Sea Watch: la legge italiana e le ragioni della comandante Rackete

Sea Watch: la legge italiana e le ragioni della comandante Rackete

Talvolta violare gli ordini può essere necessario o addirittura doveroso

  1. L’attesa vana e la lucida decisione di violare la legge italiana

Dopo due intere settimane trascorse nel Mediterraneo sulla nave Sea Watch 3, la comandante Carola Rackete ha deciso di far rotta verso Lampedusa, spiegando che le condizioni dei quarantatré naufraghi a bordo erano divenute ormai insostenibili. Entrando nelle acque territoriali italiane, ha però disatteso l’ordine di segno contrario impartito dalle autorità nazionali e per questo è ora indagata dalla Procura della Repubblica di Agrigento. Gli stessi magistrati che per l’affaire Diciotti contestavano al Ministro dell’Interno Salvini il reato di sequestro di persona aggravato, da poche ore hanno infatti iscritto Carola Rackete nel registro generale delle notizie di reato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e per resistenza contro nave da guerra.


  1. Tra le norme di riferimento, anche quelle del nuovissimo “decreto Sicurezza-bis”

Prima di vagliare i profili penalistici della questione, occorre dar conto delle disposizioni di natura amministrativa recentemente introdotte dal c.d. “decreto sicurezza-bis”. Il nuovo articolato normativo, dopo aver attribuito al Ministro dell’Interno il potere di limitare o vietare l’ingresso, il transito o la sosta di navi nel mare territoriale, commina a chi trasgredisca le disposizioni impartite una sanzione pecuniaria, d’importo variabile compreso tra 10.000 e 50.000 euro. In caso di reiterazione dell’illecito è poi prevista la confisca del natante, previo suo sequestro cautelare.

Sul piano del diritto criminale, vengono contestati alla Comandante Rackete la violazione dell’art. 12 del Testo Unico sull’immigrazione e dell’art. 1100 del Codice della navigazione. La prima norma, volta a reprimere condotte di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, prevede pene che possono superare i sette anni di reclusione, oltre alla confisca del mezzo utilizzato per commettere il reato; la seconda commina invece la sanzione della reclusione da tre a dieci anni a chi commetta atti di resistenza contro una nave da guerra nazionale.


  1. L’ipotizzabile operatività delle cause di giustificazione

Sebbene la condotta tenuta dalla Comandante della Sea Watch 3, almeno per come viene descritta nelle prime cronache, potrebbe in astratto integrare i fatti sanzionati dalle predette norme, occorre tener conto di alcune cause di giustificazione (o scriminanti) previste dall’ordinamento italiano. Si tratta di disposizioni del Codice penale con cui il legislatore, all’esito di un bilanciamento di contrapposti interessi, ha inteso rendere non perseguibili condotte che in loro assenza integrerebbero un reato. È bene precisare sin da subito che tali disposizioni, in quanto espressione di principî generali, trovano applicazione anche al di fuori dell’ambito strettamente penalistico. Nel caso di cui ci occupiamo potrebbero venire in rilievo almeno due scriminanti: quella dello stato di necessità e quella dell’adempimento di un dovere.

  • Lo stato di necessità

L’art. 54 c.p., nell’esprimere l’antico principio della necessitas non habet legem, dispone la non punibilità di colui che ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona. Ciò a patto che non sia stato proprio il soggetto che agisce ad aver volontariamente causato il pericolo, che quest’ultimo non sia altrimenti evitabile e che tra esso e la condotta che viola la legge sussista un rapporto di proporzionalità. Di questi requisiti, certamente sussiste l’ultimo, poiché a essere in pericolo era il più importante di tutti i beni giuridici, ossia quello relativo alla vita umana; non è invece pacifica la ricorrenza dei primi due. Potrebbe infatti obiettarsi che la nave sarebbe potuta sbarcare in un porto diverso e che, conseguentemente, sia stata proprio la decisione della Comandante di rimanere per giorni al largo delle coste italiane ad aver messo a rischio l’incolumità dei naufraghi.

