Critica al Wilsonismo – Gli Stati Uniti d’America “durante” l’amministrazione Wilson

Critica al Wilsonismo – Gli Stati Uniti d’America “durante” l’amministrazione Wilson

Indice : L’entrata nella WWILo scontro con RooseveltI Quattordici PuntiLa Conferenza di pace di ParigiIl Trattato di VersaillesLa Società delle Nazioni e l’opposizione

[sta_anchor id=”il-primo-mandato” unsan=”Il primo mandato”]Il primo mandato di Wilson[/sta_anchor] e l’entrata nella WWI

Universal law and not equilibrium, national trustworthness and not national self-assertion were, in Wilson’s view, the foundations of international order.” (Henry Kissinger, “Diplomacy”)

Mentre l’Europa era prossima all’innesco della miccia della “guerra che avrebbe posto termine a tutte le altre guerre”, negli Stati Uniti il democratico Thomas Woodrow Wilson divenne il Ventitreesimo Presidente americano.

Avviatasi grazie alla spaccatura in seno ai Repubblicani tra il presidente uscente William Howard Taft e Theodore Roosevelt, la prima fase del suo mandato presidenziale fu paradossale ed il motivo appare incredibile se contestualizzato all’interno di questo discorso: Thomas Woodrow Wilson, Presidente democratico, sostenne in principio la Dottrina Monroe per le Americhe.

Nell’agenda politica progressista dell’ex presidente della Princeton University infatti, all’inizio Wilson si ritrovò a seguire proprio quella dottrina imperialista dinanzi alla prima grande sfida estera rappresentata dal decennio della rivoluzione messicana (1910-1920) : sotto Wilson infatti, gli statunitensi, che in precedenza avevano sostenuto sia i rivoluzionari (come Pancho Villa ed Emiliano Zapatache i controrivoluzionari, decisero nel 1913 di intervenire militarmente nel Paese per reprimere la dittatura del generale Victoriano Huerta, riportare la democrazia ed occupare il porto di Veracruz.

Francisco “Pancho” Villa in una foto del 1913 che lo ritrae assieme agli uomini della “División del Norte”.

Dopo il Messico seguì l’occupazione militare di Haiti nel 1915, quindi seguirono ulteriori manovre in Nicaragua ed infine, nel 1916, l’intervento bellico nella Repubblica Dominicana. “Non il migliore degli inizi”, quindi, dato che il coinvolgimento attivo del Presidente (o meglio di “questo” Presidente) nella “guerra delle banane” per il predominio ed il controllo del continente americano non è proprio quello che ci si aspetterebbe dallo studio della figura di Wilson.

Nemmeno lo scoppio della Prima Guerra Mondiale sconvolse eccessivamente gli Stati Uniti d’America ed il suo Presidente, conscio ed informato del fatto che il terribile conflitto stesse avendo luogo a molte miglia di distanza dalle acque e dal territorio americano ma determinato a mantenere la propria neutralità (fatto che non impedì agli americani di fare affari e, successivamente, finanziare le potenze europee in guerra). Ciò avvenne proprio in ottemperanza della Dottrina Monroe e dello “splendido isolamento” che per quasi un secolo aveva protetto il Paese da ingerenze straniere.

Cosa cambiò radicalmente questo approccio, questa presa di distanza così incredibilmente pragmatica da parte di Wilson? La risposta si trova in un evento ed una data: l’affondamento del transatlantico britannico Lusitania datato 7 Maggio 1915 (1201 morti di cui 123 cittadini statunitensi). La guerra sottomarina, la guerra degli U-Boot tedeschi contro i vascelli e le imbarcazioni dell’Intesa, aveva colpito un Paese estraneo. Nello specifico, aveva colpito il Paese sbagliato. La notizia lasciò esterrefatto il popolo statunitense il quale, animato ed infiammato a quel punto dall’odio antitedesco, nel giro di due anni vide cambiare il corso della propria Storia contemporanea dalle proprie fondamenta.

Un dipinto del 1915, custodito negli archivi del Bundesarchiv , rappresenta l’affondamento dell’RMS Lusitania al largo delle coste irlandesi di Kinsale, Cork. Fonte: Wikicommons

Il 2 Aprile 1917, in una sessione straordinaria del Congresso convocata dallo stesso Wilson, il Presidente e Comandante in capo delle Forze Armate statunitensi richiese l’approvazione dell’atto di guerra contro la Germania, la sola tra le potenze dell’Alleanza per cui formulò tale atto d’ostilità (come avrebbe avuto modo di specificare in un discorso successivo). Nello specifico, Wilson motivò la richiesta di approvazione della dichiarazione di guerra utilizzando le seguenti parole:

“It is a fearful thing to lead this great peaceful people into war, into the most terrible and disastrous of all wars, civilization itself seeming to be in the balance. But the right is more precious than peace, and we shall fight for the things which we have always carried nearest our hearts, for democracy, for the right of those who submit to authority to have a voice in their own governments, for the rights and liberties of small nations, for a universal dominion of right by such a concert of free peoples as shall bring peace and safety to all nations and make the world itself at last free.”
(Thomas Woodrow Wilson, War Message , 2 Aprile 1917
N.B. Per la lettura integrale del discorso si rimanda a questo link)

Il 6 Aprile 1917 gli Stati Uniti approvarono l’atto di guerra ed entrarono ufficialmente nel conflitto mondiale. In un modo, però, completamente diverso rispetto al passato : Wilson mosse guerra spinto da motivazioni sconosciute tanto alla classe politica americana quanto alla gente comune, inimicandosi da subito figure allora di enorme rilievo per la Nazione quali l’ex Presidente Theodore Roosevelt.



