By the Fire: riflessioni “attorno al fuoco” di Thurston Moore

By the Fire: riflessioni “attorno al fuoco” di Thurston Moore

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Alcune persone hanno il potere di farci tornare agli anni della nostra adolescenza. I Sonic Youth sono stati, e sono, uno dei gruppi più importanti nella storia del rock; ne hanno scritto un buon segmento, nella loro carriera durata trent’anni. Sono cresciuto con la loro musica nelle mie orecchie e nel mio cuore; comprai il primo disco solista di Thurston Moore, Psychic Hearts, subito dopo la sua uscita nel 1995.

Thurston, come emerge nel corso dell’intervista, è una persona calma e riflessiva, nonché un’anima ispirata e fonte di ispirazione a 360 gradi. La sua musica attuale ha conservato un livello di scrittura musicale incredibilmente elevato, riuscendo a mantenere un prodigioso senso di novità. Il suo nuovo album, By the Fire, è stato pubblicato il 25 settembre; la nostra conversazione, tuttavia, si muove tra passato, presente e futuro.

Ciao Thurston, sei stato impegnato ultimamente?

Sì; be’, impegnato mentre ero a casa e concentrato sulla scrittura, su parole e musica, e questo è stato un bene. Mi sto godendo la vita solitaria “forzata”.

Suona come una specie di paradiso per persone come noi; scrivere e comporre è il modo migliore di occupare il nostro tempo…

Sì, in effetti è il periodo adatto per concentrarsi su questo… Parte del lavoro del musicista è viaggiare, che solitamente è davvero una gran distrazione, e mi è molto difficile riuscire a trovare il tempo di focalizzarmi sulla scrittura… Non ho mai imparato a disciplinarmi in questo senso.

Penso che tu abbia toccato l’argomento in una delle tue canzoni, Dirty Boots, dove descrivi la fatica dell’andare in tour…


Sì. Sai, l’ho fatto per talmente tanto tempo, sin dal 1980; non è nulla di nuovo. Tuttavia, apprezzo davvero questo periodo di stasi, per quel che vale. Avrei di certo preferito che fosse arrivato in circostanze migliori, senza essere causato da un virus che attacca tutti indiscriminatamente. Sai, penso sia un bene produrre qualcosa di positivo in un periodo di per sé terribile. Credo che la situazione attuale stia portando le persone al raccoglimento e alla riflessione. Certamente sta permettendo al mondo naturale di respirare un po’ di più. 

Penso che abbia “equilibrato” le persone, in modo tale da mostrar loro cosa fosse davvero importante e cosa non lo fosse…

Lo spero. E le cose sembrano andare in quella direzione; c’è una sorta di dialogo comunitario e di dibattito davvero interessante che sta avvenendo attraverso la tecnologia. Dato che tutti sono auto-sequestrati a casa, ricorrono alla salvezza del comunicare l’uno con l’altro con qualunque mezzo.  Sfruttando quindi la tecnologia che abbiamo, le piattaforme dei social media; non solo utilizzando tali piattaforme, ma vitalizzandole. È davvero interessante vederlo accadere… Facebook, Skype, Twitter e tutti questi programmi per la comunicazione: assicuriamoci che siano per la gente, e non un qualche strumento per propagare campagne d’odio, o uno spazio proibito per qualcuno. È un periodo davvero interessante.

Sono davvero, davvero felice che tu stia toccando questo argomento, dato che alcune delle mie domande sono più legate alla cultura in generale che ad altro. Spero proprio che sarai felice di rispondere.

Sì, certamente. Penso che tutti siano coinvolti in quello che sta succedendo al momento, dal punto di vista culturale, in una società congiunta. Siamo davvero tutti connessi, anche attraverso la tecnologia, in maniera tale da creare una nuova dinamica. Sono felice di poterla osservare, e sono anche curioso di sapere come si evolverà nei prossimi due anni… ma soprattutto nel lungo termine: come si svilupperà nelle due prossime decadi. Ma non abbiamo certo la sfera di cristallo. Penso che i prossimi mesi saranno interessanti, specialmente per gli Stati Uniti, il mio Paese di origine, con delle elezioni per il nuovo governo talmente controverse. La situazione è critica. È così estremamente critica in questo momento. In un certo senso sono felice di sapere che non sarò lì, perché è un luogo malsano; la situazione è diventata davvero tossica negli Stati Uniti.

