Cinque giornate di “Nuovo Cinema Irlandese” per l’IRISH FILM FESTA 2022

Cinque giornate di “Nuovo Cinema Irlandese” per l’IRISH FILM FESTA 2022

Al termine la seconda parte della rassegna cinematografica di quest’anno

Dopo la prima parte svoltasi lo scorso maggio, che abbiamo avuto modo di seguire con grande coinvolgimento e che ha avuto il proprio focus nel concorso indetto per decretare i migliori cortometraggi, torna l’IRISH FILM FESTA con la seconda (e ultima) parte della manifestazione del 2022.
Difatti, si è da poco conclusa un’edizione alquanto particolare e definibile come “ibrida” nella sua totalità, poiché divisa tra il ritorno alle proiezioni in presenza e le possibilità offerte dal contesto digitale. Inoltre, la programmazione estiva iniziata lo scorso mercoledì rappresenta la riconferma della manifestazione “all’aperto”, già collaudata la scorsa estate con l’IRISH FILM FESTA Summer Arena. Questa volta, lo scenario è stato quello dell’Arena Ettore Scola, situata all’interno della Casa del Cinema di Villa Borghese in Roma.

Cinque giornate dedicate a quello che è stato indicato dagli organizzatori come “Nuovo Cinema Irlandese”, con otto pellicole all-Ireland suddivise tra documentari e lungometraggi di vario genere, tra i quali c’è stato un graditissimo ritorno: quello della sezione Irish Classic (con il capolavoro di Ken Loach, The Wind That Shakes The Barley [2006]).
Un rinnovato successo, quindi, per gli organizzatori della FESTA guidati dalla direttrice artistica Susanna Pellis. Alla serata d’inaugurazione dell’edizione estiva della FESTA, assieme alla Pellis, era presente l’Ambasciatrice della Repubblica d’Irlanda presso l’Italia S.E. Patricia O’Brien, alla sua prima partecipazione all’evento da quando ha assunto l’incarico (lo scorso anno) sostituendo il predecessore Colm Ó Floinn.

La presentazione dell’edizione estiva dell’IRISH FILM FESTA 2022. Presenti sul palco, da destra verso sinistra, la direttrice artistica della FESTA Susanna Pellis, Claudia Colin, l’Ambasciatrice d’Irlanda in Italia S.E. Patricia O’Brien e il regista irlandese Michael McCormack

L’ambasciatrice, ringraziando il pubblico presente nell’Arena, ha voluto sottolineare il valore consolidato negli anni dell’IRISH FILM FESTA nel panorama cinematografico irlandese:

Il fatto che questo evento sia diventato un importante punto di riferimento sia per la comunità irlandese di Roma che per la più ampia comunità di amanti del cinema di Roma è la testimonianza del duro lavoro degli organizzatori, che nel corso degli ultimi due anni sono riusciti ad andare avanti con tenacia e impegno, adattandosi anche nel settore virtuale nella proiezione dei film online.

“L’evento di questa settimana è molto più di un semplice festival del cinema – ha concluso l’ambasciatrice O’Brien – è una celebrazione della cinematografia irlandese di qualità, dell’amore genuino e sincero degli italiani verso il cinema irlandese e, in modo più ampio, dell’amicizia tra l’Irlanda e l’Italia e tra i nostri due popoli”.

Nel corso delle cinque giornate, si sono susseguiti momenti di grande cinema grazie a opere di pregevole fattura che hanno fatto ridere ed emozionare il pubblico romano, il quale ha risposto positivamente ad ogni appuntamento in programmazione. Tra le proiezioni c’è stato spazio anche per la premiazione dei quattro cortometraggi vincitori del concorso tenutosi lo scorso maggio nelle categorie valutate dalla giuria della FESTA (dramma, documentario e animazione) e nella categoria dedicata al Premio del Pubblico. Momenti che hanno permesso allo stesso pubblico di apprezzare (o riapprezzare) i quattro lavori insigniti del riconoscimento, con gli interventi dei registi omaggiati dai presenti in Arena.
Purtroppo, si sono verificate anche alcune note stonate, seppure pochissime, con la proiezione di un lungometraggio che vedeva coinvolto il nostro Paese (con la sua regista), il quale conquista – per chi scrive – il poco invidiabile primato di “peggior momento di sempre” nella FESTA.