[sta_anchor id=”il-secondo-mandato” unsan=”Il secondo mandato”]Il secondo mandato[/sta_anchor] di Wilson e lo scontro con Theodore Roosevelt

“If I must choose between a policy of blood and iron and one of milk and water…why I am for the policy of blood and iron. It is better not only for the nation but in the long run for the world.”
(Theodore Roosevelt in una lettera ad un amico del Dicembre 1914 citata da Henry Kissinger in “Diplomacy”)

Così, come nell’Impero britannico si osservò il feroce scontro dialettico e politico tra Benjamin Disraeli e William Ewart Gladstone, anche negli Stati Uniti d’America si affrontarono due personalità chiave della politica statunitense in uno scontro tra Presidenti, chi in carica e alla ricerca del secondo mandato (Wilson) e chi già lo era stato in passato (Roosevelt, che in qualche modo contribuì alla vittoria di Wilson nelle elezioni del 1912 visto che la sua candidatura spaccò il fronte repubblicano).
Da una parte il pragmatismo e la devozione all’interesse nazionale incarnate dall’energico Roosevelt, dall’altra l’eredità idealista di William Ewart Gladstone introiettata nel pensiero Wilsonista, un pensiero nel quale non c’era spazio per ambizioni personali, mire espansionistiche o prove di forza sul panorama internazionale.

Al contrario, c’era la volontà granitica di fare esclusivo affidamento alla “missione messianica” data per volontà divina al popolo statunitense: diffondere ed esaltare i propri valori ed ideali nel mondo allora travolto dalla guerra nelle trincee, coinvolgere le Nazioni e premere per una loro (letterale) opera di conversione verso il proprio modello di democrazia. Infine, non da ultimo, c’era la volontà di stabilire con ulteriore fermezza e determinazione un precetto già enunciato decenni prima da Gladstone: la morale (cristiana) non poteva essere più scissa dalla pratica politica, “perchè unica base per una sana politica estera“.

Tutte queste argomentazioni furono oggetto di fortissime critiche da parte di Roosevelt, un uomo che malsopportava la figura di Wilson al punto di accusarlo, durante le elezioni presidenziali del 1916, di “tendenze isolazionistiche” quando auspicava una politica militarmente attiva da parte della Nazione (in una lettera del 3 Ottobre 1914 scrisse “se fossi stato Presidente, avrei dovuto agire [contro la Germania nda] tra il 30 o il 31 Luglio”) per eliminare la concreta minaccia tedesca allo scopo di garantire la sicurezza degli statunitensi. Diametralmente opposta invece era la visione di Wilson: rileggendo la richiesta di entrata in guerra del 2 Aprile 1917 precedentemente citata e citando Henry Kissinger, Wilson vide nell’entrata in guerra degli Stati Uniti la chiamata per una “crociata globale, una guerra santa volta a ristabilire la pace”.

Lo scontro tra Wilson e Roosevelt vide prevalere, così come avvenne in Gran Bretagna, il potere della morale incarnato da Wilson. La morale, dunque, venne nuovamente chiamata in causa da parte della politica per il raggiungimento dei propri scopi idealistici: l’enorme affidamento di Wilson nel potere della morale fece infatti breccia nel popolo statunitense, portandolo alla riconferma presidenziale (vinse contro il repubblicano Charles Evans Hughes) e alla vittoria contro uno dei suoi più grandi oppositori.

Incredibilmente, come una sorta di ricorso storico, lo scontro politico tra i campioni dell’idealismo e del realismo in America vide anche in questo caso la successiva dipartita della controparte realista (proprio come Benjamin Disraeli, anche Roosevelt sarebbe morto nel giro di pochi anni, nel 1919). Così, con la vittoria delle elezioni del 1916, forte del secondo mandato presidenziale e con la strage del Lusitania impressa nella memoria statunitense, il democratico Wilson entrò in guerra al fianco delle potenze dell’Intesa, un intervento grazie al quale contribuì a capovolgere le sorti della Prima Guerra Mondiale e ad assicurare la vittoria al Regno Unito, la Francia, agli stessi statunitensi e all’Italia risorta dopo Caporetto (un passaggio determinante per la storia contemporanea italiana che Policlic.it ha recentemente trattato).

L’8 Gennaio 1918 poi, in quello che si sarebbe rivelato l’ultimo anno della Prima Guerra Mondiale, il Presidente Wilson lasciò un altro segno “fondamentale” della propria Amministrazione: in una seduta congiunta del Congresso, delineò infatti le condizioni con le quali gli Stati Uniti d’America avrebbero intavolato le trattative, assieme agli alleati dell’Intesa, per la pace al termine del conflitto. Il discorso di quel giorno sarebbe passato alla Storia come il discorso dei “Quattordici Punti”.



[sta_anchor id=”la-rivoluzione-copernicana” unsan=”La “rivoluzione copernicana””]La “rivoluzione copernicana” [/sta_anchor]chiamata Fourteen Points

It will be our wish and purpose that the process of peace, when they are begun, shall be absolutely open and that they shall involve and permit henceforth no secret understandings of any kind. The day of conquest and aggrandizement is gone by ; so is also the day of secret covenants entered into in the interest of particular governments and likely at some unlooked-for moment to upset the peace of the world.
(Thomas Woodrow Wilson, Address to a Joint Session of Congress on the Conditions of Peace, 8 Gennaio 1918
N.B. Per la lettura integrale del discorso si rimanda a questo link)

Nel discorso tenuto al Congresso l’8 Gennaio 1918, Wilson presentò i Quattordici Punti suddividendoli in due “ordini d’insieme” diversi : vi furono infatti alcuni punti (otto) ritenuti obbligatori per Wilson (importante l’uso del “must be”) e sui quali egli si dimostrò inflessibile, sia a Washington che a Parigi, nella propria asfissiante retorica moralista e basata su infiniti legalismi. Ve ne furono altri però, ovvero i restanti sei, in cui già dalla presentazione del proprio piano d’azione Wilson risultò decisamente meno perentorio (altrettanto importante l’uso del “should be”).

