Il silenzio delle donne nell’antica Roma riguarda anche noi

Il silenzio delle donne nell’antica Roma riguarda anche noi

Una ricostruzione storica e normativa della condizione femminile a Roma tra età arcaica ed età augustea

La necessità di ripercorrere la storia

“Ripercorrere la storia delle donne nell’antichità̀ greca e romana non è semplice curiosità erudita”[1]. Così Eva Cantarella apre il suo ormai celebre saggio, L’ambiguo malanno, dal titolo volutamente evocativo circa la condizione della donna in epoca classica. Negli ultimi decenni, infatti, il sempre più acceso interesse nei confronti della condizione femminile a Roma ha portato ad ampie indagini di natura storica, giuridica e antropologica, focalizzate in particolar modo sulla nascita di quegli stereotipi che hanno largamente influenzato le discriminazioni di genere.

L’assunto dal quale dovremmo partire riguarda l’oppressione femminile come eredità storica e non come prodotto del moderno capitalismo, sottolineando che il carattere economico intrinsecamente legato alla proprietà privata abbia successivamente portato all’inasprirsi del divario sociale fra i sessi, ma non lo abbia creato. Per risalire alla sua origine è necessario addentrarsi nei luoghi antichi della civiltà classica, ma ricostruire la condizione femminile nella storia del mondo antico non è facile, scrive Cantarella[2], perché si tratta di ricavare elementi costituiti da pagine di silenzio. Si tratta, in concreto, di ricercare le tracce di un passato che si è espresso solamente attraverso un’unica voce corale: quella degli uomini.

Talvolta l’approccio metodologico e ideologico delle diverse correnti del pensiero storiografico contemporaneo ha condizionato l’indagine sulle fonti antiche; un calzante esempio è l’annosa questione sull’esistenza di un matriarcato preistorico. Secondo alcuni studiosi, a cominciare da Bachofen, giurista svizzero autore del celebre Das Mutterrecht (1861), nell’ambito del processo evolutivo della società umana, sarebbe storicamente esistita una fase di vera e propria ginecocrazia, cioè: “una società in cui il potere, in tutti i suoi aspetti, era appannaggio delle donne, anziché degli uomini.”[3] In altre parole, venne prospettata l’ipotesi che una situazione di “potere femminile” non solo fosse immaginabile, ma che addirittura fosse una tappa dello sviluppo storico attraverso la quale i popoli antichi fossero passati.

Nel 1877, Morgan con la pubblicazione di Ancient Society formula l’ipotesi per cui tutte le società fossero passate da una fase originaria di orda promiscua a quella di famiglia monogamica attraverso la famiglia matrilineare, confermando l’ipotesi di Bachofen.
Cronologicamente questa fase sarebbe da collegare al momento del passaggio da vita nomade a sedentaria, grazie all’avvento dell’agricoltura. Engels, nella prefazione alla quarta edizione di L’Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, riprende il pensiero di Morgan reinterpretandolo come primordiale lotta fra diritto matriarcale e patriarcale, con una vittoria di quest’ultimo.

La fragilità di queste ipotesi venne poi dimostrata, in seguito, grazie ad approfondite indagini storiche che, a oggi, ci rivelano l’impossibilità dell’esistenza, nel passato, di una struttura matriarcale, confermando quindi l’egemonia di un modello maschile che, nel corso dei secoli, non ha mai avuto intenzione di cedere il suo potere.

A Bachofen va attributo, se non altro, il merito di aver indagato la condizione femminile arcaica in maniera sistematica, nonostante oggi non ci sia, lo ripetiamo, nessuna prova dell’esistenza di un matriarcato storico diventato, oramai, un mito. È stata invece attribuita una nuova interpretazione alle tradizioni sulle antiche forme di ginecocrazia, sui miti delle matriarche e delle maghe vendicatrici, viste come proiezioni e pulsioni di paure collettive e latenti negli uomini, trasfigurate poi nella più famosa tradizione della tragedia greca.[4]


Le fonti

Il complesso lavoro di ricostruzione storica ha bisogno di un presupposto non trascurabile: le fonti. Diversi sono i tipi di fonti sull’antichità di cui possiamo avvalerci: la produzione artistica, quella letteraria, ma anche i costumi, le norme giuridiche, i miti e le leggende, e anche le iscrizioni funerarie; sono queste ultime, infatti, a svelarci molto sulle donne romane, quando tutto il resto tace.

