La nostra selombra sulle città invivibili

La nostra selombra sulle città invivibili

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Se un’ombra scorgete, non è un’ombra –
Ma quella io sono. Potessi
Spiccarla da me, offrirvela in dono
E. Montale, Ossi di seppia

Una mattina di fine ottobre arrivo in Piazza della Repubblica; salgo le scale del Museo della Scuola di Roma e saluto Gian Piero, come tutti i giorni in cui giungo in quel luogo così centrale e così in ombra nello scrigno della già piazza Esedra. E come tutte le mattine in cui mi accoglie Gian Piero, c’è qualche sorpresa dietro l’angolo, la scintilla di un nome, un fatto che conoscerò o almeno sentirò per la prima volta. Ha lasciato da parte per me – senza apparente motivo – un librino, un piccolo albo illustrato per bambini. È di Anna Curti e s’intitola Il signor ombra[1]. Ho un sobbalzo. Sono giorni che mi arrovello attorno alla “selombra”. La selombre è il titolo intraducibile – chi può, chi sa, mi aiuti – di un breve romanzo di Alfredo Antonetti, uscito nel 1989 per le edizioni romane “Notarius”; la vicenda è narrata totalmente, dall’inizio alla fine, in dialetto fondano, la lingua del mio paese d’origine. Fondi, “un paese ciociaro che s’è scordato di essere ciociaro”, stretto tra “timide montagne” e il mare, in un’amena valle appena otto metri sopra il livello delle acque che l’autore chiama, nel corso del racconto, “piana dell’appocundrìa”, facendo confluire in un’unica immagine geologia, orografia, psicopatologia. E così quella mattina io mi ritrovo al cospetto di almeno due ombre, l’ombra di un sospetto che qualche cosa leghi gli accadimenti e l’ombra di questo libro che evidentemente mi porto appresso.

La breve storia illustrata da Curti ruota attorno al gufo Aroldo, animale timido di cui tutti gli altri s’approfittano. Come ciascuno di noi, Aroldo ha un’arma che ignorava: la sua ombra. La sua ombra cresce per mostrarsi, per suggerirgli: “Difenditi!”. Ma, soprattutto, quell’ombra gli diventa amica: insieme nel bosco, Aroldo e l’ombra suonano, cantano, si divertono. “All’improvviso tutti si accorgono di avere anche loro un signor Ombra. E all’improvviso il signor Ombra si accorge di avere lui stesso un signor Ombra”. “Fine?” sembra domandare Aroldo. “Fine…” risponde il signor Ombra. “Fine!” conclude il signor Ombra del signor Ombra.


Le forme del tempo

Due giorni dopo, dopo aver risfogliato quel piccolo volume con la copertina rossa, volo su via del Corso. Desiderio di visitare una mostra. Avevo tentato già una settimana prima. Pioveva dentro Roma. La metro, magari un po’ affollata, invece solo affogata. Affogata come le lenti degli occhiali – e chi li porta per necessaria urgenza conosce il fastidio dell’appannamento, dell’ombra del respiro riflesso dal tenue chiarore della mascherina. Ma tant’è. Tant’è il disagio che di fronte alle opere, di fronte alla vista, quasi guardando il mio vedere, non riuscivo a visitare, non riuscivo a guardare: mi sembrava di visitare solo un’ombra di quello che vedevo. Perciò ci riprovo. Roma in questo periodo sarebbe già addobbata a festa e noi staremmo già a citare Bukowski che non voleva le lucine e noi nemmeno, e invece poi ci mancano. Niente lucciole per Roma. A piedi da piazza Repubblica, una sigaretta accesa per respirare davanti alla fontana del Tritone, mentre un chiaroscuro scende sui muscoli possenti del dio forzuto, evidenzia i suoi elefantiaci capezzoli. Ombreggia sui delfini che non sono delfini. Alle 18 i negozi chiudono da aperti.  

Uno scatto di Roma, deserta.

