Il panafricanismo: dalle origini alla resistenza africana nel XXI secolo

Il panafricanismo: dalle origini alla resistenza africana nel XXI secolo

Una panoramica storica di un continente da conoscere

Cenni introduttivi sul panafricanismo

Uno scatto della statua dedicata a Shaka Zulu presente nel Camden Market di Londra (Regno Unito). Fonte: Jacob Truedson Demitz for Ristesson History/Wikimedia Commons

Uno scatto della statua dedicata a Kimpa Vita a Uige (Angola). Fonte: Somebody040404/Wikimedia Commons

L’Africa è un continente policentrico ed eterogeneo, caratterizzato da molteplici realtà, culture e costumi. A livello ontologico-endogeno, potremmo dire che è uno spazio a sé stante che, essendo stato isolato per molto tempo dal resto del mondo, costituisce la sua singolarità. Queste differenze non sono mai state sinonimo di divisione nel continente. Al contrario, sono sempre state simbolo di unione. Il desiderio di unità nella diversità è sempre stato un concetto endogenizzato nelle culture africane. Un sentimento che sia in tempi di sole sia in momenti bui ha condotto a un ideale superiore: il panafricanismo.

L’Africa ha visto nascere e proliferare regni e imperi sul proprio suolo. Vasti imperi che non avevano lo scopo d’imporsi in modo bellico, ma che puntavano a unirsi in una confederazione. Emblematica è, per esempio, la Carta Manden del 1236
[1] – ovvero una delle carte dei diritti e doveri che confederava l’Impero del Mali – ma lo sono anche figure come Shaka Zulu, che dedicò la propria esistenza alla volontà di unire tutto il Sud dell’Africa, oppure il Re Gbehanzin alla guida del Dahomey, Samory Toure e l’Impero Wassolou[2] da questi guidato, nonché donne come Kimpa Vita[3], che dedicò la propria vita a riunificare il Congo.

Su questi elementi, e molti altri, che compongono la base storica e ideologica del panafricanismo che verrà analizzato di qui in avanti, si vuole tessere la trama della lunga storia di un ideale che sia parte integrante di questa continuità.

 



La definizione del panafricanismo e le sue origini

Nella foto, si osserva una stampa del 1884, proveniente dal quotidiano tedesco Die Gartenlaube, che illustra gli esiti della Conferenza di Berlino dalla quale avrebbe avuto inizio la spartizione dell’Africa tra le potenze coloniali europee.
Fonte: Wikimedia Commons

Come viene indicato dal termine stesso, il panafricanismo vuole rappresentare l’unione degli africani presenti sul continente africano o nelle aree geografiche che hanno subìto una forte diaspora (Caraibi, Americhe ecc.). È un’ideologia soteriologica, cioè di salvezza, in quanto il suo obiettivo è quello di riscattare i popoli africani sia dalle potenze esogene di dominazione (esterne/straniere) sia dall’asfissia socio-politico-economica endogena (interna). Sin dalla sua genesi, il pensiero panafricanista si pone agli antipodi rispetto alle frontiere stabilite dalla Conferenza di Berlino del 1884-1885, la quale balcanizzò l’Africa e, di conseguenza, creò nazioni artificiali che non sempre erano in adeguazione con lo status quo vigente in quel contesto[4]. Il suo fine ultimo è la costruzione di un grande blocco monolitico-federale africano, mediante la riappropriazione della sovranità continentale in tutti i suoi aspetti e l’emancipazione dai mali endogeni che paralizzano il suo progresso.

Diventa necessario porsi una prima domanda: perché ragionare in termini federali?
Perché, in questo mondo geopolitico, si rispettano unicamente le civiltà che hanno deciso di unirsi in nome di un destino comune e di una matrice che le accomuni l’un l’altra. Per esempio, nell’Est Europa si è diffuso e si sostiene un concetto continentalista quale l’eurasiatismo, propugnato e difeso dall’intellettuale russo Aleksandr Dugin (autore, nel 2009, dell’opera La quarta teoria politica), poiché si ritiene che la matrice indoeuropea sia la radice che accomuna quello spazio.