Sono proprio le notizie sulla vita delle donne fornite dalle iscrizioni e dagli elogi funerari ad attestare la varia natura della condizione femminile in età romana; nello specifico, ci permettono di cogliere quali dovessero essere le caratteristiche positive attribuite alle donne: “pia”, “pudica”, “casta”, sono aggettivi che ricorrono spesso. Aggettivi che rivelano inevitabilmente la persistenza di un modello, costruito dagli uomini, al quale ispirarsi durante la loro vita. Questo potrebbe stupire, ma d’altro canto è impossibile ignorare la faziosità della produzione letteraria, che si evince soprattutto nell’apporto personale del narratore, il quale non agisce da entità unitaria e isolata, ma trasla le sue sensazioni e valutazioni all’intero della narrazione, poiché per quanto si sforzi alla ricerca di obiettività rimane un interprete dei fatti.

E se è vero, come vogliamo dimostrare, che il peso sull’ideologia femminile è tale da avere radici storiche di lungo periodo e da essere stato interiorizzato nelle strutture sociali, non possiamo avvalerci di fonti che non descrivono i fatti in maniera oggettiva, ma che anzi potrebbero essere il frutto proprio di tale ideologia. Inoltre, sebbene le fonti letterarie riportino una pluralità di testimonianze, sono da circoscrivere nell’esperienza di un unico ceto sociale privilegiato che ha avuto la possibilità di lasciare traccia di sé: l’aristocrazia romana. Queste, infatti, trattano quasi esclusivamente le classi abbienti, tralasciando la condizione dei liberti e della plebe. Un’altra categoria di fonti che può aiutarci è senza dubbio quella giuridica: seppur in una prospettiva diversa, le norme giuridiche ci forniscono una visione oggettiva e neutrale sulla vita delle donne. È importante specificare che la lettura delle principali norme giuridiche non è sufficiente per chiare la condizione femminile, ma questo dipende soprattutto dalla moltitudine di aspetti sociali ed economici impossibili da ricavare da un testo normativo, sottolineando quanto, molto spesso, libertà astratta e poteri concreti non coincidano. Ed è proprio lo scarto fra norma e costume, fra regola e usanza a essere oggetto di indagine, e questo perché le regole del diritto consentono di ricostruire la vita di tutte le donne passate nella storia senza entrarvi.[5]

Le fonti giuridiche sono collocabili lungo l’intero arco temporale della storia di Roma, oltre a quelle di età arcaica. Fondamentali risultano quelle di età repubblicana e imperiale, periodi, quest’ultimi, necessari per cogliere appieno l’evoluzione della rappresentazione femminile.


Un dettaglio della “Carità Educatrice” opera scultorea di Lorenzo Bartolini, datata tra il 1852 e il 1855 circa. Nick van den Berg/
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Donne romane e greche, due realtà giuridiche a confronto

La dicotomia che attraversa la storia del mondo antico potrebbe forse essere semplicisticamente condensata nella contrapposizione dell’universo maschile a quello femminile, due sfere parallele destinate ad ambiti profondamente distinti: da un lato il fragore della spada e le lotte per il potere, dall’altro il silenzio delle mura domestiche, l’accortezza di abbassare sempre lo sguardo, la sottomissione.

È facile notare come le storie delle donne nell’epoca classica tendano ad assomigliarsi, da un punto di vista diacronico confronti di tal portata meriterebbero approfondite indagini per portar alla luce l’evoluzione dello status delle donne da un’epoca all’altra, ma ciò su cui ci soffermeremo sono le divergenze e le similitudini che emergono dalle norme giuridiche.

Nella Grecia classica, la donna è confinata, si muove, nel gineceo, non nella polis, è estromessa da ogni forma di partecipazione politica, come testimonia anche Aristofane; in Lysistrata, un marito risponde alla moglie che lo interroga sugli affari pubblici: “Questo non ti riguarda, taci o ti prendo a schiaffi. Tessi la tua tela.”[6] Possiamo affermare che la discriminazione delle donne ad Atene fosse percepita come naturale e per questo diffusa, al contrario di Sparta, città in cui prevaleva un regime comunitario e le donne erano considerate quasi alla pari dell’uomo.[7] La conoscenza del patrimonio di pensiero giuridico greco passa obbligatoriamente attraverso una ricostruzione del diritto locale.

Un “diritto greco” inteso nella sua definizione stricto sensu di ordinamento giuridico unitario e nazionale non è mai esistito.