Ecco, dunque, un resoconto di quanto è stato possibile seguire durante questa rassegna “sotto le stelle”, una prima volta che, nel complesso, è stata soddisfacente e piacevole da raccontare.


Le gemme della rassegna – La musica di Breaking Out, la bellezza adrenalinica di Nightride e la follia surreale di Redemption of a Rogue

Breaking Out di Michael McCormack (Éire,2020)
Fonte immagine : Element Pictures / Facebook

Tre gemme brillanti scoperte nel programma di quest’estate dell’IRISH FILM FESTA, tre opere d’arte che sono rimaste impresse in chi scrive, per motivi diversi ma con un unico comun denominatore: si tratta di esempi concreti di grande cinema.
Tre storie, di cui una di vita vissuta, che hanno fatto commuovere, emozionare e ridere a crepapelle gli spettatori presenti.
Dalla scoperta di un artista per molto tempo sconosciuto nella stessa Irlanda (il documentario Breaking Out [2020] di Michael McCormack) alla corsa contro il tempo di Nightride (2021), opera adrenalinica dall’estetica superlativa del regista nordirlandese Stephen Fingleton. Un’opera che vale la netta rivalutazione delle sue capacità alla cinepresa, un riscatto totale dopo il disastroso incontro con il suo film di debutto The Survivalist (presentato all’IRISH FILM FESTA del 2016).
A concludere il tris di pellicole da encomio, la follia surreale e per questo spassosa di una dark comedy tutt’altro che “gonza” (il riferimento è alla The Gonzo Theatre, compagnia teatrale irlandese che ha partecipato al risultato): l’opera prima di Philip Doherty Redemption of a Rogue (2020).

Di Breaking Out ho amato l’omaggio alla vita di un cantautore dal destino infausto, ma soprattutto di un amico del regista.
La toccante storia del leader del gruppo Interference, Fergus O’Farrell, venuto a mancare nel 2016, a soli 48 anni, per gli effetti della distrofia muscolare di Emery-Dreifuss, una malattia degenerativa e priva di cure.
Una vita, però, più forte delle avversità: questa è la bella (nonché commovente) storia di fondo del documentario, girato nel corso di quindici anni, che racconta la forza della vita e della determinazione di una persona cui venne diagnosticata la malattia in giovane età con previsioni alquanto ridotte di sopravvivenza (per i medici non avrebbe superato i diciotto anni), e che riuscì invece a poter godere di una vita degna di essere vissuta, dedicata anima e corpo alla musica (in questo senso, il documentario ha rappresentato anche una piacevole scoperta).

Di Nightride, pellicola presentata durante la terza giornata della rassegna, è rimasta profondamente impressa la cura tecnica e l’estetica cinematografica che hanno esaltato una sceneggiatura all’apparenza molto semplice ma che, grazie alle geniali intuizioni di Fingleton (riprese in una sola notte con una sola cinepresa, utilizzata a mano o montata a bordo della vettura guidata dal protagonista per le vie di Belfast), diventa un lavoro vincente, tra i migliori presentati alla FESTA, e che si posiziona dietro al solo Wolfwalkers.
Da amante e grande appassionato del piano sequenza come tecnica di ripresa e di regia cinematografica (il film 1917 di Sam Mendes rimane la quintessenza di questa tecnica), è stato davvero emozionante seguire una pellicola di poco più un’ora e mezza in grado di tenere la tensione e l’adrenalina al massimo dall’inizio alla fine, facendo rimanere incollati alla sedia per scoprire l’esito della folle corsa adrenalinica di Moe Dunford, attore beniamino del pubblico dell’IRISH FILM FESTA.