Allo stesso modo, in America Latina, si crede che soltanto un Sudamerica unito, così come auspicato in vita da Simon Bolìvar, potrà condurre a una reale salvezza dal dollarismo e dai freni endogeni che bloccano il progresso e l’emancipazione di quei popoli. Il panamericanismo latino è un concetto sostenuto da figure quali il leader del movimento sovranista brasiliano Nova Resistencia, Raphael Machado[5], e l’ex direttore della banca centrale argentina, l’avvocato Pedro Biscay – fieramente peronista e anti-imperialista – al pari di altri esponenti continentalisti.

Il leader panafricanista Kémi Séba in un incontro del 2017 con il panamericanista argentino, Avv.Pedro Biscay.
Fonte: Kémi Séba/Facebook


Se si guarda alla Cina, quest’ultima appare come una somma di più province, unitesi in nome di un destino comune, mentre gli Stati Uniti d’America sono una federazione che, dal momento in cui i suoi padri fondatori hanno compreso come solo l’unità avrebbe fatto pesare la Nazione nel concerto geopolitico, hanno abbracciato ciò che ritenevano essere il loro destino unitario.

Si può osservare, quindi, come tutte le Nazioni che si sono unite nel corso della Storia sono quelle che hanno compreso che l’unità sposta a proprio vantaggio il rapporto di forza. Il panafricanismo rappresenta la risposta per l’Africa di questo concetto globale che è l’unità. Ma non potremmo parlare in profondità del panafricanismo, e dei suoi reali obiettivi, senza analizzarne la genesi, l’origine e i suoi patriarchi.

Anzitutto, per fare chiarezza, va detto che il panafricanismo non è nato in Africa, ma nella diaspora afrodiscendente nelle Americhe, e trova la sua genesi nel periodo del commercio e della tratta degli schiavi, trattato in modo ampio dallo storico guadalupense Oruno D. Lara in La naissance du panafricanisme.

Le sofferenze che i neri dovettero subire una volta rapiti e deportati nelle Americhe hanno condotto a un sentimento di maturità sociale. È possibile, dunque, affermare che in quelle drammatiche fu raggiunta la consapevolezza che, dall’ostracismo dell’Uomo da parte dell’Uomo, nasce la volontà da parte degli ostracizzati di costituire la propria potenza e ribellarsi. In quel contesto di brutalità e oppressione da parte del grande Capitale, nacque il cosiddetto “marronaggio”.

Ma cosa era il marronaggio? Per poter rispondere correttamente, bisogna contestualizzare il comportamento dei neri deportati. All’epoca della tratta degli schiavi, esistevano tre tipi di neri: il nero totalmente assoggettato al padrone e alla piantagione, il nero alla ricerca di maggior autonomia senza cercare di resistere dinnanzi a chi l’opprimeva e – da ultimo – il nero che voleva un’indipendenza definitiva dal suo padrone, ricercando l’autodeterminazione integrale e la libertà; un nero, quindi, che fuggiva e costruiva villaggi autonomi con la sua gente, dove poter essere l’unico padrone del proprio destino[6]. Quest’ultima categoria veniva chiamata maroon, negmarron o cimarroni, per cui si iniziò a parlare di marronaggio, che rappresentava i neri radicali, coloro i quali erano disposti a tutto per la propria libertà, in nome di un sentimento nazionalista nero o ‘‘pan-negro’’ comune.



La rivoluzione haitiana e il progetto pan-negro

Un ritratto del Diciannovesimo Secolo, di autore sconosciuto, raffigurante il generale haitiano François Doménique Toussaint Louverture.
Fonte: Schomburg Center for Research in Black Culture, Photographs and Prints Division, The New York Public Library / Wikimedia Commons

Con il passare dei secoli, la coscienza nera si radicalizzò molto, soprattutto durante la Rivoluzione francese del 1789, in seguito alla quale alcuni neri compresero che la libertà non doveva né poteva essere un concetto a geometria variabile. Da questo evento europeo e da questa nuova consapevolezza, scaturì una delle più grandi rivoluzioni nere della storia: il 22 agosto del 1791, diversi cimarroni, assieme al prete vudù Dutty Boukman, si riunirono nell’isola francese di Saint-Domingue (l’odierna Haiti) e diedero inizio alla Rivoluzione haitiana contro il sistema schiavista coloniale francese[7].