“Che forse Wilson volesse lasciar intendere che queste sei condizioni potessero essere oggetto di compromessi?” La domanda che nel 1994 Henry Kissinger si pose nel suo Diplomacy (opera fondamentale per chi è interessato alla geopolitica e allo studio delle Relazioni Internazionali) ebbe un chiaro riscontro storico durante lo svolgimento della Conferenza di pace di Parigi dell’anno successivo. Il fine e l’intento auspicato ardentemente da Wilson con i Quattordici Punti era di ergere gli Stati Uniti d’America a guida di una radicale rottura con il passato, già a partire dalle trattative di pace con le altre Nazioni vincitrici e sconfitte: i vincitori infatti avrebbero ottenuto compensazione rispetto a quelle pretese che non fossero andate in contrasto con i principi di base enunciati da Wilson stesso (come la fine degli imperi coloniali e, ancora più importante, il principio di autodeterminazione dei popoli). I vinti invece avrebbero subito le durissime condizioni di resa senza diritto di replica (come effettivamente avvenne a Parigi, dato che non vennero invitate le loro delegazioni allo svolgimento dei negoziati).

Ma soprattutto, Wilson era determinato a creare un nuovo ordine internazionale, dalle ceneri e dalle macerie dell’Europa devastata da quattro anni di guerra che avevano scaturito ripercussioni a livello mondiale, che fosse votato alla pace e alla “sicurezza collettiva. Un ordine delineato e plasmato secondo la propria visione moralista e all’interno di un sistema legale-procedurale , un sistema in cui il diritto internazionale avrebbe prevalso sul potere delle armi e degli interessi particolari delle varie Nazioni, dove la diplomazia, di dominio pubblico e non più strumento per accordi e trattative segrete, avrebbe risolto in modo pacifico le controversie tra le Nazioni e dove l’uso della forza sarebbe stato relegato ad extrema ratio (e anche in quel caso, sarebbe stata concordata in uno specifico contesto procedurale): il progetto della Società delle Nazioni (che avrebbe visto la luce il 28 Giugno 1919).

L’ambizioso progetto di Wilson venne però da subito messo alla prova, con risultati in bilico tra il successo trionfale e la sconfitta personale, nel luogo assunto a sede in cui sarebbe stata sancita la fine della Prima Guerra Mondiale: Parigi.



[sta_anchor id=”la-conferenza-di-pace” unsan=”La Conferenza di pace”]La Conferenza di pace di Parigi[/sta_anchor]: i Quattordici Punti messi in discussione

“England and France have not the same view with regard to peace that we have by any means. When the war is over we can force them into our way of thinking, because by that time they will, among other things, be financially in our hands.
(Thomas Woodrow Wilson al “Colonnello” Edward Mandell House in una lettera del 21 Luglio 1917)

Edward N. Jackson, Council of Four at the WWI Paris peace conference, 27 Maggio 1919.
Da sinistra verso destra, il Primo Ministro britannico David Lloyd George, il Premier italiano Vittorio Emanuele Orlando, il Primo Ministro francese Georges Clemenceau ed il Presidente Wilson.
Fonte: Wikicommons

Durante la Conferenza di pace di Parigi, svoltasi dal 1919 al 1920, tutte le potenze vincitrici della Prima Guerra Mondiale e quelle coinvolte nei negoziati erano troppo deboli per poter muovere obiezioni dinnanzi ad un sistema di norme e principi così diverso rispetto a quello “vigente”.

Ma soprattutto, proprio come aveva “profetizzato” Wilson nella lettera sopra citata del 21 Luglio 1917 rivolta al proprio amico e consigliere Edward Mandell House, erano divenute troppo dipendenti dagli stessi Stati Uniti: la guerra, infatti, aveva spostato il cuore degli scambi commerciali dalla devastata Europa alla “florida” terra americana, forte del proprio dispiego finanziario a favore dei paesi dell’Intesa che si ritrovarono così vincolati alla restituzione dei prestiti elargiti. Tra i paesi dell’Intesa ad esempio, l’Impero Britannico si era indebitato per oltre quattro miliardi di dollari verso gli Stati Uniti, così come la Francia (2,7 miliardi di dollari a cui aggiungere un ulteriore prestito inglese di 2,5 miliardi di dollari) ed il Regno d’Italia, su cui pesarono oltre cinque miliardi di dollari di prestiti anglosassoni.

La complessiva debolezza di partenza degli attori principali dei colloqui di pace diede pertanto agli Stati Uniti di Wilson un’iniziale posizione di forza dalla quale poter indirizzare i negoziati. Nel corso però dei 1646 incontri che ebbero luogo a Parigi durante quell’anno, tale posizione fu oggetto di una lenta ma inesorabile erosione dovuta a numerosi fattori di natura interna ed esterna.

In primo luogo, come appena accennato, la durata complessiva dei negoziati di oltre un anno creò non poche complicazioni all’impaziente presidente Wilson, la cui assenza da Washington cominciava a farsi sentire da parte della politica statunitense. Questo lo costrinse a dover “scendere a compromessi” in numerosi casi rispetto all’iniziale intransigenza e rigidità dei Quattordici Punti del 1917 al fine di soddisfare “alcune” richieste dei Paesi presenti ai negoziati di pace (la Francia fu la Nazione alla quale questa complicazione giovò maggiormente mentre altre delegazioni, come quella del Regno d’Italia, “non ebbero altrettanta fortuna”).