L’esperienza giuridica ateniese, inaugurata con le prime leggi scritte risalenti al VII secolo, esclude perentoriamente due categorie di persone, rappresentate dagli schiavi e dalle donne.
Considerando l’esistenza delle donne solo in funzione della loro capacità riproduttiva, i primi legislatori si preoccuparono di regolare il comportamento sessuale femminile, trascurando – volutamente – i diritti legali e politici, diritti che nessuna donna ateniese possedeva, muovendosi dall’infanzia fino all’età adulta senza una personalità giuridica.
Allevate in case, le ragazze ateniesi contraevano matrimonio intorno ai quattordici anni; lungi dall’essere un rapporto personale dettato da una scelta di tipo affettivo, il matrimonio era in realtà determinato da ragioni di tipo sociale e patrimoniale.

Le condizioni della donna sposata – in una similitudine che non appare forzata – potrebbero essere comparate a quelle di una prigioniera. Rinchiusa nella parte interna della casa (gynaikonitis), era impossibilitata a vedere persone diverse dai familiari, non era ammessa agli spettacoli teatrali e non poteva partecipare ai banchetti. L’assunto che, dal punto di vista giuridico, la donna dell’epoca classica vivesse in una sorta di anonimato non può essere superato. Sin dall’origine, dunque, l’eredità trasmessa sull’identità femminile è quella di una diversità naturale, di una subordinazione necessaria.


La donna romana e la famiglia in età arcaica

La storia della donna romana si identifica in lunga parte con la storia della famiglia, considerata nelle sue strutture fondamentali. Tuttavia, l’inquadramento istituzionale della stessa risulta ancora un tema complesso. Appare dunque necessario rintracciare dei punti fermi dai quali partire.

Uno di questi si trova nell’idea espressa da Albanese, secondo cui l’uguaglianza piena di tutti coloro che vivono all’interno di una stessa organizzazione statale è una conquista relativamente recente.[8] Nel mondo antico, infatti, la preferenza era quella di un assetto politico complice di profonde disuguaglianze giuridiche. Ed è in questa prospettiva che si colloca la condizione giuridica di subalternità della donna romana.

Nei primi secoli della sua storia, il diritto romano considerava soggetti di pieno diritto solo i cittadini maschi. Le donne non erano titolari di diritti politici e avevano la possibilità di esercitare i diritti civili solo con il consenso di un tutore.[9] La familia, nel diritto Romano, è costituita da un gruppo di soggetti la cui subalternità derivava per alcuni dalla natura, come ad esempio per i figli e i discendenti, per altri dal diritto, come per la moglie e gli schiavi. Il pater era posto al vertice della gerarchia e godeva di poteri assoluti e incontrastati all’interno del nucleo familiare, al punto da disporre della titolarità del diritto di vita o di morte (ius vitae ac necis)[10]

I poteri del padre sulle donne erano ampi e si concretizzavano nell’istituto della patria potestas. Nonostante il nome, quest’istituto differisce dalla potestà che spetta ai genitori sui figli nel nostro attuale ordinamento: mentre quello delineato dall’art 316 del c.c configura un istituto protettivo, destinato a integrare la capacità del figlio minorenne, la patria potestas era un istituto potestativo e perpetuo che lasciava uno spazio molto ampio all’uso, ma soprattutto all’abuso dei poteri paterni. La patria potestas, dunque, rinchiudeva le donne nello stretto perimetro dei loro pochi diritti, a differenza delle donne greche, rinchiuse nel perimetro reale costituito dalle mura domestiche.

Seppur titolari di diritti, però, la facoltà di esercitarli era preclusa alle donne, in quanto la capacità di essere titolari di un diritto (capacità giuridica) è cosa assai differente dalla possibilità di poterlo esercitare (capacità di agire). In altri termini, pur se riconosciuti formalmente, le donne non potevano esercitare questi diritti se non con la mediazione di un uomo e con il suo assenso. La ragione sottesa a questa estromissione era una presunta inferiorità naturale: le donne non erano in grado di provvedere a sé stesse propter levitatem animi, vale a dire per la loro leggerezza d’animo.[11]

Potremmo definire la condizione giuridica della donna, nel contesto del diritto romano, come una “disciplina speciale”, poiché assume i contorni di uno status proprio delle persone di genere sessuale femminile. In altre parole, si prescrivevano norme giuridiche differenti in ambiti legislativi cruciali come il matrimonio, le obbligazioni, i contratti, il processo. Così venne costruendosi un’identità, ma simmetricamente un’alterità.