Infine, la follia onirica e la comicità dissacrante a ritmo di blues di Redemption of a Rogue, film di cui mi sento di sottolineare un dato tra tutti: 45.000 euro, ovvero il budget complessivo per la sua realizzazione.
Dopo aver visto il film nella penultima serata, quel numero è sparito dalla mente del pubblico presente in sala, come se non fosse mai esistito: risulta infatti davvero difficile credere che quella cifra sia servita (e bastata!) per girare un lungometraggio della durata di un’ora e trentacinque minuti, tenendo conto di tutte le possibili spese.
Eppure, è esattamente quello che è accaduto, ed è merito della regia di Philip Doherty e della sua capacità di “oltrepassare i propri limiti”, come dichiarato e ribadito dall’attore protagonista, Aaron Monaghan, durante la presentazione al pubblico della sopracitata pellicola.
Esilarante e dissacrante allo stesso tempo la storia del dissoluto Jimmy Cullen (interpretato da Monaghan) nel suo esperimento di redimere la propria esistenza tra numerosi tentativi di suicidio, dialoghi da risate assicurate, scene folli (un surreale incontro tra il protagonista e la Madonna in una chiesa, in cui le chiede di poter fumare una sigaretta) e tanta, tanta Irlanda (soprattutto la pioggia, ottenuta grazie a una macchina per la pioggia artigianale costruita dalla troupe).


L’emblematico caso di Wolf, un fragoroso flop per l’unico svarione della FESTA

Wolf di Nathalie Biancheri (Éire, Polonia, 2021)
Fonte immagine: Wolf / Facebook

Si passa ora a dedicare dello spazio a quello che ha rappresentato l’unico vero neo di questa edizione estiva dell’IRISH FILM FESTA: il film Wolf (2021), opera della regista italiana Nathalie Biancheri, il quale ha visto una massiccia partecipazione del pubblico durante la seconda giornata, ma ha diviso gli spettatori presenti tra gli scroscianti applausi e le perplessità.

Dal punto di vista di chi scrive, si è trattato di un autentico disastro nel quale sia un cast di primissimo ordine (George McKay, Lily Rose-Depp, Martin McCann e Flonn O’Shea solo per menzionarne alcuni) che la distribuzione affidata a un colosso internazionale quale Universal non sono stati sufficienti a salvare un progetto deficitario.

La regista, che da anni lavora tra Dublino e Londra, ha presentato una pellicola ricca di spunti, la cui trama principale è legata agli studi sulla c.d. “disforia di specie”, abbandonati però a loro stessi per via delle scelte alquanto discutibili in fatto di sceneggiatura, montaggio e sviluppo dei personaggi, ridotti inconsapevolmente a meri “elementi di contorno” di una storia “senza capo né coda”.

La ricerca dell’essenziale” e “i riferimenti alla cinematografia sovietica e polacca”, come dichiarato in modo alquanto pretestuoso dalla stessa Biancheri durante il dibattito post-proiezione, hanno chiarito i motivi di un disastro annunciato dopo i primi quindici minuti: un lavoro caotico e confusionario, mal pensato e eseguito in maniera peggiore.

Una pellicola che – forse – potrà risultare piacevole ai soli spettatori che si esaltano in pseudo elucubrazioni intellettuali costruite sul niente, alla ricerca di una bellezza unicamente soggettiva che diventa un frivolo argomento di conversazione in un salottino buono, magari parlando del desiderio di identificare la propria persona in un roditore o un cavallo.

 


La rilettura contemporanea dei Troubles convince a metà grazie a Young Plato

Uno scatto della presentazione al pubblico della Casa del Cinema di Villa Borghese del documentario Young Plato (Éire e Irlanda del Nord, 2021).
Presenti in sala, da sinistra verso destra, il produttore del documentario David Rane, Claudia Colin, la co-regista Neasa Ní Chianáin e Susanna Pellis

I cenni conclusivi riguardano la parte del programma dedicata alla cinematografia nordirlandese e, nello specifico, al tema dei “Troubles”, argomento molto sentito in una rassegna culturale di questo tipo.
Il tema, come indicato da Susanna Pellis durante l’inaugurazione della rassegna, è stato oggetto di una selezione di documentari (venerdì 23 e sabato 24 luglio) presentati alla Casa del Cinema, nella sala Deluxe, opere con le quali rileggere in chiave contemporanea l’impatto storico-culturale dei Troubles nella società nordirlandese.