Forse è già tardi, la mostra “Le forme del tempo” di Manolo Valdés a Palazzo Cipolla chiude alle 20, ultimo ingresso alle 19, ma alle 18.40 sono dentro. Non c’è nessuno, il modulo da compilare. Non ho tosse. Non ho febbre superiore ai 37,5. Voglio entrare alla mostra. Non sono entrato in contatto con contagiati negli ultimi 14 giorni. Non lo so. Barro le caselle con una penna che potrebbe essere stata impugnata da chiunque, anche qualcuno che aveva le mie stesse risposte, e invece. Voglio visitare la mostra, fatemi varcare questa soglia, fatemi superare quest’ombra del mio desiderio. Chi è questo Valdés che viaggia sul retro degli autobus deserti, che scontro sui pannelli accanto alle fermate: una campagna promozionale nella norma, come se non. Il superfluo riposa nel guardaroba, ma entrando alla mostra non sento meno pesantezza che all’ingresso, quando ancora avevo addosso un cappello a falda larga, sulle spalle lo zaino e in mano pure una busta con un cappotto nuovo nuovo. All’ingresso e all’interno sono più i vigilanti che i visitatori.

Valdés finalmente parla e si presenta in un video girato col telefonino. Dice che “una mostra a Roma è una grande responsabilità” – un poco retorico – e aggiunge che “è fortunato chi nasce a Roma”, chi si confronta ogni giorno con le più grandi opere del passato: come non possa non saper disegnare, dipingere, scolpire chi è nato a Roma. Ma Roma adesso è un’ombra, Manolo, le capitali del mondo adesso sono un’ombra, i viaggi sono solo un’ombra, lo spazio è solo un’ombra, come le opere degli artisti che ami, che remixi e rifondi. I pittori amati da Valdés sono solo un’ombra dentro le sue creazioni, le sue ricreazioni, le sue visioni, i suoi strappi, le sue forme, le sue tempere pastose. Ogni cosa è un’altra. Ogni figura una lastra, la sua ombra. Come il ritratto della dama nella saletta in cui compare la proiezione del dipinto originario. Palazzo Cipolla è colmo di infante: di bronzo, di legno, di resina. L’infanta Margarita si nasconde, raddoppia, si decuplica. Quella in resina blu è straordinaria, incantevole, fiabesca. Siamo al cospetto di una esposizione azul. Ma la guardia in blu interrompe l’incanto dell’infanta, ricorda che alle 19.45 ci sarà la sanificazione, per cui occorre visitare la mostra più velocemente. Come inseguiti, inseguiti da un’ombra nel labirinto di sale e salette. La stanza degli specchi di Matisse chiama Alice, chiama a raccolta tutti i noi che ci consentiamo, ma altri due vigilanti coprono in parte una delle opere sul fondo. Il selfie allo specchio, pratica terribile e trashissima e perciò irrinunciabile, coinvolge altri figuri, i volti di Matisse si allungano ancor più, come un’ombra che adesso spinge verso l’uscita, passando attraverso ritratti ri-ritratti che richiamano il Ghirlandaio. In fondo alla stanza una libreria di legno, come se tutti i volumi tornassero d’emblée all’origine, alla cellulosa, al ramo, al tronco, alla foglia, alla cellula, al virus, alla malattia che li ha resi altro da ciò per cui erano venuti alla luce e per cui ora sono chiamati, nominati a chiamare, a farci nominare, conoscere. Perché il percorso di Valdés è in fondo inverso: smonta le figure, i volti, le parti riconoscibili delle opere per renderle familiari attraverso una forma, un colore, un’ombra, qualcosa di più grande del complesso. Oltre la vetrata di Palazzo Cipolla è ancora Roma, notte, luna fetta di pandoro, torta tagliata. Non sono nemmeno le 20 e coprifuoco è una parola che sfiamma la strada, e sarebbe il caso di chiamarlo fuorifuoco. Ombra. O forse “selombra”.

Uno scatto alla mostra di Manolo Valdés a Palazzo Cipolla.