A tal proposito, occorre esaminare le norme di diritto internazionale che regolano le operazioni di salvataggio dei naufraghi. La Convenzione sulla ricerca e il salvataggio marittimo (nota anche come SAR, acronimo di search and rescue), siglata ad Amburgo nel 1979, impone un preciso obbligo di soccorso e assistenza delle persone in mare e il dovere di sbarcare i naufraghi nel porto sicuro più vicino (place of safety, POS). Secondo le Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare “un luogo sicuro è una località dove le operazioni di soccorso si considerano concluse, e dove: la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non è più minacciata; le necessità umane primarie (come cibo, alloggio e cure mediche) possono essere soddisfatte; e può essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale”[1]. Nel caso di cui ci occupiamo, come si apprende da un post del Ministro Salvini datato 13 giugno[2], al momento delle operazioni di salvataggio la Sea Watch si trovava a 38 miglia dalle coste libiche, a 125 miglia da Lampedusa, a 78 miglia dalla Tunisia e a 170 miglia da Malta. È dunque evidente come le coste più vicine fossero quelle libiche e tunisine, ma lo è altrettanto il fatto che nessuno di quei due Paesi possa considerarsi porto sicuro. Quanto allo Stato libico, oltre a esser nota e documentata la condizione di disumanità in cui versano i migranti detenuti nei centri di raccolta ivi presenti[3], occorre rilevare che esso non è parte della Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati e che negli anni ha posto in essere reiterate violazioni dei Diritti umani. Quanto alla Tunisia, invece, difettando di una legge che permetta a chiunque di far richiesta di protezione umanitaria, con tutta probabilità respingerebbe i richiedenti asilo e, comunque, non consentirebbe loro di fruire della dovuta assistenza. Del resto, ciò emerge limpidamente da un’annosa vicenda occorsa solo pochi giorni addietro, quando il rimorchiatore egiziano Maridive 601 è rimasto per diciotto giorni in attesa dell’autorizzazione allo sbarco da parte del Governo tunisino, nonostante i 75 migranti a bordo fossero ormai allo stremo delle forze.

Se dunque è vero che l’art. 54 c.p. esclude la riconoscibilità dello stato di necessità laddove il pericolo sia fronteggiabile senza violare la legge nazionale, non è men vero che la norma sottintende la liceità dell’azione alternativa. In altri termini, il reato (o l’illecito amministrativo) posto in essere non viene scriminato solo laddove sia possibile raggiungere il medesimo risultato in modo lecito. Applicando queste coordinate al caso Sea Watch 3, lo sbarco in un porto diverso da quello di Lampedusa avrebbe violato le norme internazionali in materia di soccorso marittimo, poiché solo l’isola italiana può considerarsi “porto sicuro più vicino” per come sopra indicato. Conseguentemente non può dirsi arbitraria la scelta della Comandante di rimanere per giorni al largo delle nostre coste, in quanto dettata dalla consapevolezza che qualsiasi altro Paese avrebbe obiettato di non esser tenuto, ai sensi dell’ordinamento sovranazionale, a doversi far carico dello sbarco dei naufraghi. La navigazione verso altre mete sarebbe dunque stata inutile, oltre che rischiosa per i migranti e per l’equipaggio stesso del natante.

  • L’adempimento del dovere

Le norme internazionali sopra indicate consentono di trovar spazio anche a un’altra causa di giustificazione, ossia quella dell’adempimento del dovere codificata all’art. 51 c.p. La norma, posta a tutela del principio di non contraddizione che verrebbe evidentemente compromesso se l’ordinamento imponesse una condotta e al contempo la sanzionasse, dispone che “l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità, esclude la punibilità”. È chiaro che anche le norme contenute nelle Convenzioni internazionali ratificate dall’Italia, quale quella sulla ricerca e il salvataggio marittimo, valgano a integrare il dovere che la causa di giustificazione prende in considerazione e, conseguentemente, a scriminare la condotta di chi, per ottemperare a esse, violi il diritto interno.


  1. Il comportamento della Comandante Rackete è stato irreprensibile?

Su queste premesse[4] è possibile ipotizzare che, salve nuove e diverse emergenze concrete, la Comandante Rackete potrebbe andare esente da qualsiasi conseguenza sanzionatoria, tanto di carattere amministrativo che penale. Infatti, come è già stato riferito, pur se le cause di giustificazione sono previste all’interno del Codice penale esse valgono per l’intero ordinamento, così valendo a rendere inoperanti, in casi analoghi a quello della Sea Watch 3, anche le sanzioni amministrative recentemente introdotte col decreto Sicurezza-bis.

Francesco Battista per Policlic.it


Fonti

[1] Per approfondire, v. http://questionegiustizia.it/rivista/2018/2/gli-obblighi-disoccorso-inmare-neldiritto-sovranazionale-enell-ordinamento-interno_548.php

[2] Il post è stato riportato, tra gli altri, da https://www.nextquotidiano.it/perche-la-sea-watch-3-uon-e-andata-in-olanda/

[3] V. il rapporto in www.amnesty.it/libia-governi-europei-complici-torture-violenze/ si veda anche www.unhcr.it/news/comunicati-stampa/un-studio-sottolinea-insicurezza-crisi-economica-abusi-sfruttamenti-libia-spingano-rifugiati-migranti-europa.html.

[4] Che si ribadisce esser fondate su un’analisi dei fatti necessariamente incompleta, atteso che l’articolo prende in considerazione una situazione in continuo divenire.

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