesi di sospensione per dare modo ai giudizi di impugnazione di poter disporre di un periodo congruo per il loro svolgimento, senza che vi sia il pericolo di una estinzione del reato per decorso del tempo pur dopo il riconoscimento della fondatezza della pretesa punitiva dello Stato, consacrato dalla sentenza di condanna non definitiva”.

[12] Si tratta della l. 9 gennaio 2019, n. 3.

[13] Come osservato in dottrina, il riferimento che la norma fa alla “sospensione” della prescrizione è improprio. Infatti, se si trattasse di un’autentica causa sospensiva, il decorso della prescrizione dovrebbe poi poter riprendere. La riforma introduce piuttosto un nuovo termine finale che, in quanto tale, avrebbe potuto trovare una più adeguata sede nell’art. 158 c.p. Cfr. G. L. Gatta, Una riforma dirompente: stop alla prescrizione del reato nei giudizi di appello e di cassazione, cit.

[14] Si segnala, in particolare, l’appello al Presidente della Repubblica promosso dall’Unione delle Camere Penali italiane e sottoscritto da più di centocinquanta docenti universitari, consultabile al link QUI. Rilievi altrettanto critici sono stati mossi dall’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Penale e dal Consiglio Superiore della Magistratura, per il cui esame si rinvia rispettivamente QUI e QUI.

[15] Il riferimento è allo scontro tra il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e il sen. Matteo Renzi, che pure fa parte della maggioranza di governo. V. QUI.

[16] In particolare, l’accordo è intervenuto tra Movimento 5 Stelle, Partito Democratico e Liberi e Uguali, non trovando invece l’appoggio di Italia Viva.

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