La mia prima domanda è appunto legata a ciò che hai appena detto, e spero che ti dia modo di rispondere ampiamente. Una canzone dei Sonic Youth del 1983 dichiara: “Fragmentation is the rule” [“La frammentazione è la regola”]; un’altra del 1985 si intitola: Society Is a Hole [“La società è un buco”]. Pensi che la società sia cambiata per il meglio da allora, dal punto di vista di un musicista come te?

In realtà il titolo Society Is a Hole è nato da un fraintendimento nell’ascoltare le parole di un altro gruppo. Ho frainteso una canzone dei Black Flag intitolata Rise Above, che è un brano fantastico sulle loro personali vedute politiche. Le parole erano: “Society is arms of control” [“La società (adopera) le armi del controllo”]. All’epoca ho sempre frainteso, quando ascoltavo il brano, pensando che Henry Rollins cantasse: “Society is a fu**ing hole” [“La società è un ca**o di buco”]. Quando poi vidi le parole corrette rimasi sorpreso. Tolsi il termine volgare “Fu**ing” e cambiai in “Society is a hole”, perché volevo renderlo in maniera più astratta di come lo intendevano i Black Flag. Forse cercavo di applicare una differente forza immaginativa al significato di una frase di quel tipo. Quindi, quando ho scritto Society Is a Hole, l’idea era quella di portare consapevolezza sul sentimento di alienazione nei confronti delle aspettative e degli standard della società, e sulla volontà di lavorare al di fuori di essi; non tanto allo scopo di denigrarli, ma sapendo che è possibile creare una propria comunità di persone con un’ideologia condivisa. Questo l’ho riscontrato moltissimo nella nostra comunità musicale newyorkese del tempo, dove c’era molto spazio per il dialogo e il dibattito. Era sempre presente l’idea dell’accettazione del prossimo e della tolleranza. 

Se ricordi, negli anni Novanta Mark Arm dei Mudhoney diceva sempre, come suo motto: “Isolation and inbreeding” [“Isolamento e fecondazione della propria comunità”]. [Thurston ride] Quindi volevi dire che, mentre la comunità artistica è sempre più consapevole delle bugie che i media ufficiali cercano di inculcare nelle nostre menti, il resto della società è in qualche modo diventata più “crudele”?

Penso che tutti capiscano che i media ufficiali sono sostanzialmente un sistema di informazione controllata. Non è arte. Penso che nella musica, nella poesia, nella scrittura ci sia una sorta di offerta informativa, che vi siano informazioni e notizie nel processo che avviene attraverso gli impulsi creativi. E questo è inevitabilmente alternativo rispetto agli orientamenti dei media ufficiali: c’è un’agenda di destra, un’agenda di sinistra; ci sono agende provenienti da forze più moderate… ma c’è sempre un’agenda. Perché si ha sempre a che fare col denaro. Gli organi di informazione, i media ufficiali, sono legati all’aspetto economico e influenzati dal mondo pubblicitario; dunque creano una situazione nella quale è necessario metterli in discussione. D’altro canto, invece, trovo che molte informazioni siano più personali, e probabilmente più autentiche per quanto concerne la condizione umana, se provengono dalla risonanza data dalle differenti discipline dell’arte, che sia la musica o la poesia. È interessante vedere come queste cose funzionino insieme nella nostra società; prendiamo, per esempio, la demonizzazione dell’arte e della cultura operata dal governo. In un governo repubblicano degli Stati Uniti qual è quello riflesso attraverso il prisma dell’amministrazione di Donald Trump sappiamo che l’arte e la musica sono appunto considerate delle minacce al loro benessere; dove “benessere” non è altro che la rappresentazione del loro status economico.

Hai descritto uno dei tuoi lavori precedenti, Rock n Roll Consciousness, come un percorso spirituale. Quindi, quando parli di arte che viene demonizzata, può questo principio essere esteso all’intero concetto di spiritualità?

