COVID-19: protocolli di cura e prospettive per la Fase 2

COVID-19: protocolli di cura e prospettive per la Fase 2

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Il dottor Claudio Puoti è infettivologo ed epatologo dell’istituto INI di Grottaferrata. Tra le altre cose, ha partecipato come medico volontario alle missioni navali di soccorso “Mare Nostrum” e “Mare Sicuro” della Marina Militare Italiana.

Dottor Puoti, facciamo un po’ di chiarezza sulla difficile situazione che stiamo vivendo. Il 4 maggio è previsto l’inizio della cosiddetta “Fase 2”, ovvero un graduale ritorno alla vita lavorativa e sociale. Quali azioni saranno fondamentali dal punto di vista sanitario per far sì che si possa continuare a tenere l’epidemia sotto controllo?

Il giorno del “D-Day” non ci sarà la libera uscita per tutti e ovunque. Non si può dare luce verde a tutti. Qualcuno dovrà avere semaforo giallo e altri dovranno avere la pazienza di attendere, perché il loro semaforo sarà rosso ancora per un po’. Bisogna identificare criteri di rischio di malattia e soprattutto di letalità, oggi ben chiari. Certo non farei uscire immediatamente persone sopra i 65 anni, anche se non hanno malattie di base importanti, e non farei uscire tutti quelli che hanno patologie severe, a prescindere dall’età (per esempio, diabete mal controllato, cirrosi scompensata, neoplasie, immunodepressione, chemioterapia, cardiopatie importanti, bronchite cronica, ecc.). Al momento non farei ancora uscire tutti quelli che possono avvalersi del telelavoro. Andranno inoltre implementati i sistemi di sorveglianza e di controllo e le attività territoriali.

C’è molta confusione relativamente all’uso dei dispositivi di protezione individuale. Quanto sono importanti per evitare la trasmissione del contagio? Quali sono i dispositivi più funzionali a questo scopo?

Sono un sostenitore assoluto delle mascherine; le renderei obbligatorie, sanzionando chi non le indossa. Se il 100% della popolazione in giro le usasse (usare vuol dire metterle bene, non sotto il mento, sulla fronte o come fermacapelli), la circolazione del virus rallenterebbe enormemente. Oltretutto, le mascherine impediscono di portare inavvertitamente le mani alla bocca. Ho invece qualche dubbio sui guanti, che a mio parere non servono molto. Possono creare un falso senso di sicurezza: se si portano le mani alla bocca o ci si strofina l’occhio, anche con i guanti, il guaio è bello che fatto. Meglio avere paura e usare cautela, e lavare accuratamente le mani il più possibile.

La situazione a livello nazionale sta progressivamente migliorando, ma in alcune Regioni, come Lombardia e Piemonte, continua a esserci uno scenario estremamente difficile. Non sarebbe giusto pensare a una ripartenza diversa per ciascuna Regione?

Assolutamente sì: le riaperture dovrebbero avvenire in base a un gradiente di incidenza regionale o zonale della COVID. La diffusione dell’epidemia non è stata identica su tutto il territorio nazionale, pertanto non possono essere identiche le modalità di apertura. Credo che si debbano immediatamente riaprire le aree in cui il virus si è diffuso poco. Dopo 15-20 giorni si dovrà valutare se ci sono stati nuovi casi in misura significativa, nuovi ricoveri, un eccesso di morti rispetto all’atteso, e solo a quel punto procedere con altre aree a maggiore impatto.

Molti suggeriscono di statuire delle norme più restrittive per gli anziani, visto che sono la categoria di persone più colpita dal virus. Lei ritiene che sarebbe una decisione corretta?

Non si può ragionare in termini meramente astratti di libertà costituzionali, ma bisogna studiare i dati epidemiologici, soprattutto esaminando la mortalità per fasce di età. Esiste un chiarissimo effetto coorte: chi è più anziano rischia di più. Non immagino sanzioni per gli anziani che escano, ma serve adeguata attività di informazione.