A complicare ulteriormente le cose durante la Conferenza di pace fu paradossalmente il Presidente Wilson stesso; un uomo tanto inflessibile e devoto alla propria visione del mondo quanto impaziente dinnanzi alla prassi elefantiaca, ricca di legalismi e formule burocratiche, di raggiungere i propri obiettivi prefissati al punto di essere disposto ad alcune concessioni (anche contradditorie) pur di riuscire a “cambiare” il mondo. Così Wilson favorì molte delle richieste dei francesi, terrorizzati “vincitori di Pirro” della Prima Guerra Mondiale a fronte dello spaventoso prezzo di vite umane pagato (1.697.800 morti di cui 1.397.800 provenienti dalle Forze Armate): ritrovatosi con un Paese in macerie ed un Esercito decimato, ebbero modo di ottenere numerosi vantaggi sia in Europa che nel Medio Oriente liberato dall’influenza ottomana (grazie agli accordi segreti Sykes-Picot siglati con il Regno Unito, altro paese avvantaggiato, fu possibile la spartizione anglo-francese di Egitto, Siria, Iraq, Giordania, Libano e della Palestina). Così contribuì a favorire le neonate Nazioni lungo l’Europa Centrale ed i Balcani, a seguito della fine e dissoluzione dell’Impero Austro-Ungarico (ridotto alla sola, sovrappopolata, Austria germanofona).

Eppure, nonostante tutto ciò, non agì “con uguale fermezza”, forte dei principi dei Quattordici Punti, nei confronti delle rivendicazioni italiane: la ridefinizione dei confini italiani infatti si risolse in un’opera parziale in cui venne quasi del tutto modellato l’assetto geografico attuale del nostro Paese (ci vollero i Legionari dannunziani a Fiume ed il Trattato di Rapallo per ottenere anche Trieste e Gorizia). Venne sì infatti stabilita l’estensione territoriale verso la barriera naturale del Brennero con i territori dell’Alto Adige (germanofoni e a prevalenza etnica tedesca), oltre ai possedimenti nel Dodecaneso (oggetto di trattati che vennero poi rivisti nel 1920), ma non vennero considerate le istanze adriatiche verso l’Istria, la Dalmazia e, appunto, Fiume. Le c.d. “terre irredente”, italofone e a prevalenza etnica italiana, furono infatti assegnate, in quella che venne definita la c.d. linea Wilson”, al neonato Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, in evidente contraddizione rispetto al principio di autodeterminazione dei popoli rimarcato con forza nei Quattordici Punti.

Una contraddizione resa ancora più pesante per l’origine della pretesa italiana : le terre irredente furono infatti parte dell’oggetto del contendere tra la monarchia sabauda (e l’allora Ministro degli Esteri Giorgio Sidney Sonnino) e le potenze dell’Intesa nel momento della stipula del Patto di Londra (26 Aprile 1915) che di fatto portò gli italiani a passare dalla Triplice Alleanza all’Intesa, un patto segreto che divenne di dominio pubblico nel 1917 con la sua pubblicazione nella testata sovietica Izvestija.
Il Presidente Wilson, con il placet di Lloyd George e di Clemenceau, utilizzò anche questa segretezza a danno delle pretese italiane di Vittorio Emanuele Orlando e a sostegno del rispetto dei Quattordici Punti (che intendevano abolire i trattati segreti a favore della diplomazia diretta) e, pertanto della soluzione statunitense. Inoltre, dalle pagine del Le Temps di Parigi, il 23 Aprile 1919 si rivolse direttamente al popolo italiano (che lo aveva trionfalmente accolto nelle proprie città durante i mesi precedenti) con queste parole:

“Quando l’Italia entrò nella guerra, entrò sulla base di un accordo definito ma privato con l’Inghilterra e la Francia, ora conosciuto come Patto di Londra. Da quel tempo l’intero aspetto dalle circostanze è stato modificato. [..] Se questi principii [i Quattordici Punti ndr] devono essere applicati, Fiume deve servire come sbocco commerciale non dell’Italia ma delle terre situate al Nord ed al Nord-est di questo porto [Ungheria, Boemia, Romania ed il regno serbo-croato-sloveno ndr]. Assegnare Fiume all’Italia significherebbe creare la convinzione che noi abbiamo, deliberatamente, posto il porto, [..] nelle mani di una Potenza della quale esso non forma una parte integrante e la cui sovranità se fosse ivi riconosciuta, non potrebbe non sembrare straniera. [..] Ragione senza dubbio per la quale Fiume non è stata inclusa nel Patto di Londra ma in esso definitivamente assegnata ai Croati. [..]

È nel suo potere [dell’Italia ndr] di circondarsi di amici , dare prova ai popoli dell’altra sponda dell’Adriatico [..] della più nobile caratteristica della grandezza : la magnanimità , la generosità benevola, l’attaccamento alla giustizia piuttosto che all’interesse. [..]
L’America è amica dell’Italia [..] [ma l’America ndr] è costretta a fare in modo che ogni singola decisione presa da essa presa sia in armonia con questi principii ; essa non può agire altrimenti, essa ha fiducia nell’Italia [..] e [..] confida che l’Italia nulla chiederà che non sia coerente con questi sacri obblighi.

Non si tratta di interessi ma di diritti sacri dei popoli [..] soprattutto si tratta del diritto del mondo alla pace.” 
(Thomas Woodrow Wilson, Manifesto agli Italiani, pubblicato su Le Temps il 23 Aprile 1919
N.B Per la lettura integrale dell’articolo si rimanda alla visione di questo link)

La reazione dell'”indiretto interessato”, il Primo Ministro Vittorio Emanuele Orlando, fu immediata: nel giro di ventiquattr’ore, fece pubblicare a mezzo stampa (francese, con successiva diffusione sulla Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia tramite l’Agenzia Stefani) un contro-manifesto, una risposta diretta al Presidente Wilson.