Se pensiamo alla spiritualità come a qualcosa che viene praticato attraverso la religione o un credo religioso, quello che sta avvenendo è un continuo sacrilegio e una continua attività sacrilega. Come, ad esempio, un presidente davvero impopolare che maledice i dimostranti, così da poter mostrare una Bibbia capovolta di fronte a una chiesa nella quale non è mai stato. Cose come questa sono davvero ovvie, sai. Anzi, non arriverei neanche a dire che questo sia sacrilego, perché non credo vi sia alcun tipo di comprensione riguardo a cosa sia sacrilego nello stile di vita di certe persone. Ciò che vedo manifestarsi attraverso la spiritualità è quel tipo di essenza ineffabile proveniente dalla natura, che tutti abbiamo alla nascita. Siamo simili a Budda, siamo persone benedette. Nessuno è nato per andare in guerra, mettiamola pure così. E, dal mio punto di vista, quello è un’incomprensione di ciò che si trova in natura. È come per tutta la questione riguardante la demonizzazione dell’immigrazione e del varcare i confini. Lungo l’intera storia dell’umanità, il genere umano si è sempre spostato alla ricerca di luoghi ideali in cui vivere.

Voglio dire: guarda noi due! Io sono italiano, tu sei americano, ma eccoci qui a essere entrambi londinesi!

Certo! Io amo viaggiare per il mondo, e adoro spostarmi regione per regione, conoscendo nuove culture. E questo non richiede la creazione di alcun confine fittizio volto a trattenere le persone dentro o fuori da certe aree. Credo che queste aree debbano essere lasciate libere di fluttuare e spostarsi; e il fatto che esse abbiano la propria storia linguistica, agricola, culinaria… la loro diversità nei paesaggi, nei colori, nei suoni… è meraviglioso osservare tutto questo viaggiando per il mondo. Perché lasciare che venga messo da parte? Non dobbiamo essere tutti uguali; dovremmo voler essere differenti e vari, e io adoro quest’idea! Non abbiamo bisogno di alcun confine che crei delle barriere. Il discorso circa l’immigrazione contemporanea, alla fine, ha a che vedere con delle persone che fuggono da un’industria di guerra, e per me è lì che sta il problema. Il problema non è l’immigrazione; il problema è la guerra. Non si può parlare a un albero di immigrazione: un albero possiede una spora che attraversa i confini e si impianta autonomamente; e questo non è un crimine: è vita.

Thurston Moore – By The Fire (Daylight Library,2020)
Photo: Thurston Moore/Facebook

Il tuo ultimo lavoro, By the Fire, riflette alcune delle opinioni che hai appena espresso circa il momento storico attuale?

“By the Fire”… Quel titolo ha molto a che fare con gli ultimi mesi, con le persone in lockdown per via della pandemia e con il modo in cui si sono riunite attraverso l’idealizzazione della tecnologia al fine di mantenere un dialogo costante – per me è stato un po’ come se il mondo moderno si stesse sedendo intorno al fuoco. Ma al tempo stesso denuncia anche quello che è avvenuto nelle strade: gente che si sollevava in opposizione all’oppressione, appiccando letteralmente dei fuochi per la strada, per attirare l’attenzione sulla propria collera. Volevo quindi che ci fosse questo doppio riferimento, una sorta di equilibrio tra le due cose. In origine il titolo è stato ispirato da un documentario che ho visto su Joe Strummer dei Clash. Era un film girato da Julien Temple [Joe Strummer: The Future Is Unwritten (Il futuro non è scritto – Joe Strummer), 2007, NdR], che era davvero fantastico. Lui intervista molti dei vecchi amici con i quali Joe Strummer aveva una band, prima che vedesse dal vivo i Sex Pistols ed entrasse in familiarità con Bernie Rhodes e Mick Jones, creando quella specie di voce politica e creativa che avremmo conosciuto in seguito. Joe Strummer era più un ragazzo hippie o rockabilly all’inizio; era in una band di puro rock and roll che si chiamava The 101’ers. Il documentario comincia con delle interviste ai suoi amici (i quali abbandonò, a un certo punto, per diventare un punk rocker – ma loro lo amavano ancora; avevano capito che quella era la sua missione). Dunque, nel film, Julien Temple colloca queste persone di notte, attorno a un ardente falò, e lì raccontano le loro storie. Questo mi è davvero piaciuto. Nel disco precedente a Rock n Roll Consciousness, un album intitolato The Best Day, c’è una canzone chiamata Speak to the Wild, ed è lì che ho cominciato a dire “Ci incontreremo intorno al fuoco”. Quello è stato il mio primo lavoro dopo essermi spostato a Londra, mentre By the Fire è il mio quarto, ma la terza vera e propria raccolta di canzoni. L’anno scorso ho pubblicato un triplo cofanetto, intitolato Spirit Counsel, che era interamente composto di lunghi brani strumentali.