Rimanendo sul tema anziani, sono in corso decine di indagini sulla gestione delle RSA durante la pandemia. È quasi sicuro che il numero degli anziani morti in queste strutture sia molto più ampio di quello che conosciamo. Per quale motivo è accaduta questa tragedia? Crede che sia legata alle condizioni di salute originarie di queste persone o pensa che ci siano state anche delle negligenze da parte degli enti controllanti?

È un insieme di cause che hanno giocato contemporaneamente potenziandosi tra loro. Età avanzata, co-patologie, pochi controlli, magari condizioni igieniche precarie hanno creato in tutta Europa un mix esplosivo. Mi pare che altri Paesi siano nelle stesse nostre condizioni, se non peggio.

Una questione che sta causando qualche discussione è quella relativa ai test sierologici per la rilevazione dell’anticorpo IgM e dell’anticorpo IgG. Secondo lei il Governo ha sbagliato a non prevedere il requisito della rilevazione dell’anticorpo IgM nel bando per i 150.000 test da effettuare per l’indagine campione?

No, è stata una decisione assolutamente corretta. Non sappiamo ancora quali test siano attendibili e solo ora ne abbiamo identificati alcuni adeguatamente sensibili e specifici. Ove fossero disponibili su grande scala, e soprattutto attendibili, sarebbero utili, fermo restando che ancora non è del tutto chiaro quanto anticorpi IgG possano essere neutralizzanti e protettivi, visto che ci sono stati dei casi di recidive in soggetti dichiarati guariti.

A Vo’ Euganeo è stato fatto il tampone a tutti i cittadini, tracciando così anche tutti gli asintomatici, e conseguentemente si è cercato di ricostruire anche i loro contatti. Perché in Lombardia, invece, si è puntato tutto sull’ospedalizzazione? L’assenza di una forte rete di medicina territoriale sarà un problema anche in altre Regioni a partire dalla Fase 2?

Sono assolutamente convinto che l’ospedalizzazione eccessiva sia stata fonte di contagi a catena anche tra gli operatori sanitari e che la COVID dovesse essere gestita precocemente a domicilio. Così non è stato, con tutte le attenuanti generiche di un evento epocale e di immensa portata.

In queste settimane si è parlato molto di farmaci che potessero curare i malati di COVID-19. Trump, ad esempio, continua a sponsorizzare la clorochina. Lei cosa ne pensa?

Sulla base dei dati disponibili, insieme a un gruppo di esperti, ho elaborato un protocollo per la terapia domiciliare precoce con la clorochina, che è stato firmato da oltre 2000 persone tra medici, ricercatori, cittadini. Ho avuto modo di parlare della proposta su reti nazionali, alla radio, sui giornali, ma ad oggi non vi è stata alcuna risposta. Sappiamo che in molte Regioni italiane l’associazione clorochina-azitromicina viene prescritta e in altre no, in una situazione di confusione totale e senza che siano noti gli esiti dei casi trattati, e vi è il forte timore che le persone possano assumere autonomamente la terapia senza controllo medico e senza indagini preliminari. Per tale motivo ho chiesto l’avvio immediato di uno studio nazionale pilota per definirne l’efficacia.

Un altro farmaco di cui si discute è il tocilizumab. Cosa ci può dire al riguardo?

Innanzitutto voglio specificare che non vi è alcuna terapia “nuova”, ma l’applicazione alla COVID di trattamenti già utilizzati in altri ambiti e applicati al SARS-CoV-2 in base alle conoscenze che abbiamo della storia naturale della malattia. L’ormai famosissimo tocilizumab appartiene al gruppo degli anticorpi monoclonali. Essi sono anticorpi sintetici, cioè non derivano dal plasma di esseri viventi, il cui organismo li ha prodotti naturalmente dopo essere stato esposto a un antigene. Si chiamano “monoclonali” perché derivano da un solo tipo (clone) di cellule immunitarie (linfociti B), che vengono isolate, coltivate, purificate e messe in contatto con l’antigene che interessa, costituendo così una preziosissima “miniera” di anticorpi. Il tocilizumab è dunque un anticorpo monoclonale con attività di immunosoppressione, che agisce legandosi al recettore di una sostanza che si chiama interleuchina-6 (IL-6). Questa è una citochina, cioè una proteina prodotta normalmente dal nostro organismo coinvolta nella fisiopatologia della febbre e della cosiddetta risposta della fase infiammatoria acuta, con azione pro-infiammatoria. Legandosi al suo recettore, il tocilizumab ne impedisce l’azione; un po’ come mettere della colla in una serratura, in modo che la chiave non possa più entrare. In questo modo si inibisce l’azione dell’IL-6, che è uno dei fattori che scatenano quella che viene definita cytokine storm, o tempesta citochinica; questa a sua volta innesca la sindrome della risposta infiammatoria siste- 48 mica (SIRS), condizione gravissima che peggiora in maniera drammatica il decorso della COVID come di molte altre malattie, infettive e non.