La rivoluzione fu guidata dal generale François Doménique Toussaint Louverture (1743-1803), il quale, tra azioni più o meno diplomatiche, lottò per riscattare Saint-Domingue dal colonialismo francese, trovandosi spesso a collaborare con gli inglesi o con gli spagnoli in chiave anti-colonialismo francese. Fu una lotta che durò per anni e che venne vinta in seguito da altre personalità come Jean-Jacques Dessalines (1758-1806), una figura ancor più radicale di Louverture.

Coloro che guidarono la rivoluzione riuscirono a disciplinare e formare il popolo dell’isola, facendo un fronte unico contro un medesimo nemico, al punto che Napoleone Bonaparte, temendo che i suoi interessi imperiali potessero essere disturbati, decise di restaurare la schiavitù nelle colonie (abolita proprio durante la Rivoluzione francese) e di arrestare Louverture nel 1802, che venne deportato in Francia e imprigionato fino alla sua morte. Con l’arresto di Louverture, l’Impero napoleonico pensò di poter soffocare la rivoluzione haitiana, ma fu un errore: durante il suo arresto, infatti, Louverture disse: “Arrestandomi a Santo Domingo, hanno abbattuto in me solo il tronco dell’albero; le radici sono tante e profonde – si rialzeranno di nuovo!”[8] Una previsione che si realizzò proprio grazie al generale Dessalines, il quale prese le redini della situazione e proseguì la missione di Louverture fino alla battaglia di Vertières (18 novembre 1803), che vide scontrarsi i cimarroni e le truppe napoleoniche e sancì la sconfitta di queste ultime[9].

A seguito della sconfitta militare della Francia, Saint-Domingue, il 1° gennaio 1804, ottenne de facto la propria indipendenza. Ribattezzata con il nome di ‘‘Haiti’’, questa divenne la prima repubblica nera della storia. Ma il generale Dessalines non voleva limitarsi alla sola Haiti, aveva una visione più ampia, una visione pan-negra: il suo obiettivo, infatti, era quello di confederare il resto del territorio caraibico ad Haiti[10].

Un obiettivo che non venne mai raggiunto: dinnanzi a delle potenze colonialiste che volevano vedere Haiti assoggettata, la visione di Dessalines – che nel 1806 sarebbe stato assassinato – divenne praticamente irrealizzabile. All’epoca, tutte le nazioni ostracizzarono la neo-indipendente Haiti che osò lottare per la propria sovranità e, in seguito alla morte del generale Dessalines, nell’isola si susseguirono una serie di soggetti facilmente manovrabili. Il progetto pan-negro e panafricano fu così abbandonato in seno alle élite, anche se sarebbe sopravvissuto, nel profondo, tra il popolo e qualche intellettuale nero.

 



Il panafricanismo moderno e la decolonizzazione in Africa

Marcus Garvey seduto su una scrivania, immortalato da una fotografia scattata nel 1924.
Fonte: U.S. Library of Congress, George Grantham Bain Collection (LC-USZ61-1854) / Wikimedia Commons

Molti intellettuali di Haiti, tra i quali Martin Robinson Delany (1812-1885) e Benito Sylvain (1868-1915), continuarono a parlare di un probabile progetto panafricano. Ma erano personaggi borghesi, elitari, che non condivisero mai la loro dinamica intellettuale con le masse.
Fu un uomo della Giamaica a osare mettere il progetto unitario panafricano al centro della tavola, tra tutte le categorie sociali nere: Marcus Mosiah Garvey (1887-1940), il leader più influente nel mondo nero della prima metà del Novecento[11].

Nato a Saint Ann’s Bay (Giamaica), Garvey ebbe modo di viaggiare molto per il mondo; trasferitosi negli Stati Uniti, nel 1914 fondò la Universal Negro Improvement Association (UNIA). L’UNIA fu la prima organizzazione nazionalista nera e panafricana della Storia che ruotava attorno all’idea del Grande Ritorno in Africa, dell’autodeterminazione e della decolonizzazione totale del continente[12]. Grande predicatore del ritorno in Africa di tutti gli afrodiscendenti, Garvey affermava come ogni popolo avesse una propria identità e che il suo scopo fosse quello di restare saldo nelle sue radici. Negli anni Venti del Novecento, egli fu il primo a parlare dell’ideale panafricano e a immaginare la nascita degli Stati Uniti d’Africa: Garvey, infatti, aveva capito che soltanto un grande blocco panafricano unito avrebbe potuto resistere dinnanzi al colonialismo esogeno e farsi rispettare nel concerto delle Nazioni.