Ho sempre percepito la tua musica come un amalgama composto da influenze disparate, come i Velvet Underground, la totale libertà di espressione proveniente dal punk rock, la scena avant-garde. Ho comprato un disco dal tuo negozio [Live at the Stadium dei Perception, NdA], che era un concerto free jazz, pubblicato da questa band totalmente sconosciuta, e mi sono trovato completamente catapultato in un nuovo mondo. Quale influenza è stata la più forte su di te, e qual è quella alla quale tieni di più?

Wow! [Ride] Penso che la musica più interessante per la maggior parte dei musicisti sia la prima fonte di ispirazione che hanno in gioventù, che li definisce per sempre. Quindi direi che l’influenza più importante sarà sempre l’iniziale innamoramento che ho provato quando ho cominciato ad ascoltare musica che era ai margini del rock contemporaneo nei tardi anni Sessanta e nei primi Settanta. Vedere fotografie di gente come Captain Beefheart o Iggy Pop (sai, Iggy Pop completamente verniciato d’argento a sovrastare il suo pubblico)… All’epoca, sentivo che musiche del genere fossero neglette: dovevi trovarle. Quindi, quando trovavo documenti al riguardo, erano solitamente molto economici, perché nessuno comprava roba del genere; erano davvero poco noti, e allora le case discografiche se ne sbarazzavano, e alla fine li potevi trovare negli angoli dimenticati dei negozi di dischi a un prezzo davvero basso.

Photo Source/Credits: Neil Thomson ‘Copyright 2019-2020 Neil Thomson’ printed with permission of Daydream Library’

Non sai quanto io abbia faticato nel trovare la mia prima copia di Daydream Nation dei Sonic Youth anni fa, quando vivevo ancora nel Sud Italia. Dovetti chiedere a un amico che aveva in programma di viaggiare a Roma di comprarmi quel disco, che è uno tra i pochissimi che hanno ancora un valore sentimentale per me.

Wow. Quando suonavo in Italia prima dell’era di Internet, aprivo le pagine gialle in ogni città toccata dal nostro tour e cercavo la pagina che diceva “Dischi”. Dopodiché chiedevo una mappa alla reception dell’hotel e passavo ore a cercare quei luoghi, uno per uno. Alcuni erano chiusi, oppure erano terribili, perché offrivano poco o nulla. E poi, tutto a un tratto, trovavi qualcuno che aveva album alternativi davvero interessanti, come Demetrio Stratos e gli Area, e cose di quel livello…

Wow! Mi hai davvero sorpreso ora! Non mi aspettavo che li conoscessi!

All’epoca era straordinario trovare cose del genere. Cercavo anche dischi punk rock e hardcore italiani. Tuttavia, solitamente quando hai un giorno libero in Italia, è di domenica: è tutto chiuso in quel giorno della settimana!

Assolutamente vero! Sono davvero felice che tu sia consapevole di ciò che accadeva in Italia a livello underground. Ho sempre tenuto lo sguardo puntato su ciò che accadeva negli Stati Uniti e nel Regno Unito, a essere onesto; ma ammetto che abbiamo avuto una scena alternativa molto vivace, in Italia. Specialmente nell’era del progressive, abbiamo avuto moltissime band interessanti. Ora, tornando a noi: quando ancora vivevo in Italia, ricordo di aver letto un gran numero di articoli che dicevano che la musica dei Sonic Youth era la perfetta colonna sonora per descrivere New York. Pensi che questo fosse vero? E pensi che il vivere a Londra ti abbia ispirato in maniera diversa?