La ratio sottesa a questo tipo di limitazioni è da rintracciare nel tentativo di modellare i comportamenti verso una tipica continenza. Evocativo in tal senso è il divieto per le donne romane di poter bere vino[12] e il peculiare obbligo assoluto alla verginità, sopravvissuto solidamente nel corso dei secoli. Secondo alcuni studiosi, tra cui Durry[13], la disposizione giuridica si potrebbe collegare al divieto di abortire: sarebbero infatti state attribuite al vino, da parte dei Romani, capacità abortive. La predestinazione femminile è quindi quella di una subordinazione, in un mondo in cui non solo le donne non “nascono libere” e con gli stessi diritti, ma questi ultimi, quando mancanti, risultano difficili da acquisire nel corso della vita. Le donne s’identificano quindi con il ruolo di mogli e madri, a causa dell’assenza di una figura femminile giuridicamente indipendente.

La funzione della procreazione era la vera vocazione femminile, il matrimonio la funzione istituzionale che permetteva di accedere a una precisa linea agnatizia in cui inserirsi. Alla madre non spetta la potestas sui figli, non può pertanto adottare, né avere eredi suoi legittimi; i figli seguono la condizione giuridica del padre, quando sono stati concepiti in giuste nozze. Viene inoltre impedito alle donne di contrarre nuove nozze prima che sia trascorso un lasso di tempo vedovile di dieci mesi, per scongiurare l’ipotesi di erronee attribuzioni di paternità, evitate nell’ottica di un’intricata trama di doveri coniugali ispirati alla temperanza femminile, atti a consolidare la comunità cittadina.


L’adulterio, dura lex

Il ritratto di Hans Makart, “Charlotte Wolter als Messalina Messalina” datata 1875. Vienna Museum/Wikimedia Commons, opera
di pubblico dominio

Una severità particolare, nel diritto romano, è riservata alle donne che commettono adulterio. Sin dall’epoca dei re, emblematica fu la sua asimmetrica punizione.

Il significato del verbo adulterare è corrompere, falsificare; in particolare adulterare una donna sposata significa “corromperla, inquinarla.” Per il diritto romano solo la donna, violando la fedeltà coniugale, si rendeva colpevole di adulterio, mentre, quando il marito aveva relazioni extramatrimoniali non era considerato colpevole. Tale sperequazione circa l’infedeltà è attestata da Catone, allorché afferma che la moglie non doveva osare toccare il marito fedifrago neppure con un dito, perché non ne aveva il diritto.[14]

Il giurista Ulpiano, durante un processo per adulterio, espresse l’idea secondo la quale quando il marito accusava la moglie di adulterio, il giudice dovesse procedere a una verifica complessiva dei mores del marito accusatore, per constatare se costui fosse di esempio nei costumi, arrivando ad affermare che: “sembra essere molto ingiusto esigere dalla moglie un livello di moralità di cui egli stesso non dà prova”. Tuttavia, questo non bastò per mutare lo sguardo indulgente nei confronti dell’adulterio maschile.

La durezza delle conseguenze a cui abbiamo fatto accenno precedentemente si concretizzava nella soppressione fisica della colpevole, come attestato da Dionigi di Alicarnasso, il quale riporta una lex regia attribuita a Romolo.[15] Dionigi attesta che, sin dall’epoca antica, la moglie adultera veniva uccisa e a stabilire tale estrema punizione erano i parenti, che decidevano insieme al marito. Il motivo per cui l’adulterio venisse da sempre considerato la colpa più grave di cui una donna potesse macchiarsi lo si deva a una credenza popolare: si riteneva, infatti, che rapporti con uomini diversi dal marito avrebbero avuto come conseguenza quella di inquinare e corrompere la donna. Non solo, Di riflesso, questa macchia avrebbe sporcato il sangue familiare, ritenuto sede della vita.

In realtà, secondo quanto attesta Quintiliano, accanto a queste estreme conseguenze, il diritto romano attesta un’altra forma di riparazione per la donna, quella pecuniaria. Non si trattava però di una consuetudine molto popolare, poiché si raffigurava in questa ipotesi un caso di lenocinio. Fu Augusto, con l’intento di porre fine alla dilagante corruzione dei costumi, ad approvare la lex Iulia de adulteriis coercendis, da lui stesso proposta. L’intento era quello di intervenire in maniera ferma nella repressione dei crimini sessuali – fino a quel momento rimessa all’iniziativa familiare – dando così, all’adulterio, una regolamentazione legislativa.