Affinché ciò si realizzasse, Garvey riuscì – attraverso la compagnia marittima che possedeva, ovvero la Black Star Line – a trasportare molti afrodiscendenti in Liberia e in Etiopia dal 1919 al 1922[13]. Inoltre, egli insistette molto sul nazionalismo panafricano al punto di divenire una minaccia per gli interessi del governo statunitense in Liberia, che decise di deportarlo in Giamaica e per impedirgli di continuare il proprio operato. Tuttavia, le sue idee non morirono, perché furono l’essenza del V Congresso panafricano del 1945[14], che vide la partecipazione dei futuri “nuovi leader” delle nazioni africane, tra i quali Kwame Nkrumah, Ahmed Sékou Touré e Jomo Kenyatta, uomini che in vita avrebbero guidato il Ghana, la Guinea e il Kenya come presidenti. Questi uomini furono personalità che optarono per una “via africana del socialismo”[15] che, unita al panafricanismo, rappresentava l’unica via – secondo la loro visione – per trovare la salvezza in Africa. Profondamente e fermamente anticolonialisti, essi posero sullo scacchiere internazionale l’urgenza della decolonizzazione africana: da quel Congresso, infatti, molte neo-nazioni africane riuscirono a ottenere l’indipendenza negli anni seguenti.

Di lì a poco, tuttavia, emerse un nuovo ostacolo, ovvero quello rappresentato dal cosiddetto “neocolonialismo”. Se da una parte il colonialismo consisteva nell’evidente saccheggio delle risorse africane sul territorio da parte dei grandi capitalisti europei, dall’altra il neocolonialismo si poneva come una forma paternalista dei Paesi ex colonizzatori sui Paesi neo-indipendenti attraverso il controllo dei dirigenti africani eletti, nonché degli apparati militari ed economici. Il neocolonialismo stava diventando una forma più latente del colonialismo: il colono non era più distinguibile per via del colore della sua pelle, dal momento che molti dirigenti africani spesso accettavano il sistema neocoloniale[16].

Il ritratto fotografico ufficiale del 1960 dell’allora neoeletto Primo Ministro della Repubblica Democratica del Congo, Patrice Emery Lumumba
Fonte: Wikimedia Commons

Questo accentuò sempre più la volontà di unità federale tra i leader più radicali, che ragionavano più in ottica sovranista, come Nkrumah[17], Modibo Keita (primo presidente del Mali), Patrice Lumumba, Sékou Touré e Julius Nyerere (primo presidente della Tanzania). Il sentimento federale condurrà alla creazione, il 25 maggio 1963[18], di un organismo internazionale denominato Organizzazione per l’Unità Africana (OUA), che da un punto di vista politico fu il precursore dell’odierna Unione Africana (UA). Questo organismo, co-fondato da Nkrumah, Haile Selassie e altri ad Addis Abeba, si diede come obiettivi alcuni punti fondamentali che tuttavia non sempre rispettò nel tempo: lavoro contro il neocolonialismo, promozione dell’integrazione africana sul campo politico oltre che economico, lotta contro la corruzione e contro l’imperialismo.

L’OUA esisteva dunque de iure ma non de facto: col tempo, infatti, il progetto iniziale di unità africana avrebbe iniziato a perdere pezzi e ad essere abbandonato, con le élite politiche che ragionavano più in termini di micro-nazionalismi[19] anziché comprendere che le nazioni neo-indipendenti erano facilmente attaccabili dall’imperialismo.

I pochi che osarono opporsi a ogni egemonia esogena furono eliminati dall’imperialismo. Molto spesso gli imperialisti collaboravano con alcuni africani che si opponevano a un regime al fine di rovesciarlo. Non si può non pensare, a tal proposito, a uomini come Thomas Isidore Sankara (1949-1987), burkinabé non allineato, oppositore del debito coloniale, a favore di una piena autosufficienza africana. Non si può non pensare a uomini come il primo ministro congolese Patrice Emery Lumumba (1925-1961), al rivoluzionario camerunese Ruben Um Nyobe (1913-1958), al panafricano marocchino Mehdi Ben Barka (1920-1965) e a tutti coloro che hanno voluto e sognato che l’Africa potesse decollare dalla propria condizione.