Penso che i Sonic Youth fossero assolutamente una band newyorkese. La differenza tra i Sonic Youth e altre band provenienti da New York era che avevamo capito che fosse necessario lasciare New York per sopravvivere. Questo era davvero importante per noi. C’era una sorta di atteggiamento pioneristico all’epoca, perché Lee Ranaldo suonava già nel gruppo di Glenn Branca, quindi viaggiava in Europa, e raccontava dei posti nei quali era stato a suonare… Così fu in grado di mantenere tutti i contatti acquisiti mentre era in tour con Glenn Branca. Abbiamo suonato in molti posti, come Odyssea 2000, dove aveva suonato Glenn, di fronte a 20 persone…

Questo lo so, per una ragione fondamentale: nell’album dal vivo Sonic Death, alla fine di alcuni brani, si possono sentire degli applausi, e si può intuire che nella stanza ci fossero dalle dodici alle venti persone. Questo mi mandava in esaltazione, quando lo ascoltavo: mi sentivo totalmente privilegiato! [Ridiamo entrambi]

Sai che vado spesso in Italia? Ho bisogno di andarci di nuovo, appena me lo permetteranno. Ho alcuni parenti che vivono in Molise (la famiglia di mia cognata è originaria di quella regione), e adoro passare il tempo sulle montagne con loro, vicino Campobasso.

Sono nato in Sardegna. Penso che ci sia un senso di piacevole isolamento in certe zone del Sud, difficile da trovare in città più mitteleuropee come Milano o Torino.

Oh, adoro la Sardegna! Il mio sogno è quello di trasferirmi in Italia, un giorno, e avere un negozio di dischi e una libreria dove vendere dischi e libri di seconda mano, avere dei gatti, rilassarmi e scrivere…

Se hai bisogno di qualche consiglio sull’acquisto di immobili in Italia, fammi sapere!

Lo farò di certo! Sai, la mia ragazza e io parliamo sempre di andare a vivere in Italia. Lei ha scritto molti versi su alcuni dei miei album, sotto il nome di “Radio Radieux”. Ci sono due canzoni nel nuovo album che sono interamente sull’Italia. Una si chiama Dreamers Work ed è su Tintoretto. Abbiamo viaggiato per tutta l’Italia, andando in ogni singola chiesa per studiare tutti i dipinti di Tintoretto, e la canzone Dreamers Work parla di questo.

Photo Source/Credits: Neil Thomson ‘Copyright 2019-2020 Neil Thomson’ printed with permission of Daydream Library’

Parliamo del tuo songwriting. John Lennon ha spesso descritto la propria opera come un’unica entità; quello che fece con i Beatles e dopo i Beatles era una sola cosa per lui. Ascoltando Rock n Roll Consciousness, e i singoli provenienti da By the Fire, mi è sembrato che lo stesso valesse per te e la tua scrittura.

C’è un bel po’ di vocabolario che ho continuato a usare sin dal primo giorno con i Sonic Youth. Spesso scrivo una canzone e qualcuno dice: “Sembra una canzone dei Sonic Youth!”. Certo, c’è un motivo! [Ride]. Credo che l’unica differenza stia nel fatto che le canzoni più interessanti dei Sonic Youth sono quelle che non sono state scritte da una sola persona, che si sono sviluppate come composizioni di gruppo. Ci siamo sempre assicurati che ogni singolo brano venisse accreditato a tutti e quattro i membri. Questo per noi era davvero importante. Penso sia ovvio quali canzoni fossero più legate a me, Kim o Lee. Steve Shelley non ha mai scritto una vera e propria canzone; ma tuttavia era un songwriter allo stesso livello di tutti noi, perché scriveva comunque i suoi versi: i suoi versi sono i suoi ritmi! Quando portavo una canzone ai Sonic Youth, non dicevo mai cosa suonare. Potevo suggerire qualcosa, ma non dicevo mai: “Questo è quello che devi suonare, Kim” o “Questo è quello che devi suonare, Steve”. Proponevo la struttura, e dicevo qualcosa del tipo: “Cominciamo da qui”, ma non andavo oltre. Quando invece suono da solista con un gruppo come quello che ho a Londra, le cose sono un po’ diverse. In un certo senso sono davvero il leader; posso dire: “Tu suoni questo”, “Questo suona bene”, e dare l’ok a tutti. È molto diverso da quello che succedeva con i Sonic Youth. I Sonic Youth erano una democrazia nel vero senso della parola. Il punto è che non voglio più avere un gruppo del genere. Ora voglio stare in un gruppo dove ho la quota di maggioranza. [Ride] Ma non ha nulla a che vedere con il mio ego!