“Mentre la delegazione italiana si trovava riunita per discutere una controproposta [..] ,i giornali di Parigi pubblicavano un messaggio del Presidente degli Stati Uniti sig. Wilson [..] .
L’uso di rivolgersi direttamente ai popoli tramite un giornale costituisce certamente una novità nei rapporti internazionali, di cui non intendo dolermi, ma di cui anzi con questo atto seguo l’esempio [..]. 
Bensì, se questi appelli ai popoli debbono considerarsi come fatti al di fuori, se non contro i governi che li rappresentano, io avrei ragione di grande rammarico [..].
E potrei altresì dolermi come tale messaggio diretto al popolo sia avvenuto nel momento stesso in cui le potenze alleate ed associate trattavano col Governo italiano [..].
Ma soprattutto io avrei ragione di dolermi se le dichiarazioni fatte nel messaggio presidenziale avessero il significato di contrapporre il Governo al popolo italiano.[..] Contrapponendo, infatti, il Governo al popolo italiano si ammetterebbe che questo grande popolo libero e civile possa subire l’imposizione di una volontà ad esso estranea : ed io dovrei vivamente protestare contro questa ipotesi, che sarebbe ingiustamente offensiva verso il mio paese.[..]
Così io, con ogni deferenza, ma con grande fermezza, non ritengo giusta l’applicazione che il messaggio presidenziale fa dei suoi principii alle cose italiane. (Vittorio Emanuele Orlando, Risposta di S.E.Orlando al Messaggio del Presidente Wilson, 24 Aprile 1919
N.B Per la lettura integrale dell’articolo si rimanda al seguente link)

Lo scontro arrivò ad un punto tale che Orlando decise di lasciare Versailles, in segno di protesta, per fare ritorno in Italia seguito, due giorni dopo, anche da Sonnino: la delegazione abbandonava i tavoli delle trattative. Contemporaneamente, l’opinione pubblica italiana interpretò il messaggio del Presidente Wilson come il tradimento dell’affetto che il popolo italiano gli aveva tributato solo poco tempo prima: numerose furono le manifestazioni di protesta bi-partisan (per motivazioni diverse) lungo il Paese, con un malcontento che divenne sempre più crescente tanto nella classe politica quanto nella popolazione (quest’ultima, tra l’altro, l’avrebbe scaricato sui soldati italiani “sopravvissuti”, molti dei quali mutilati, di ritorno dal fronte).

Un affronto, per gli italiani, che da quel momento portò a far circolare l’idea della c.d. “vittoria mutilata” (coniata da Gabriele D’Annunzio) che in seguito, negli instabili anni del “biennio rosso” e delle occupazioni delle fabbriche e dei centri produttivi del Nord Italia, avrebbe contribuito ad esacerbare il clima politico e sociale nel Paese portando all’ascesa di Benito Mussolini nel panorama politico italiano.

Ma quale fu la reazione del consenso parigino all’abbandono della delegazione italiana? Gli incontri proseguirono come se non fosse accaduto nulla, diversamente da quanto successe il 19 Febbraio 1919 (in occasione dell’attentato a Clemenceau) quando venne decretata una breve sospensione. I rappresentanti delle potenze vincitrici non si curarono dei capricci di Roma. Una scelta che dimostrò sì la debolezza italiana nel contesto internazionale oltre alla totale assenza di determinazione politica da parte di Orlando e di Sonnino (nel giro di pochi giorni, ovvero il 5 Maggio 1919, avrebbero fatto nuovamente ritorno a Parigi per tornare a prendere parte ai negoziati) , ma che mostrò anche la parziale e contraddittoria efficacia dei Quattordici Punti di Wilson oltre alla natura ambivalente dello stesso Presidente statunitense, che rimase “forte con i deboli” ma che, paradossalmente, con il passare del tempo parigino divenne “debole con i forti”.

Nell’ambito di questa panoramica sulla Conferenza di Parigi, non si può però dimenticare il trattamento riservato alla potenza identificata da tutti come la sola responsabile del conflitto mondiale: la Germania.



[sta_anchor id=”vae” unsan=”Vae”]”Vae victis*”[/sta_anchor] – L’umiliazione della Germania

Ce n’est pas une paix. C’est un armistice de vingt ans.
(Maresciallo Ferdinand Foch in riferimento al Trattato di Versailles, 18 Gennaio 1920)

Il 28 Giugno 1919 la Francia potè dare libero sfogo al revanchisme anti-tedesco covato da lungo tempo ripagando la potenza germanica con la stessa medaglia che nel 1871 il Cancelliere Otto Von Bismarck aveva usato, proprio nella Sala degli Specchi di Versailles, contro i francesi al termine della guerra franco-prussiana: il riferimento è all’imposizione del Trattato di Versailles alla rappresentanza tedesca “invitata” a Parigi dalle potenze vincitrici per ascoltare i termini della pace e apporre la propria firma al trattato ivi stipulato (pena il prosieguo del conflitto).

La Germania fu privata del proprio impero coloniale (in Africa come in Asia), ridimensionata nel proprio territorio (l’Alsazia e la Lorena furono preda delle truppe francesi come i territori dello Schleswig settentrionale – passati alla Danimarca – e quelli della Prussia occidentale e della Posnania – passati alla Polonia che a sua volta vide bloccate le pretese su Danzica – e vi fu il divieto di ricongiungimento territoriale austro-tedesco) e nell’approvvigionamento di risorse strategiche (dapprima perse il Saarland e successivamente la Renania). Fu poi costretta al disarmo del proprio esercito e delle proprie batterie d’artiglieria (centomila uomini non possono definirsi un esercito) e a ritrovarsi senza una flotta navale (autoaffondata in quello che venne ricordato come l’ammutinamento di Kiel nel 1918). Tramutatasi infine in una (stabile) “repubblica”, la Germania dovette subire anche l’onta dell’imposizione dell’articolo 231 del Trattato di Versailles: la c.d. “clausola di colpevolezza della guerra”:

“Gli Alleati e i Governi Associati affermano, e la Germania accetta, la responsabilità della Germania e dei suoi alleati per aver causato tutte le perdite ed i danni che gli Alleati ed i Governi Associati e i loro cittadini hanno subito come conseguenza della guerra loro imposta dall’aggressione della Germania e dei suoi alleati.
(Articolo 231 del Trattato di Versailles, 28 Giugno 1919)