In tutto il mondo si stanno testando decine di molecole antivirali già note da tempo e utilizzate per la cura di malattie virali come HIV ed Ebola. Qual è il loro meccanismo di azione? E quanto sono efficaci nella cura della COVID-19?

I farmaci antivirali diretti non agiscono sulla conseguenza come gli anticorpi monoclonali (risposta infiammatoria), ma sulla causa (virus). Quando un virus entra in una cellula legandosi a uno specifico recettore (per il coronavirus si chiama ACE2), all’inizio cerca di non uccidere la cellula stessa, perché ne ha bisogno per replicarsi. I virus quindi utilizzano le strutture della cellula ospite per garantire la propria sopravvivenza. Per fare ciò, i virus usano delle proprie strutture (ad esempio, polimerasi o proteasi). All’interno della cellula alveolare del polmone, l’RNA del coronavirus, cioè il suo materiale genetico, dà tutte le informazioni per produrre altri virioni e funziona in pratica come un messaggero. La polimerasi mette in fila i nucleotidi, attaccandoli gli uni agli altri e producendo altre catene di RNA; al tempo stesso il virus produce delle lunghissime catene proteiche (poliproteine), che però per funzionare devono essere tagliate in pezzetti più piccoli. A questo punto subentra la proteasi, un enzima che funziona letteralmente come una forbice e spezzetta le poliproteine in strutture più piccole e funzionanti. Ad oggi l’opzione migliore è ricorrere a cocktail di farmaci, perché l’esperienza della virologia ci insegna che le politerapie, soprattutto di farmaci antivirali che agiscono a livelli diversi, sono più efficaci delle monoterapie.

Alcuni studiosi sembrano suggerire che l’epidemia in corso sia correlata all’inquinamento atmosferico. Quanto c’è di vero in questa affermazione?

Ci sono degli studi italiani molto seri che ventilano questa ipotesi. A mio parere è una teoria attendibile, che ovviamente va verificata con ulteriori indagini e che comunque non è che una delle tessere del mosaico che stiamo cercando di comporre. Siamo ancora in fase di emergenza; ci sarà tempo per studi epidemiologici, clinici, ambientali, virologici, strumentali.

Il tempo di produzione del vaccino è incerto. Qualcuno afferma che l’epidemia potrebbe sparire con il caldo. È possibile? E quanto è probabile una seconda ondata in autunno?

I coronavirus, noti da oltre 60 anni, sono virus tipicamente invernali e scompaiono o rimangono sotto traccia nel periodo primavera-estate. È praticamente sicuro che in autunno la COVID tornerà a trovarci, forse in modo meno violento.

In conclusione, dottore, fino a quando dovremo convivere con questo virus? Dobbiamo essere pronti alla comparsa di un altro coronavirus in breve tempo?

Sicuramente per molti mesi, se non per anni, fatta salva la variabile del vaccino. Quanto alla comparsa di un altro coronavirus, sicuramente arriverà, ma farà parte della famiglia dei virus cui siamo abituati. Se intendiamo invece un altro coronavirus “nuovo”, come quello della COVID-19, mi sembra molto difficile. Il SARS-CoV-2 è così pericoloso perché il genere umano non lo aveva mai incontrato, e a causa di una mutazione è stato in grado di fare il cosiddetto “salto di specie”. Le mutazioni virali sono un evento frequentissimo in natura, ma la quasi totalità porta a specie virali inefficienti e non in grado di replicare. Tutto è statisticamente possibile, ma è un’evenienza improbabile, almeno a breve.


Marcello Salvagno per Policlic.it

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