Pier Ferdinando Casini: da Moro alla “Nuova Via della Seta”

Pier Ferdinando Casini: da Moro alla “Nuova Via della Seta”

In occasione del convegno organizzato lo scorso 29 marzo dall’Istituto dell’Enciclopedia Italiana per la presentazione del libro 16 marzo 1978, l’opera più recente del giornalista e scrittore romano Giovanni Bianconi, Policlic ha avuto l’opportunità di intervistare il Senatore Pier Ferdinando Casini. Testimone oculare degli avvenimenti consumatisi nei 55 giorni successivi all’agguato di Via Fani, l’ex Presidente della Camera ha offerto il proprio punto di vista sull’affare Moro, senza trascurare l’attualità politica.


Senatore Casini, all’epoca del caso Moro Lei era uno studente al penultimo anno di giurisprudenza e membro del direttivo nazionale giovanile della Democrazia Cristiana. Che impatto ebbe la notizia dell’agguato di Via Fani su di lei e sui suoi coetanei, figli di un’Italia attraversata da feroci lotte ideologiche nell’ambito dei cosiddetti “Anni di Piombo”?

È descritto molto bene nel libro. Mentre i giovani democristiani e i comunisti marciavano assieme con le bandiere bianche e rosse —che non si erano mai viste assieme nella storia della Repubblica— un’area assai ampia dell’università e del mondo giovanile era in una condizione di terzietà nello scontro tra lo Stato e le Brigate Rosse. Un po’ quello che successivamente si tramutò nel famoso slogan “né con lo Stato, né con le Brigate Rosse”. Per noi furono momenti di commozione enorme: i gruppi giovanili avevano una consuetudine di rapporto con Aldo Moro, e il movimento giovanile aveva sostenuto fortemente l’esperienza della Segreteria Zaccagnini. Io ricordo perfettamente quella mattina a Bologna, il sussulto immediato quando mi dissero questa cosa. Subito accesi la televisione, e immediatamente presi un treno per Roma per recarmi a Largo Arenula, nella sede del movimento giovanile. Tutti fecero così. Naturalmente il nostro ruolo fu di testimonianza, perché non incidevamo sulle grandi scelte esistenti. Il nostro delegato nazionale, Follini, ebbe il ruolo di partecipare alla direzione e fu impegnato a sostenere una posizione aperta alle esigenze della famiglia di Moro, naturalmente nei limiti della condizione consentita.

Nei 55 giorni compresi tra l’agguato di Via Fani e il 9 maggio 1978, data di ritrovamento del cadavere dello statista pugliese, l’intera scena politica venne polarizzata dal confronto diretto tra i sostenitori della “linea della fermezza” e i possibilisti. A distanza di quarantun anni da quegli eventi, Lei ritiene che l’entourage italiano avrebbe potuto agire diversamente per salvare la vita dell’Onorevole Moro?

Si dice che del senno di poi ne son piene le fosse, per cui la presunzione che sia stato fatto tutto nella direzione giusta non ce la può avere nessuno. Non ce l’ho nemmeno io. Però vorrei contestualizzare i fatti: eravamo in uno Stato debole, con un apparato di polizia fatiscente, con servizi di informazione e di sicurezza che brancolavano nel buio e una magistratura assolutamente incapace di fronteggiare la situazione. Basti pensare a un esempio molto chiaro: il magistrato che conduceva le indagini su Moro non aveva una linea esterna diretta nella sua stanza. Per le telefonate riservate doveva utilizzare il telefono a gettoni della cabina della Procura. Anche le perquisizioni a tappeto che furono condotte a Roma servirono più che altro a far vedere che si stava facendo qualcosa. In realtà non si era identificato il bandolo della matassa. In questa situazione, mentre cadevano magistrati, uomini delle istituzioni, ed erano morti cinque uomini della scorta, dei poliziotti, imbarcare lo Stato in una sorta di trattativa per un suo esponente avrebbe dato l’idea che ci sono figli e figliastri, che per il politico si faceva quello che non si sarebbe fatto per le povere persone che avevano perso la vita. Io credo che, da una condotta di questo tipo, lo Stato ne sarebbe uscito a pezzi.

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Fonte: Wikimedia Commons

Volgendo uno sguardo all’attualità politica, la visita del presidente cinese Xi Jinping ha aperto un dibattito acceso circa le possibilità e i rischi insiti nel progetto della cosiddetta “Nuova Via della Seta”. Qual è il suo giudizio sulle iniziative economico-infrastrutturali foraggiate nell’ultimo quinquennio da Pechino?

Pechino fa una cosa giustissima, dal proprio punto di vista: prima di tutto questa è un’OPA amichevole che Pechino fa sul mondo, una sorta di neo-imperialismo di marca capital-comunista. Oltretutto corrisponde a tematiche interne, perché da un lato la “Via della Seta” stabilisce nuove rotte acquatiche, dall’altro è molto importante anche per riequilibrare il sottosviluppo delle aree interne cinesi. In questo è chiaro che Trump abbia identificato bene la situazione. Oggi la grande sfida agli Stati Uniti e all’Occidente è quella della Cina. Ora, partecipare alla “Via della Seta” con iniziative nostre non è assolutamente controindicato. Il vero problema è capire che questo approccio con la Cina va sviluppato in sede europea. Quello che è capitato tra l’Italia e gli altri Paesi è molto chiaro: l’Italia ha sostanzialmente firmato un memorandum impegnativo per ottenere quasi nulla; i francesi e i tedeschi, che non hanno firmato alcun memorandum e si tengono le mani libere, hanno fatto 10 volte più affari di noi e ne stanno facendo con Pechino. Questo significa che siamo un po’ provinciali; che di provincialismo abbiamo peccato pesantemente, in questa vicenda.

Il prossimo 26 maggio si terranno le elezioni per rinnovare il Parlamento europeo, un indicatore che consentirà di quantificare l’avanzata dei movimenti sovranisti ed euro-scettici nel Vecchio Continente. In quanto fondatore del partito “Centristi per l’Europa”, quali sono le sue aspettative circa l’esito del voto?

Io sono un battitore libero, per cui parlo essendo tradizionalmente uno degli appartenenti al Partito Popolare Europeo. Penso che dobbiamo trarre una lezione semplice da tutto quello che sta capitando: il sovranismo è necessario, ma quello europeo; non il sovranismo nazionale. Oggi gli europei sono l’8% della popolazione mondiale, ma detengono il 22% della ricchezza; quando sono nato io [1955, nda] erano il 40% della popolazione mondiale e ne detenevano altrettanta. Questo cosa significa? Che siamo destinati a essere subalterni. Tutti, non solo gli italiani. Italiani, francesi, tedeschi. Se in questo mondo globale vogliamo essere attori e non soggetti passivi, noi dobbiamo essere protagonisti in prima persona e saper riscoprire un europeismo vero. Io penso che la strada sia quella dello Stato federale europeo. Noi italiani abbiamo avuto solo vantaggi dall’Europa. Quando sento qualcuno dire che la moneta unica ci ha indeboliti perché prima avevamo le svalutazioni competitive, io ricordo loro che torno dall’Argentina, dove c’è il 50% di inflazione. Ora, un Paese fragile come l’Italia sarebbe stato il primo a saltare in aria senza l’ancoraggio all’Euro. Naturalmente questo non basta, perché ci vogliono politiche coerenti, bisogna avere una burocrazia più efficiente, bisogna risolvere le tradizionali arretratezze italiane per le quali mi sembra si stia perdendo molto tempo – pensiamo alle infrastrutture bloccate.

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