La selombra che sembra un’ombra

“Il cuore ha luce”, è scritto in epigrafe ne La selombre di Antonetti. Già da qui inizia la partita tra la luce e l’ombra. Come fa il cuore ad avere luce? E come può, invece, un uomo essere la sua stessa ombra, volersela costruire? È possibile restare in ombra pur ricevendo luce? La stessa operazione del cuore: ha luce anche se è in ombra, anche se è un organo interno. Oppure no? Le pulsazioni che ci pervadono, che sentiamo in gola, o sul polso, o in petto, sono forse il modo del cuore di mostrarsi, tendere alla luce, di trattenerla? Francesco, il protagonista, vive in questo paese in cui la sera “una volta si incontrava sempre gente in piazza, adesso alle dieci si chiudono tutti in casa”. Cos’è? La Roma deserta di questa sospensione? O Roma è tutte le province del mondo, ora? Il mondo, ora e adesso – perché “ora” e “adesso” sono ere che possiamo toccare – è tutto una provincia, le città periferie di se stesse, e tutti scontano gli stessi disagi, la stessa sospesa sorpresa, improvvisamente, improvvidamente. Aveva ragione Flaiano: “Colme di ipotesi restano le città, / i desideri hanno un prezzo infamante”. C’è un luogo, tra le “città invisibili” di Italo Calvino, che somiglia incredibilmente al nostro coevo, potendo ormai racchiuderci – non voglio dire “rinchiuderci” – tutti in un luogo solo, così accomunati da questo invisibile – lui sì – nemico. È Cloe. Una grande città in cui

le persone che passano per le vie non si conoscono. Al vedersi immaginano mille cose uno dell’altro, gli incontri che potrebbero avvenire tra di loro, le conversazioni, le sorprese, le carezze, i morsi. Ma nessuno saluta nessuno, gli sguardi s’incrociano per un secondo e poi si sfuggono, cercano altri sguardi, non si fermano. […] Così tra chi per caso si trova insieme a ripararsi dalla pioggia sotto il portico, o si accalca sotto un tendone del bazar, o sosta ad ascoltare la banda in piazza, si consumano incontri, seduzioni, amplessi, orge, senza che ci si scambi una parola, senza che ci si sfiori con un dito, quasi senza alzare gli occhi[2].

Francesco, dicevamo, conduce una vita che in paese fa discutere: non si decide a sposarsi, non vuole cedere ai ricatti di certi mafiosetti locali, ma soprattutto coltiva la sua selombra. Non è un’ombra la selombra. Letteralmente “selombra” si usa per apostrofare qualcheduno esile, silenzioso, che fa quasi ombra a se stesso, un losco figuro difficile da decifrare. In verità è Francesco che non riesce a decriptare gli altri, parlando una lingua che quando “esce dalla bocca […] comincia con un silenzio che sconfina dentro la vita degli altri, perciò […] è un dialetto che spesso si parla da solo, parla a se stesso”. Un luogo dove “ti assale il sospetto che la vita stessa che stai vivendo sia una vita passata”, che “la vita che uno tiene sia già stata vissuta da qualche altra parte”[3]. Proprio come scrive Calvino ne Le città invisibili: “Marco entra in una città; vede qualcuno in una piazza vivere una vita o un istante che potevano essere suoi; al posto di quell’uomo ora avrebbe potuto esserci lui se si fosse fermato nel tempo tanto tempo prima”. Come Francesco quando vide il tempo “un giorno che camminava, lui e un amico, dalle parti della scuola e gli occhi gli andarono su dei ragazzi che facevano ginnastica”:

Questa visione lo fulminò, perché s’incrociò con un’altra visione, una visione in cui era lui che faceva ginnastica lì. Queste due immagini, toccandosi, misurarono il tempo con una geometria che Francesco non aveva mai studiato. Francesco riusciva a vederla questa geometria, se la tenne a mente e la tradusse con parole che, non potendo essere di matematica, furono di paragone e di conclusione.[4]

Per dirla ancora con Calvino, una città è fatta “di relazioni tra le misure del suo spazio e gli avvenimenti del suo passato”. “Viaggi per rivivere il tuo passato? […] Viaggi per ritrovare il tuo futuro?” chiese il Kan a Marco Polo. “E la risposta di Marco: – L’altrove è uno specchio in negativo. Il viaggiatore riconosce il poco che è suo, scoprendo il molto che non ha avuto e non avrà”[5].