L’età augustea e le novità normative

L’età arcaica, sulla quale ci siamo soffermati nell’analisi delle norme giuridiche, cede il posto all’età repubblicana e a quella imperiale. Con il proseguire della storia romana, le donne iniziano e sviluppano un lungo processo di emancipazione, favorito anche da un complesso di norme che mutano l’assetto precostituito.

Spicca sicuramente la Lex Iulia de fundo dotali, la quale sanciva che la dote che accompagnava la donna nel matrimonio non fosse più un bene del marito, ma che anzi spettasse alla donna amministrarlo, impendendo, inoltre, al marito di alienarlo nell’intero territorio italico. Con l’actio rei uxoriae, invece, fu consentita la possibilità di rivendicare la suddetta dote da parte della donna, in caso di divorzio. Le modificazioni travolsero anche l’istituto della tutela. La donna, infatti, poteva scegliere il suo tutore o addirittura ripudiarlo (tutoris optio); sotto Claudio, infine fu definitivamente abolita la tutela sulle donne “ingenue”, cioè nate libere.

Non solo. Soprattutto durante il I sec. a.C, non era inusuale, specialmente fra le famiglie nobili, consentire alle donne di educarsi o di partecipare alla vita politica familiare, assegnando loro un ruolo da mediatrici. Dunque, le matrone, in età imperiale, assunsero un ruolo diverso, non più solo spettatrici passive, ma consapevolmente fautrici del loro destino, acquisendo talvolta ruoli di rilievo nella famiglia. Questo è desumibile massimamente dalle novità introdotte nell’ambito del matrimonio, che, scevro ormai dall’originaria connotazione di subordinazione, permetteva alla donna un rinnovata libertà, moderando il potere del marito sulla moglie.

In conclusione, è facile evincere come il cambiamento della condizione femminile fosse percepibile. Ciò che però è importante sottolineare è come ciò fosse comunque riservato, o quantomeno circoscritto, alla nobilitas. Per le classi inferiori, invece, non fu documentato alcun cambiamento dei valori tradizionali. Risulta quindi eccessivo sostenere che la mutata condizione femminile fosse riuscita a modificare la società; si tratta di un’evoluzione legata a un preciso ambito sociale.


Ottavia come esempio di emancipazione

La politica attuata durante il periodo Augusteo fu la necessaria conseguenza dell’esigenza di porre al centro della scena la familia. Ciò portò il princeps a un progressivo riconoscimento del ruolo pubblico della moglie, tanto da farle assumere i caratteri di un vero e proprio modello femminile per le donne della res publica.

La posizione preminente progressivamente acquisita da Livia Drusilla svela la volontà di rafforzare il ruolo pubblico delle donne della sua gens. Emblematica è la definizione utilizzata da A. Barrett. Lo studioso, infatti, assume la posizione di un confronto che, seppur rischioso, risulta piuttosto calzante: “Livia potrebbe […] essere definita la First Lady di Roma in senso ampio, fatto che nessuna donna romana prima e dopo di lei riuscì a ottenere: rispetto e devozioni più profondi e durevoli.”[16] Tale definizione sembra riprendere l’espressione femina princeps, in più occasioni utilizzata da Ovidio in riferimento alla stessa.

La sperimentazione avviata da Augusto coinvolse anche un’altra figura, Ottavia Minore, sua sorella: Ottavia, infatti, assunse per un lungo periodo una posizione di maggiore autorevolezza anche rispetto a Livia. Il comportamento ineccepibile di Ottavia è ravvisabile non solo in ambito pubblico, ma soprattutto in ambito privato, incarnando perfettamente il ruolo di moglie amorevole e matrona romana.