Dal punto di vista di chi scrive, l’intento è riuscito soltanto in parte: merito dell’interessante documentario Young Plato (2021) diretto da Declan McGrath e Neasa Ní Chianáin.
Opera coprodotta dall’Irlanda e dall’Irlanda del Nord (McGrath è nativo di Belfast), la pellicola è stata presentata in un breve intervista pre-proiezione dalla regista Ní Chianáin, accompagnata dal produttore della Soilsiú Films, David Rane.
Nella conversazione con Susanna Pellis, la regista e il produttore del documentario hanno sottolineato l’importanza del valore sociale del cinema nel loro metodo di lavoro, improntato sulla ricerca del “cinema-verità”. Un elemento che ben si sposa con il soggetto (vero, non creato ad hoc) descritto nel lavoro dei due registi: l’osservazione, nel corso di un intero anno scolastico, della vita quotidiana dell’Holy Cross Boys Primary School di Ardoyne, zona periferica e disagiata del territorio di Belfast e martoriata dalle ferite del passato (è stata teatro di violentissimi scontri settari tra cattolici e protestanti), ma anche dalla criminalità e dallo spaccio di droga, in cui il preside dell’istituto cattolico, Kevin McArevey, rappresenta un faro della cultura e della conoscenza per la comunità locale e per le famiglie degli oltre 430 bambini di età compresa tra i quattro e i dieci anni.
All’interno dell’istituto, il preside si adopera con il corpo docente per insegnare la filosofia ai giovanissimi alunni, con un metodo didattico curioso ma efficace, in grado di poter trasmettere le idee delle grandi menti dell’umanità in modo chiaro e fruibile.

La filosofia diventa così uno strumento per apprendere nuove cose, ma soprattutto per migliorare sé stessi, anche nella comprensione della realtà che circonda le giovani menti del domani, in grado di porsi domande continue sul loro agire quotidiano (es. come si comportano con i loro amici) ma anche su questioni più importanti come la pace e la coesistenza tra le due comunità nell’Ulster.
Una bella storia sul valore della cultura e dell’istruzione per proiettarsi al futuro seppellendo i dolori e i traumi del passato.

Di diverso impatto, invece, il secondo documentario legato a questa tematica: Fifty Years of the Troubles (2019), opera diretta per la BBC Northern Ireland da Brian Henry Martin e raccontata dal critico cinematografico e regista Mark Cousins.
L’opera risulta essere un racconto molto personale e trasportato del regista narratore sull’impatto che i Troubles hanno avuto sulla sua infanzia e adolescenza, ma anche sul cinema, sia a livello concettuale (ad esempio il linguaggio adoperato per raccontare al grande schermo gli avvenimenti della guerra civile nordirlandese) che in ambito prettamente materiale: i cinema, infatti, furono vittime predilette della violenza esplosa a partire dagli anni Sessanta tra le due fazioni combattenti, e moltissime delle strutture teatri dei cinema storici vennero dilaniate dagli attacchi dinamitardi, per poi non riaprire più.
Un’interessantissima guida alla storia del cinema e del suo linguaggio rapportato anche al racconto dei Troubles, ma che appare distaccata in un’analisi più approfondita di quelle dinamiche, preferendo soffermarsi su altri temi. Un lavoro nel complesso discreto, ma che soddisfa poco.

Guglielmo Vinci per www.policlic.it

Il cinque maggio: “Un cantico che forse non morrà”

Il cinque maggio: “Un cantico che forse non morrà”

“Ei fu…” 5 maggio: tale data, già nota a molti per la sua risonanza, quest’anno assume una connotazione più sostanziosa, in quanto segna ben duecento anni dalla scomparsa di Napoleone Bonaparte. Proclamato imperatore dei francesi nel 1804 da parte del Senato e...

La nostra selombra sulle città invivibili

La nostra selombra sulle città invivibili

Scarica QUI la rivista n. 6 di Policlic Se un’ombra scorgete, non è un’ombra – Ma quella io sono. Potessi Spiccarla da me, offrirvela in dono E. Montale, Ossi di seppia Una mattina di fine ottobre arrivo in Piazza della...