Credo riguardi la direzione musicale, alla fine. Sono davvero sorpreso nel sentire ciò che dici. Canzoni come The Diamond Sea mi hanno sempre fatto pensare: “Ok, questa è di Thurston”; ma ora mi hai spiegato che tutto ciò che facevate come Sonic Youth era uno lavoro collegiale e democratico. Alcune tue canzoni con i Sonic Youth sono molto personali. Mi hai davvero sorpreso, per la dodicesima volta da quando abbiamo cominciato la nostra conversazione.

[Ridiamo entrambi]

È stato spesso sostenuto da diversi musicisti che il movimento grunge fosse fittizio, qualcosa di più o meno orchestrato dalla stampa. Ti senti di estendere questo sentimento alla scena alternativa degli anni Ottanta, quando i Sonic Youth erano sotto contratto con la SST, oppure c’era un sincero sentimento comunitario, tra le band come la vostra, gli Hüsker Dü, i Black Flag e gli Screaming Trees?

Be’, avevamo tutti appena vent’anni, all’epoca, ed eravamo desiderosi di ascoltarci l’un l’altro. Eravamo consci di ciò che gli altri facevano dal punto di vista musicale: quando i Redd Kross, o i Saccharine Trust, o i Black Flag, o gli Hüsker Dü, o i Minutemen pubblicavano la loro musica, noi ascoltavamo attentamente. Prestavamo molta attenzione gli uni agli altri e imparavamo gli uni dagli altri. Per noi, New York rappresentava una scena musicale importantissima. Tuttavia, io desideravo connettermi con l’altra parte dell’America. Avere un legame con l’SST significava essere connessi con la California. Volevo creare un gruppo che avesse una base in California e una a New York; e, in una visione più ampia, una base negli Stati Uniti e un’altra in Europa. Era così che immaginavo l’evoluzione della nostra band, piuttosto che rimanere solo e unicamente una band di New York. Ma New York era davvero centrale; New York era il cuore dei Sonic Youth. Solo negli anni Novanta ci fu una sorta di revisionismo riguardo a cosa avesse portato ai Nirvana, quando esplosero sulla scena. La gente desiderava sapere cosa aveva portato a quello. E sai, i Nirvana vennero fuori dall’ascoltare gruppi come il nostro, i Black Flag e tutti gli altri gruppi correlati. Così, quando divennero l’enorme stella che conosciamo, ciò diede valore al lavoro che si era sviluppato negli anni Ottanta a livello underground. Non credo che negli anni Ottanta si avesse cognizione di band che incidevano per la SST o etichette simili. O che fosse necessario diventare ricchi o famosi. [Ride] Quelle due cose non erano affatto delle mete; noi pensavamo ai VIP del mondo della musica commerciale come a qualcosa di imbarazzante.

L’album Ciccone Youth è stato un manifesto al riguardo, credo. È stato un modo efficace per dire: “Non ci importa di ciò che accade nelle stanze dei bottoni dove si decide cosa va nella Top 10; noi facciamo le cose a modo nostro”.

Eravamo anche in una situazione particolare; provenivamo da una cultura essenzialmente fondata da giovani intellettuali bianchi con una posizione privilegiata nel loro Paese, che suonavano musica estrema, e dove il desiderio di diventare ricco ti sarebbe stato rinfacciato. Quel tipo di speranza genitoriale: che tu avessi successo.

L’idea del: “Se devi fare musica, diventa qualcuno”. Voi non eravate interessati a quello. Trovo criminale il fatto che nonostante la musica che avete scritto sia incredibile, e nonostante siate stati meravigliosamente idealisti nel vostro approccio, i media abbiano ignorato tale livello di ispirazione, tale bellezza. Penso che i giovani debbano essere educati alla buona musica, e il fatto che per una lunga decade non ci sia stata attenzione mediatica, non ci sia stata la possibilità per i giovani di familiarizzare con band come la vostra è, lo ripeto, criminale.

Però avevano i Mötley Crüe! [Ridiamo entrambi]

Ti prego di non farmi sembrare eccessivamente critico, mentre ti intervisto!