La Germania, più del decaduto Impero Austro-Ungarico e di quello Ottomano, venne costretta ad addossarsi la piena e sola responsabilità di tutto ciò che avvenne nei quattro anni di conflitto mondiale, con i suoi morti e feriti, con i suoi invalidi, i danni e la devastazione che afflissero le zone di guerra. Tutto da ascrivere alla sola Germania, o forse no: stando alle parole di Wilson del 2 Aprile 1917 infatti, le responsabilità non erano da ascrivere “né al popolo tedesco, né alla Nazione tedesca, ma al solo governo tedesco [il Kaiser Guglielmo II]”. Un governo ed un uomo a cui il “mondo libero” infliggeva la punizione suprema come conseguenza delle proprie azioni belliche “moralmente deprecabili”, come evidenziato in un altro passaggio del War Message precedentemente citato:

“We have no quarrel with the German people. We have no feeling towards them but of simpathy and friendship. It was not upon their impulse that their government acted in entering this war. It was not with their previous knowledge and approval. It was a war determined upon as wars used to be determined upon the old, unhappy days when peoples were nowhere consulted by their rulers and wars were provoked and waged in the interest of dynasties or of little groups of ambitious men who were accustomed to use their fellow men as pawns and tools.[..] We are accepting this challenge of hostile purpose because we know that in such a Government , following such methods, we can never have a friend ; and that in the presence of its organized power [..] there can be no assured security for the democratic Governments of the world.
(Thomas Woodrow Wilson, War Message, 2 Aprile 1917)

Nelle intenzioni del Presidente Wilson, l’intervento statunitense contro la Germania (e quindi gli altri membri dell’Alleanza) doveva rappresentare l’ultimo scontro e lo spartiacque tra il passato ed il futuro, un orizzonte in cui limitare se non eliminare la possibilità che tali minacce potessero riemergere. Pertanto, anche dinnanzi al nemico sconfitto si doveva essere ugualmente determinati nell’imporre condizioni pesanti (forti dei successivi Quattordici Punti) con i quali punire “l’antiquata” aristocrazia tedesca culturalmente legata a politiche obsolete allo scopo di reinserire, successivamente , il popolo tedesco nell’ordine che si sarebbe andato a creare con la Società delle Nazioni.

Fu però la Francia a premere maggiormente, nei confronti degli stessi Stati Uniti e dell’Intesa, affinchè la Germania non potesse mai più riprendersi e riacquisire quella posizione di potenza all’interno del continente europeo. In questo modo si possono interpretare le varie condizioni imposte ai Tedeschi all’interno del Trattato di Versailles, con le quali si volle deliberatamente colpire e mettere in ginocchio una Nazione belligerante, sconfitta e ridotta quindi al caos e allo sbando dagli scontri interni tra gli spartachisti di Rosa Luxemburg e Karl Liebneckt ed il governo socialdemocratico supportato dai Freikorps (scontri che terminarono violentemente pochi giorni prima dell’inizio della Conferenza di Pace di Parigi).

Gli effetti dell’iperinflazione del Marco nella Repubblica di Weimar in alcune immagini di repertorio nelle quali si può osservare il valore del denaro (e dei suoi miliardi e milioni di banconote) nei momenti più duri della crisi tedesca: equivalente alla carta straccia.

In questo modo si può comprendere il quantificare astronomico delle riparazioni e dei debiti di guerra (132 miliardi di Goldmark** dilazionati in rate con tasso d’interesse al 6%) che la Germania fu obbligata a pagare annualmente alle potenze vincitrici della guerra pena (come effettivamente avvenne) l’occupazione di territori strategici. Una cifra praticamente impossibile da restituire considerando anche l’aggiunta degli interessi sulla stessa, che comportò la successiva stagnazione dell’economia della Repubblica di Weimar (nata dalle macerie del Reich nel Novembre 1919), l’iperinflazione del Marco, il crollo dell’occupazione, la povertà e la deflagrazione del tessuto sociale tedesco.

Un insieme di conseguenze economiche e sociali che la politica, tanto quella tedesca quanto quella delle potenze europee, non fu in grado e/o volle arginare negli anni che seguirono (quando anche gli unici tentativi di accordo con il Regno Unito e la Francia vennero resi vani dalla Grande Depressione del 1929). Al punto di preparare il terreno all’avvento del nazionalsocialismo.



[sta_anchor id=”la-nascita-della-società” unsan=”La nascita della Società”]La nascita della Società[/sta_anchor] delle Nazioni e l’opposizione in patria

Leonard Raven-Hill (1867-1942), “The Gap In The Bridge”, illustrazione politica per il Punch Magazine del 10 Dicembre 1919

Contemporaneamente al diktat imposto dalle potenze vincitrici alla Germania, il preambolo del Trattato di Versailles delineava e poneva le basi giuridiche del secondo, rivoluzionario progetto del Presidente Wilson, la nascita della Società delle Nazioni (concretizzatasi il 10 Gennaio 1920).

“Le alte Potenze contraenti, considerato che per dar sviluppo al sistema cooperativo delle Nazioni e per garantir loro pace e sicurezza:
Accettare certi obblighi di non far ricorso alla guerra;
Mantenere alla luce del sole relazioni internazionali fondate sulla giustizia e sull’onore;
Osservare rigorosamente le sanzioni del diritto internazionale ormai riconosciute siccome regole di condotta effettiva dei Governi;
Far che regni la giustizia e scrupolosamente si rispettino tutti gli obblighi dei trattati, nei mutui rapporti dei popoli organizzati;
Adottano il presente patto, istitutivo della Società delle Nazioni.”
(Tratto dal Patto della Società delle Nazioni, Parte Prima del Trattato di Versailles
N.B. Per la visione e lettura integrale del documento si rimanda al seguente link)

Prerogativa fondamentale all’interno dei Quattordici Punti (era stata inserita all’interno dei punti obbligatori), la Società delle Nazioni fu il progetto di organizzazione internazionale, con sede a Ginevra, per mezzo del quale Wilson intendeva ridefinire l’assetto delle relazioni tra le Nazioni del mondo nel nome della pace, della giustizia (contribuì a dare stimolo e slancio alle nuove implementazioni all’interno del diritto internazionale dell’epoca), dell’etica e della morale.