Ed è così che siamo alla città-appocundrìa, una ulteriore città calviniana accanto a un termine ormai approdato nell’enciclopedia Treccani. “Appocundrìa” è una stralunata malinconia, ma non è abbastanza: una irrequieta melanconia. Ne La selombre Antonetti scrive:

Sotto l’arteteca [l’irrequietezza], ci sta l’appocundrìa. […] Solo che l’appocundrìa è una piana piena di lucciole, e ora s’accendono ora si spengono. Quando poi le lucciole s’accendono tutte insieme o si spengono tutte insieme, […] s’impazzisce. Perché a vedere tutto d’un tratto pure i fatti più sconosciuti e perciò insidiosi, e a scorgere, dentro a un fulmine di tempo, in mezzo all’oscurità pure quelle cose che sono solo una scusa che serve a campare comunque, salta il collegamento tra l’arteteca della vita e le lucciole dell’appocundrìa. E senza questo collegamento non si può che camminare sul filo della follia.[6]

Francesco smania, smania perché pensa, cammina molto lungo il paese, s’avvicina agli uomini, s’azzuffa. Perché

Possiamo dire che l’uomo deve affrontare due grossi scogli: l’appocundrìa e l’economia. E Francesco ci sbatteva spesso la testa, spinto ora dall’onda dell’appocundrìa e ora dall’onda dell’economia. Era pieno di lividi Francesco, e certe volte la sofferenza era così forte che lo sbatteva su uno dei due scogli come un pesce. Quando l’urto era così forte, Francesco restava sotto shock, con una specie di nodo dietro agli occhi, e lo sguardo perdeva la sua velocità di movimento.[7]

Appocundrìa ed economia, irrequietezza e, letteralmente, gestione della casa, regole della casa, si scontrano, si muovono come ombra e luce, come uomo e selombra, città e ombra. Francesco sente addosso una specie di malattia, come malattie sono, o meglio erano, l’arteteca – dal greco arthritis, una febbre reumatica con forti spasmi alle articolazioni che colpiva molto gl’infanti – e l’appocundrìa, una certa forma d’ipocondria. Ed è camminando che il protagonista ci suggerisce qualcosa che oggi ci suona troppo familiare:

È brutto il dolore, sotto qualunque forma si presenti, e in un ospedale ti sembra proprio di vederlo. Francesco respirò. L’aria è bella, la luce è bella, camminare è bello, entrare nei bar è bello, guardare in movimento il movimento è bello. Eppure, fuori da un ospedale, il dolore continua, perché il dolore non tiene frontiere; ma lì dentro ti si presenta in faccia senza fronzoli, tanto che i dottori tengono pronto un nome per ogni manifestazione. Il dolore dell’appocundrìa invece spesso non si vede, e non si vede perché non lo vogliamo vedere, perché lo nascondiamo, lo scacciamo. Il dolore è brutto perché scuote tutta la vita e ti fa campare male. Ma dalla piana dell’appocundrìa il dolore avanza e spinge e urla e parla e stabilisce e comanda e impedisce. La piana dell’appocundrìa è grossa, la piana dell’appocundrìa è la cosa più grossa di questo mondo, con uno spazio e una geometria diverse che non si possono misurare con Euclide ma così grossa che sconfina senza muoversi. Questa piana senza confine, questa appocundrìa con una parola di poche parole è […] la questione più grossa di questo mondo. Questo spazio che non si muove e che sconfina tiene le sue contrade con la sua parlata specifica, i suoi fatti particolari, i suoi dolori propri che invadono tutta la piana e le lucciole impazziscono. Ma questo dolore che si sparge non è il comandante assoluto, perché esistono avvenimenti delicati con cui uno si arricrea, c’è il respiro della vita che guarda alla luce, ai colori, ai fatti buoni, alle cose belle, ai progetti sani e positivi, all’amore che con le loro forze comandano. […] Perché la vita non è un’inezia, non è un impulso, non è un verso, non è un monumento, non è una parola sola; la vita non si può ridurre a un urlo di rabbia, a un quarto d’ira, a uno scatto in un momento di collera. Se la piana dell’appocundrìa è uno spazio che sconfina, se è una cosa, un fatto più grosso del mondo, allora la vita non si può racchiudere in un solo momento. Il respiro della vita è grosso, il respiro della vita è largo, il respiro della vita esige dall’uomo una conoscenza adeguata all’importanza che tiene.[8]