In un certo senso fu interessante quando registrammo nello stesso studio con i Public Enemy, ed ebbi una conversazione con loro. Noi venivamo da un ambiente in cui non volevamo mostrare nulla che richiamasse anche lontanamente il benessere economico, perché lo trovavamo imbarazzante; era una speranza genitoriale verso il successo, e il successo equivale ai soldi. Nella cultura hip hop, invece, la musica proveniva da una situazione sociale di emarginazione e reale oppressione, nella quale fare soldi era davvero difficile. Quindi credo che la musica hip hop fosse la celebrazione del benessere economico, del fare soldi, dell’indossare catene d’oro e sventolare banconote, e altre cose del genere. Tutto questo era davvero radicale e intensamente politico; era un po’ come dire: “Adesso queste cose ce le prendiamo. Ce le meritiamo. Non solo abbiamo bisogno di queste cose: ci spettano di diritto. Questo Paese è in debito con noi”. E vedere questa dinamica era davvero interessante, perché era la differenza che passava tra l’hip hop e il punk rock; tuttavia l’hip hop e il punk rock hanno in comune il fatto di essere le musiche politiche contemporanee degli ultimi 30 anni.

Certo, avete anche collaborato con Chuck D nell’album Goo.

Sì; lui canta in Kool Thing.

Ti ricordo indossare una T-Shirt di Roland Kirk, sulla copertina dell’EP Dirty Boots, negli anni Novanta. Come e quando sei entrato in contatto con la musica jazz? È qualcosa che risale alla tua infanzia o è successo più tardi?

In famiglia non ascoltavamo mai jazz. Mio padre era un pianista di musica classica e mio fratello maggiore portò il rock in casa. Sin dai tardi anni Sessanta, quelli erano i soli due generi musicali che ascoltavamo in casa; non seppi nulla sul jazz fino alla metà degli anni Ottanta. Ne avevo sentore perché veniva citato da persone come Tom Verlaine, che parlava spesso di quanto fosse importante per i Television, o James Chance, che diceva come fosse importante per i Contorsions, e vedevo che veniva continuamente menzionato da gente come i Black Flag o i Saccharine Trust, e altre band del genere. Avevo un amico che sapeva tutto sul jazz, e cominciai a interessarmi sul serio; volevo saperne di più! Quindi cominciai dall’inizio. Mi misi a leggere ogni singolo libro di storia del jazz e ad ascoltare i dischi. Cose come Duke Ellington, Archie Shepp, Sun Ra, Rahsaan Roland Kirk. Gradualmente mi immersi nella storia della musica e capii che quella era probabilmente la musica più profonda proveniente dalla diaspora della cultura nordamericana. E così sono diventato un fanatico del jazz!

Seguo entrambe le tue pagine Facebook. Posti continuamente opere jazz che vengono dall’etichetta “Impulse!”. Adoro profondamente tutto quello che sia uscito da quella casa discografica.

Certo, è fantastica. E il fatto che molta di quella musica fosse prodotta dagli artisti stessi! C’erano un sacco di etichette dirette da artisti. Sun Ra, ad esempio, aveva la sua etichetta da molto prima della celebrazione storica del punk rock e delle etichette indipendenti. La musica jazz ha una lunga storia come musica completamente indipendente, ben da prima che il punk cominciasse ad alzare la manina e a dire: “Ehi, guardateci, siamo indipendenti”. Andiamo! Il jazz è la vera musica che parla di indipendenza, libertà e arte al livello più alto. So che non potrei mai essere un musicista jazz; servono anni e anni di studio e dedizione per imparare i fondamenti e la struttura del jazz, e non intendo farlo – non è questo ciò che mi interessa. Mi piace suonare la musica improvvisata e libera che proviene dal jazz, inteso come musica che si focalizza sull’improvvisazione.

Se mi permetti di dirlo, ne possiedi assolutamente lo spirito. Voglio dire; mentre parlavi, pensavo alla canzone Hits of Sunshine, nell’album A Thousand Leaves. Mi è sempre sembrato un brano influenzato dal jazz. Possiede una melodia ricorrente, e nel mezzo abbiamo questo flusso di coscienza. Davvero splendido. Possiamo essere influenzati dal jazz in quanto musicisti senza dover assorbirne interamente la tecnicalità.

Certo, ha una forte influenza dal punto di vista dei colori e dei toni, della natura essenziale della musica, senza che si arrivi a suonare complicate progressioni jazz. È estremamente influente.

Bene Thurston; grazie per il tuo tempo, e scusami se ti ho trattenuto così a lungo!

Ma figurati; è stato un piacere parlare con te! Grazie mille! Ciao ciao [detto in italiano]


Elias Fiore per www.policlic.it

Fotografie di Neil Thomson (per gentile concessione della Daydream Library e Goodfellas)

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