Nell’impossibilità di illustrare in questa sede la dettagliata biografia di Ottavia, ci limiteremo a menzionare le novità che la sua figura introdusse nella visione politica della donna a Roma. La figura di Ottavia emerge soprattutto nella fase di sperimentazione connessa all’instaurazione del nuovo regime politico. In particolar modo, il nome della matrona risulta legato a novitas normalizzate nel corso del principato Augusteo. Fu proprio lei ad attuare in prima persona le strategie matrimoniali per i propri figli, privilegio non da poco poiché, lo ricordiamo, quello dei rapporti familiari era uno scenario che si rifletteva direttamente con la possibilità di ricadute politiche. Originariamente queste decisioni erano rimesse al princeps, ma le fonti menzionano l’intervento di Ottavia, svelandoci un’intromissione ammessa dalla tradizione.[17] Un altro aspetto su cui potremmo soffermare l’attenzione è sicuramente la politica edilizia attuata da Ottavia, il suo nome risulta legato a un edificio edificato tra il 33 e il 27 a.C, il Porticus Octaviae.

In forza dei privilegi concessi nel 35 a.C, Livia e Ottavia vennero escluse dalla tutela mulieris, ma non solo. Fu loro attribuita la sacrosanctitas tribunicia, ovvero il diritto di essere onorate con statue, dunque non appare irrazionale lo scenario che vede la stessa Ottavia promotrice dell’opera. Un ruolo, quello di Ottavia, che emerge preponderante rispetto alle altre donne del suo tempo, le si riconosce soprattutto il merito di aver conquistato ampi spazi istituzionali all’azione delle donne nella sua gens.


Tirando le fila

L’analisi delle fonti giuridiche, in concreto, non solo ci ha consentito un percorso di ricostruzione storica, ma ci ha anche permesso di poter individuare se non la trama, almeno quelle che sono le radici originarie delle discriminazioni di genere.

Per tutte le donne, greche e romane, comune è una sorta di “non esistenza” in una storia, in una realtà politica, sociale e normativa, in cui loro non avevano spazio. È quindi possibile che il loro silenzio sia giunto fino ai giorni nostri? Ma soprattutto: parlare delle donne nell’antichità non è forse un modo per essere presenti nel nostro tempo? L’eredità del mondo antico non è mera curiosità erudita, è una nuova sfida da affrontare per la lotta all’uguaglianza, ricordando che per scardinare e decostruire il presente, il punto di partenza rimane sempre il passato.

In conclusione, quindi, occorre oggi più che mai conoscere il passato per poter consapevolmente scegliere di distaccarsene, costruendo una società in cui le donne non siano protette in quanto gruppo discriminato e diverso, ma agiscano nella parità.

Francesca Visconti per www.policlic.it


Note e riferimenti bibliografici

[1] E. Cantarella, L’ambiguo malanno, Editori riuniti, 1986, p. 15.

[2] Cfr. E. Cantarella, op.cit., p. 15.

[3] F. Cenerini, La donna romana, Il Mulino, Bologna 2002, p. 7.

[4]  Ivi, p. 8.

[5] E. Cantarella, op. cit., p. 17.

[6] Aristofane, La commedia delle donne: Lysistrata.

[7] E. Cantarella, op. cit., p. 23. “Nel caso del mondo greco una possibile eccezione era rappresentata da Sparta. Ma la proverbiale ‘libertà’, o ’licenza’, della donna spartana non deve farci dimenticare che, anche nel suo caso, la principale funzione assegnatale dalla città consisteva nel procreare.”

[8] Il principio, di matrice chiaramente illuministica, iniziò a emergere verso la fine del XVIII sec. Ad esempio, nella Dichiarazione di diritti della Virginia del 1776 e nelle dichiarazioni francesi rivoluzionarie del 1789 e del 1793. La formula “la legge è uguale per tutti” è comparsa per la prima volta nella Costituzione francese del 1795.

[9] G. Pugliese, F. Sitzia, L. Vacca, Istituzioni di diritto Romano, Giappichelli, Napoli 1976, pp. 426.

[10] L. Capogrossi Colognesi, Enciclopedia del diritto, XXII, Giuffrè, Milano 1982, p 242.

[11] E. Cantarella, op. cit., p. 167.

[12]  V. Paola Giunti, Adulterio e leggi regie. Un reato fra storia e propaganda, Giuffrè, Milano 1990.

[13] M. Durry, Les femmes et le vin, Revue des Etudes Latines, Parigi 1955, p. 108.

[14] C. Fayer, La familia Romana, Vol. III, L’Erma Di Bretschneider, 2005, p. 189.

[15] Ibidem.

[16] La citazione è tratta dall’edizione italiana della monografia di A. A. Barrett, Livia. The First Lady of Imperial Rome, Yale University Press, New Heaven 2002.

[17] A. Valentini, Ottavia la prima ‘First Lady of Imperial Rome’.