Come detto precedentemente, si trattava di un progetto rivoluzionario per il mondo del tempo, appena uscito da una sanguinosa guerra mondiale e ancorato alle visioni ottocentesche delle relazioni internazionali (i ricordi della Belle Époque erano stati dissolti dai gas mostarda e dalla guerra di trincea). Un mondo del tutto ignaro e avulso quindi dalle idee moraliste di Wilson il quale tuttavia si ritrovò un incredibile ed inaspettato supporto ed endorsement dalla Nazione meno propensa, nella teoria, ad approcciare idee di questo tipo: l’Impero britannico.

Facendo infatti un breve passo indietro nella storia della Società delle Nazioni, si dovrebbe prendere in considerazione la data del 22 Settembre 1915, quando ancora gli statunitensi erano distaccati e poco interessati dalle faccende europee e dalla Prima Guerra Mondiale.
Fu infatti in quella data che in una corrispondenza epistolare tra il “Colonnello” Edward M.House ed il Ministro degli Esteri britannico Sir Edward Grey (riportata sia da Kissinger che dallo storico statunitense Arthur S. Link nel suo “Woodrow Wilson, Revolution, War and Peace”), quest’ultimo rivolse indirettamente un quesito di enorme importanza al Presidente Wilson:

“Would the President propose that there should be a League of Nations binding themselves to side against any Power which broke a treaty…or which refused, in case of dispute, to adopt some other method of settlement than that of war?”
(Sir Edward Grey to Colonel Edward M.House, 22 Settembre 1915, citata in Arthur S.Link, “Woodrow Wilson, Revolution, War and Peace”, 1979)

Le manovre di avvicinamento tra l’Impero e gli Stati Uniti, mediate dalle figure del Ministro Grey e del “Colonnello” House, avrebbero portato nel 1916 alla stipula di un Memorandum nel quale si delineraono alcune possibili strategie comuni per risolvere il conflitto.

Henry Kissinger, nel suo Diplomacy, attribuisce al Ministro Grey una parte del merito della nascita della Società delle Nazioni. Alla luce di questa sorprendente lettera e delle sue relazioni diplomatiche con il Colonnello House, risulta effettivamente incredibile considerare come l’Impero britannico, (allora) fautore da oltre due secoli della dottrina basata sul balance of power, avesse nel tempo cominciato ad avvicinarsi, dopo una generale contrapposizione, ai principi Wilsonisti. Una sorta di marcia che avrebbe portato poi, nei decenni successivi, alla sua totale ed effettiva conversione ai valori moralisti di cui gli stessi inglesi erano ben consapevoli in virtù della paternità di William Ewart Gladstone. Alla luce di come si svilupparono successivamente i piani però, si comprende come si dovrebbe parlare di un’adesione “di facciata” a suddetti valori, vista l’influenza britannica all’interno della Società delle Nazioni e visto il comportamento pragmatico che continuò ad esercitare nel proprio Impero (poi divenuto Commonwealth) fino agli anni Sessanta, con l’inizio della fase di decolonizzazione.

Nel documento redatto dai Paesi firmatari, composto da ventisei articoli, venne stabilita la creazione di un’Assemblea, composta dalla totalità degli Stati membri e di un Consiglio, presieduto dai paesi vincitori del conflitto (assieme a quattro Paesi liberamente scelti dall’Assemblea) coadiuvati da un Segretariato permanente. A questa organizzazione spettava il mantenimento della pace nel mondo e la risoluzione delle controversie tra gli Stati membri con metodi differenti rispetto all’uso della forza (la quale, sebbene venisse contemplata, era limitata nell’ambito di determinate condizioni preesistenti) quali l’utilizzo di sanzioni economiche o di procedure legate al diritto internazionale (mediante l’intervento di un arbitrato). L’organizzazione, nonchè il sogno wilsonista, ebbe vita molto breve considerando che effettivamente durò meno di venti anni (le attività sostanzialmente si interruppero con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, a seguito della quale la Società avrebbe passato il proprio testimone alla nascente Organizzazione delle Nazioni Unite).
Una breve vita che fin da subito si ritrovò priva del paese fondatore e del Presidente che volle ardentemente costituirla: negli Stati Uniti infatti l’insofferenza della classe politica dinnanzi alla prolungata assenza di Wilson dalla Casa Bianca portò un crescente malcontento all’interno del Congresso.

Il popolo statunitense riteneva assolto il proprio compito con il termine del conflitto mondiale e non era intenzionato, una volta ristabilita la pace, a prendere parte a progetti come quelli propugnati dal campione della causa idealista, quello che Henry Kissinger definì il “sacerdote-profeta” (contrapposto allo “statista-guerriero” incarnato da Theodore Roosevelt). Fu all’interno di questo scenario conflittuale che emerse, tra i seggi del Congresso statunitense, la figura del senatore bostoniano Henry Cabot Lodge Sr. (1850-1924). Amico di lunga data di Theodore Roosevelt e (pertanto si potrebbe dire) acerrimo rivale di Wilson, Lodge guidò la fronda dei c.d. “isolazionisti” del Partito Repubblicano nell’opera di smantellamento del progetto Wilsonista presentando una serie di osservazioni in riferimento al Trattato di Versailles e al Patto della Società delle Nazioni riunite nelle Lodge Reservations. Con tali osservazioni, Lodge poneva il Congresso dinanzi ad un vero e proprio stallo, uno scontro che vide opposti i Wilsonisti democratici e gli Isolazionisti (ancor più dei) repubblicani.