 

Sâa François Farafin Sandouno per www.policlic.it

 


Note e riferimenti bibliografici

[1] In riferimento alla Carta Manden, si consigliano alcune pubblicazioni tematiche utili a comprendere la sua storia e la sua rilevanza, come Massimo Conti, La Carta Manden. Diritti e doveri dall’Africa del XIII secolo (2021); Aboubakar Fofana, La Charte du Mandé et autres traditions du Mali (2003); Dialiba Konate, L’épopée de Soundiata Keïta (2002) e Cheick Anta Diop, Anteriorité des civilisation Nègres (1967). Nel 2009, la Carta Manden è stata dichiarata e iscritta come Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità dall’UNESCO: https://ich.unesco.org/en/RL/manden-charter-proclaimed-in-kurukan-fuga-00290.

[2] In riferimento alla figura del condottiero Samory Touré e alla nascita dell’Impero Wassolou tra il Niger e la Costa d’Avorio, si rimanda alla lettura di Ibrahima Kalil Fofana, L’Almami Samori Touré, empereur (2000) e ai riferimenti storiografici raccolti in Nubia Kai, Kuma Malinke Historiography: Sundiata Keita to Almamy Samori Toure (2014).

[3] Sulla vita di Kimpa Vita, si consiglia il lavoro di ricerca storica pubblicato da Henri Pemot, Kimpa Vita, une résistante Kongo (2013).

[4] A sostegno di questa considerazione, si vuole indicare un elenco di pubblicazioni utili per la comprensione e l’approfondimento del tema. Nell’ordine, si rimanda ai lavori – pubblicati in lingua francese – di Amzat Boukari Yabara, Africa Unite! Une histoire du panafricanisme (2014); Oruno D. Lara, La naissance du panafricanisme: les racines caraïbes, américaines et africaines du mouvement au XIXe siècle (2000) e Cheikh Anta Diop, Les fondements économiques et culturels d’un état fédéral d’Afrique Noire (1974). Per le pubblicazioni in lingua inglese, si indica invece la ricerca pubblicata da Marika Sherwood, Origins of Pan-Africanism – Henry Sylvester Williams, Africa, and the African Diaspora (2011).

[5] Si rimanda ad A. Virga, Intervista a Raphael Machado di Nova Resistência, in “Il Pensiero Forte”, 6 maggio 2020, http://www.ilpensieroforte.it/interviste/3444-intervista-a-raphale-machado-di-nova (ultima consultazione: 30 maggio 2021).

[6] La storia di Haiti e della sua lotta per l’indipendenza è molto significativa nella letteratura panafricanista; alcune opere sono consigliate per l’approfondimento sul tema: Genèse de l’État haïtien (1804-1859), pubblicato nel 2009 da Michel Hector, e Esclaves et citoyens: Les noirs à la Guadeloupe au XIXe siècle dans les processus de résistance et d’intégration: 1802-1910, pubblicato nel 1992 dalla storica guadalupense Josette Fallope. C’è spazio anche per l’analisi del ruolo delle donne di Haiti all’interno del saggio del 2003 Les femmes dans le marronnage à l’île de la Réunion de 1662 à 1848 di Marie-Ange Payet.

[7] Alcune pubblicazioni – tradotte anche in lingua italiana – sulla storia della rivoluzione haitiana offrono la prospettiva analitica proveniente dal mondo anglofono come nel caso – molto rilevante – de I Giacobini Neri, dello storico britannico di origini trinidadensi Cyril Lionel Robert James (1938), e di Haiti: Storia di una rivoluzione, pubblicato lo scorso anno dallo statunitense Jeremy D. Popkin.

[8] “En m’arretant, on n’a abattu à Saint-Domingue que le tronc de l’arbre de la liberté, mais il repoussera car ses racines sont profondes et nombreuses.” Cfr. Jacques De Cauna, Toussaint Louverture: Le grand précurseur, Éditions Sud Ouest, 2012.