Francesco risorge, ritrova la luce, viene alla luce, ritorna alla luce, e anche a quel cuore con cui s’apriva il romanzo di Antonetti. S’innamora, il sentimento è ricambiato, vince e la lotta tra ombra e luce si risolve dentro la costruzione della selombra: “Nessuno può dirsi uomo, persona vera, selombra di valore se non lotta dentro la sua mente, se non viaggia nella piana dell’appocundrìa, se non ha l’ambizione della morale, dell’intelligenza, della libertà, di capire le cose con intelligenza e non per abitudine”[9], citando il filosofo Abelardo. E noi ora siamo diventati tutti l’ombra di noi stessi, costretti nelle case, costretti nello “smart uorchi”, nel remoto, stretti nei pigiami da notte a notte, da letto a scrivania. Roma, gli edifici, le mostre, gli artisti, le città che non abbiamo mai visitato, il pianeta tutto è l’ombra di se stesso. La selombra diventa una corazza, la nostra ombra sull’ombra, però costruita da noi consciamente.

Il sentimento della vita sbanda tra la paura e la fiducia. Questo sbandamento è legato da una parte all’appocundrìa e dall’altra all’arteteca della vita; solo l’uomo con la selombra di valore riesce a tenere un sentimento costante di coraggio e dignità. Francesco aveva speso una vita intera a tenere d’occhio la sua selombra e solo ora, curvato dalla vecchiaia, cominciava a vederla. La selombra di valore è una costruzione che finisce solo con la morte, perché è come un disegno della propria figura, a cui ogni giorno si aggiunge un tratto, una linea, un tono. L’uomo col tempo cambia, gli accadimenti sono molti e sempre diversi, per cui la raffigurazione bisogna controllarla giorno per giorno. La selombra di valore richiede un uomo di valore, e questo valore non è una proprietà ereditabile, ma una conquista che ognuno deve cercare da solo.[10]

E quindi uscimmo a riveder la selombra. Ma adesso abbiamo meno tempo perché abbiamo più tempo. “L’impero è malato e, quel che è peggio, cerca d’assuefarsi alle sue piaghe”, sostiene Polo ne Le città invisibili: “Se vuoi sapere quanto buio hai intorno, devi aguzzare lo sguardo sulle fioche luci lontane”[11].

Simone di Biasio per Policlic.it


Note e riferimenti bibliografici

[1] A. Curti, Il signor ombra, Salani, Firenze 2008.

[2] I. Calvino, Le città invisibili, Mondadori, Milano 2016, p. 49.

[3] A. Antonetti, La selombre, Notarius, Roma 1989, p. 11 [traduzione mia].

[4] Ivi, p. 16.

[5] I. Calvino, op. cit., p. 27.

[6] A. Antonetti, op. cit., p. 10.

[7] Ivi, p. 29.

[8] Ivi, pp. 67-68

[9] Ivi, pp. 78-79.

[10] Ivi, p. 91.

[11] I. Calvino, op. cit., p. 57.

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