In un discorso del 12 Agosto 1919 rivolto alla Commissione per gli Affari Esteri statunitense, Lodge rivolse un feroce attacco al progetto di Wilson, nel nome dell’amor patrio.

“You may call me selfish if you will, conservative or reactionary, [..] but an American I was born, an American I have remained all my life. I can never be anything else but an American, and I must think of the United States first, and when I think of the United States first in an arrangement like this I am thinking of what is best for the world, for if the United States fails, the best hopes of mankind fail with it. I have never had but one allegiance – I cannot divide it now. I have loved but one flag and I cannot share that devotion and give affection to the mongrel banner invented for a league.”
(Senatore Henry Cabot Lodge Sr., Senate Foreign Relation Committee, 12 Agosto 1919)

Elmer Chickering (1857-1915) , Ritratto ufficiale di Henry Cabot Lodge, 1898

Il risultato del blocco politico nel Paese fu la mancata ratifica dei trattati nel 1920 da parte del Congresso, complice anche l’intervento del Senato divenuto a maggioranza repubblicana dopo le elezioni del 1918. Gli Stati Uniti d’America ebbero in seguito modo di stipulare un nuovo documento con la Germania/Repubblica di Weimar sconfitta nel 1921 (Trattato di Berlino), comprendente tutte le clausole del Trattato di Versailles ad eccezione della Prima Parte dedicata al Patto della Società delle Nazioni. 

Fu così che in breve tempo l’organizzazione voluta da Wilson (ma non dal suo popolo, forse non ancora pronto, in quel momento, a quella “rivoluzione copernicana”), complici le assenze dell’Unione Sovietica e della Germania (sarebbe rientrata nel 1926 per poi abbandonarla nuovamente sette anni dopo assieme all’Impero Giapponese) ed il successivo abbandono dell’Italia mussoliniana a seguito della Guerra d’Etiopia (1936), si tramutò in un’organizzazione anglo-francese con la quale le due nazioni mantennero la propria influenza nel continente europeo, nelle loro colonie e nel sistema internazionale, con mezzi e metodologie inefficaci nel contrastare l’avanzata dei totalitarismi.

Per quanto riguarda la figura del Presidente Thomas Woodrow Wilson, “trionfatore” della Conferenza di pace di Parigi (al punto di ottenere il Premio Nobel per la Pace, proprio come avvenne per Roosevelt prima di lui), gli sforzi prodigati per la realizzazione dei propri progetti lo portarono ad avere una serie di ictus che lo resero inabile al servizio delle proprie funzioni presidenziali, che ciononostante mantenne fino alla fine del suo mandato nel 1921.
Invalido, si ritirò a vita privata lontano dalla Casa Bianca trascorrendo gli ultimi anni della sua esistenza nella tranquillità della sua tenuta a Washington dove morì il 3 Febbraio 1924.

Nel corso della propria vita politica, in quegli otto anni nei quali rivestì il ruolo di guida degli Stati Uniti d’America, Thomas Woodrow Wilson accese una scintilla in una zona inesplorata dell’animo del popolo statunitense, facendosi portavoce e testimone di valori morali che legano la visione cristiana protestante (nello specifico, l’interpretazione puritana) al mondo anglo-sassone. Ciò che ne conseguì avrebbe portato frutti nel lungo termine per il Paese, contribuendo ad abbandonare la propria tradizione pragmatica manifestatasi con la Dottrina Monroe ed il Corollario Roosevelt ed elevando la figura di Wilson sull’altare della Storia, nei decenni successivi, al rango di mentore immortale e ponendola in quella sorta di pantheon della società statunitense al fianco dei Padri Fondatori o di uomini come Abraham Lincoln.

Per tracciare una sintetica panoramica kissingeriana, “gli statisti, e persino i guerrieri, si concentrano sul mondo in cui vivono [..]” ma “per i profeti (come Wilson ndr), il vero mondo è quello che essi vogliono portare a compimento.” Eppure, dietro a questa linea tracciata dal Presidente Wilson per i suoi successori (con rarissime eccezioni) vi sono i germi delle grandi contraddizioni che questo pensiero portò con la propria implementazione nella politica estera statunitense, dove le scelte politiche (e non solo) compiute in quegli otto anni contribuirono a creare i presupposti per i fatti successivi. Non solo, anche alla luce di quell’iper-sensazionalismo americano propugnato da Wilson, nonché dell’assunzione, posta con fare dogmatico, dell’innata indole pacifica insita nell’animo dell’uomo amante della pace, un popolo intero accolse la missione messianica di conversione globale ai valori della democrazia statunitense e mutò la propria concezione dei rapporti con l’altro in modo irreparabile.

“Probabilmente” perché nei fatti la politica estera statunitense avrebbe di lì in avanti agito in direzione diametralmente opposta ai valori Wilsonisti sbandierando, contemporaneamente, i suddetti valori. Una lunga serie (1921-?) di gravi errori di valutazione che oggi portano la politica internazionale e le società delle varie nazioni del pianeta a subire le conseguenze create proprio dalle scelte che furono compiute durante gli anni dell’amministrazione Wilson.



Guglielmo Vinci
per www.policlic.it

* “Vae victis” = “Guai ai vinti”, locuzione latina pronunciata per bocca del capo dei Celti Brenno riportata nell’opera Ab Urbe Condita dello storico romano Tito Livio.

**Goldmark = Il Marco-oro fu la valuta in essere nel Reich tedesco e successivamente nella Repubblica di Weimar rapportata al cosiddetto “sistema aureo”, ovvero il rapporto diretto tra il valore della valuta e quello dell’oro (e delle riserve auree possedute dalle banche internazionali fino alla Grande Depressione del 1929).

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