[9] In riferimento alla battaglia di Vertières, si consiglia la lettura di Jean Pierre Le Glaunec, L’armée indigène: la défaite de Napoléon en Haiti (2014).

[10] Sulla visione pan-negra di Dessalines, si rimanda a Laurent DuBois, Avengers Of The New World: The Story Of The Haitian Revolution (2005).

[11] Riguardo alla vita e al pensiero politico di Marcus Garvey, è da menzionare il suo lascito letterario composto di discorsi, articoli e riflessioni raccolti nell’opera in tre volumi The Philosophy and Opinions of Marcus Garvey: Africa for the Africans, pubblicata tra il 1923 e il 1925 da Garvey assieme alla moglie Amy-Jacques Garvey (la quale curò la pubblicazione del suo terzo e ultimo volume nel 1986). Significativo è anche il suo Message To The People (pubblicazione anch’essa postuma dello stesso anno), opera che rappresenta un vero e proprio manifesto politico per la causa panafricanista portata avanti da Garvey nel 1937.

[12] In riferimento alla storia della UNIA, si rimanda alle opere precedentemente menzionate di Marcus Garvey, oltre alla lettura di un utile articolo pubblicato da “Nofi”, una testata indipendente che rappresenta un punto di riferimento nel mondo afrodiasporico: Marcus Mosiah Garvey, le chantre du panafricanisme, in “Nofi Media”, ottobre 2014, https://www.nofi.media/2014/10/marcus-mosiah-garvey-le-chantre-du-panafricanisme/1591 (ultima consultazione: 30 maggio 2021).

[13] Un esaustivo articolo in lingua francese, sempre pubblicato da “Nofi”, illustra la storia della Black Star Line di Marcus Garvey. Si rimanda a P. Noella, Le Yarmouth, le navire de la «Black Star Line, Inc.», in “Nofi Media”, ottobre 2014, https://www.nofi.media/2014/10/black-star-line/4975 (ultima consultazione: 30 maggio 2021).

[14] La trattazione degli esiti del Congresso panafricano del 1945 è presente nell’opera Pan-African History: Political Figures from Africa and the Diaspora Since 1787 (2003) di Hakim Adi e Marika Sherwood.

[15] Tre testi sono di grande importanza per la comprensione della cosiddetta “via africana al socialismo”: Kwame Nkrumah, Consciencism (1965), Julius Nyerere, Ujamaa: Essays on Socialism (1968) e Ahmed Sékou Touré, Africa on the Move (1977).

[16] La lettura critica del fenomeno neocolonialista si evince chiaramente all’interno dell’opera di Kwame Nkrumah Neo-Colonialism, the Last Stage of Imperialism, pubblicata nel 1965.

[17] Nelle parole che il presidente del Ghana indipendente Kwame Nkrumah espresse nel 1961, raccolte poi nel libro I Speak of Freedom (1961): “Divisi siamo deboli. Unita, l’Africa potrebbe diventare una delle forze più grandi e positive al mondo” (“Divided we are weak; united, Africa could become one of the greatest forces for good in the world”). Per una lettura approfondita sulla visione panafricanista di Kwame Nkrumah, si rimanda anche all’opera Africa Must Unite (1963).

[18] Si rimanda a SK, Quand l’Afrique s’organise : 25 mai 1963, les états africains se rassemblent au sein de l’OUA, in “Nofi Media”, maggio 2016, https://www.nofi.media/2016/05/lafrique-sorganise-25-mai-1963-etats-africains-se-rassemblent-loua/29269 (ultima consultazione: 30 maggio 2021).

[19] Il giudizio del presidente della Tanzania Julius Nyerere sulla visione micro-nazionalista fu senza mezzi termini: “Il nazionalismo africano è insignificante, pericoloso, anacronistico, se non è, allo stesso tempo, panafricanismo’’ (“African nationalism is meaningless, is anachronistic, and is dangerous, if it is not at the same time Pan-African”). Cfr. Julius Nyerere, Freedom and Unity: Uhuru Na Umoja; a Selection from Writings and Speeches 1952-65 (1966). Importante, a supporto del materiale precedentemente menzionato in riferimento alla visione di Nkrumah, anche la lettura della già citata opera di Nyerere, Ujamaa: Essays on Socialism.

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