L’etica della guerra

L’etica della guerra

Christopher Finlay (cortesia dell’intervistato)

Christopher Finlay, professore di teoria politica e vicedirettore della School of Government and International Affairs presso l’Università di Durham (GB) si occupa da molti anni dell’etica dei conflitti, in particolare della Just War Theory (JWT), la scuola che si occupa di definire i limiti etici nella conduzione della guerra. In questa intervista, trattiamo l’importanza di questo approccio alla guerra.


Generalmente, vediamo la guerra come un fenomeno molto violento, dove l’etica non sembra ricoprire alcun ruolo. La vediamo come brutale. La mia prima domanda quindi sarebbe: come si relazionano guerra ed etica, secondo lei? Cos’hanno fatto l’etica e lo studio dell’etica nella guerra nell’aiutarci a comprendere tale fenomeno?

Suppongo che il primo punto da sollevare in risposta a questa domanda sia che esiste una famosa citazione da Cicerone, in cui si sostiene che in guerra le leggi siano in silenzio. Che in qualche modo, una volta che si sia arrivato sul punto del conflitto armato, la legge, l’etica, la morale escano dalla finestra. C’è qualcosa riguardo la natura di questo tipo di coinvolgimento tale da significare che sia in qualche modo irrealistico pensare all’etica. Forse la guerra è talmente malvagia o talmente corrotta che l’etica viene ammutolita, la giustizia è altrove. Il punto di partenza comune per chiunque pensi in termini di guerra giusta[1] o di etica dei conflitti consiste nel fatto che tale visione sia implausibile, che sia difficile che sia la verità. Ma suppongo ci siano due ragioni per le quali si ritenga che le leggi siano mute, in guerra.

Ci sono due ragioni per le quali si potrebbe pensare ciò: una consiste nell’idea che dato che la guerra è così malvagia, non possa essere giustificata in alcun modo. Tale pensiero si avvicina al pacifismo, il quale sostiene che la guerra sia semplicemente e intrinsecamente sbagliata, e dunque non debba essere condotta; l’altra ragione per la quale si potrebbe pensare che l’etica non abbia nulla a che fare con la guerra ha qualcosa a che vedere con ciò che Clausewitz chiama ‘la nebbia della guerra’[2], il fatto che ci sia qualcosa nell’esperienza della guerra comporti la perdita delle proprie capacità di agency[3] morale. Quindi se tu fossi un soldato, un generale o un presidente e fossi coinvolto, non saresti più in controllo e saresti in balia della necessità. In qualche senso profondo, metafisico, la tua capacità di compere scelte informate dalla morale sarebbero sparite. E credo che ci sia probabilmente una qualche verità in entrambe queste idee. Che la guerra sia intrinsecamente malvagia, che ci sia qualcosa di profondamente sbagliato in essa. Anche se non è necessariamente vero nel senso più radicale di tale affermazione. E c’è del vero anche nell’altra idea, ossia l’idea empirica che coloro che prendono parte a una guerra soffrano un significativo danno alla loro capacità di compiere scelte moralmente informate e di agire di conseguenza.

Ma, di nuovo, un teorico della guerra giusta sarebbe scettico proprio riguardo la forza di tale dichiarazione. A volte è possibile farsi prendere dal panico al punto di perdere interamente la propria agency, aprendosi una via di fuga a forza di sparare, così da poter uscire dalla situazione in cui ci si trova. È probabile che ciò succeda, alcune volte, ma per molto del tempo le persone possono pensare; la loro capacità di riflettere rimane intatta o, se non intatta, parzialmente operativa. Più ci si trova lontani dal campo di battaglia, più è probabile che ciò sia vero. Il presidente, nel suo ufficio, presumibilmente starà pensando ‘cosa dovremmo fare ora?’ e non sarà – auspicabilmente – nel panico. Anche i generali potrebbero essere piuttosto distanti dal fronte.

Se riteniamo giusto essere scettici riguardo queste due proposizioni estreme, allora c’è ancora spazio per riflettere su due fatti.

Uno è il supporto all’azione pratica[4]. Se si sta partecipando a una guerra o se ci si trova in un teatro dove questa sta avendo luogo, magari da civile, il supporto riguarda ciò che dovremmo fare, c’è che ci è permesso fare, ciò che abbiamo buona ragione, moralmente, di fare e ciò che le ragioni impellenti della guerra ci impediscono di fare. La teoria della guerra giusta offre una cornice morale a partire dalla quale informare tali decisioni. La seconda cosa che l’etica della guerra e la teoria della guerra giusta possono offrire è un equipaggiamento per chi non sia coinvolto, ma stia osservando quanto succede. Possono produrre un giudizio morale riguardo ciò che queste persone stanno facendo. Se tali proposizioni estreme fossero vere, se queste persone avessero effettivamente perso la testa, allora non avrebbe senso provare a elaborare un giudizio morale, perché non avrebbe senso offrire loro una guida morale e non avrebbe senso domandare loro di seguire delle regole morali. Ma presupponiamo che non sia così (o che almeno non lo sia uniformemente) in guerra.

Quindi, la risposta breve consisterebbe in due elementi: l’etica offre una guida per coloro che ancora conservino una capacità di riflettere riguardo le proprie azioni e permette al resto di noi di pensare, come osservatori: ‘avrebbero dovuto fare questo?’, ‘dovrebbero fare questo?’, ‘cosa potrebbero fare poi?’.

Come è cambiato il campo dell’etica dei conflitti, negli anni? Dalla teoria della guerra giusta agli studiosi più recenti, alcuni hanno anche criticato tale teoria. Sono stati aggiunti approcci differenti, altre idee, dal suo punto di vista?

Se parliamo della teoria della guerra giusta, o delle teorie dell’etica della guerra, più generalmente, ci sono ovviamente dei punti di vista rivali fuori dal campo. Solitamente, essi sono caratterizzati dall’essere, da una parte, degli approcci di stampo realista e, dall’altra parte, vari approcci di stampo pacifista. E questi potrebbero essere collegati alle idee affrontate nella prima domanda. C’è questa specie di scetticismo da parte sia dei realisti che dei pacifisti riguardo l’idea che etica e guerra possano avere un rapporto mutualmente produttivo. Che l’etica possa realmente e significativamente guidare coloro che partecipano a una guerra o coloro che stiano considerando di farlo. I realisti penserebbero che l’interesse personale e nazionale, la sicurezza, etc. ci costringerebbero ad agire in modi che potrebbero o non potrebbero apparire morali, ma alla fine sarebbero i nostri interessi e la nostra strategia a guidarci. L’etica non avrebbe nulla a che fare con ciò. I pacifisti direbbero che l’etica dovrebbe sempre guidarci, ma mai in direzione della guerra, perché sarebbe semplicemente la direzione sbagliata.

Nel campo della teoria della guerra giusta, in generale, ci sono ampie differenze tra le diverse posizioni. C’è stato un cambiamento significativo, nel tempo. In questo modo, la teoria della guerra giusta – se utilizziamo questo termine per descrivere l’intero campo – viene spesso retrodatata fino ad Agostino, all’interno della tradizione cristiana europea. Agostino è riconosciuto come l’inventore di qualcosa di simile a una teoria cristiana della guerra giusta, come strumento atto a riconciliare l’istinto pacifista del primo cristianesimo con la necessità di farsi coinvolgere nella politica dell’Impero romano. Ma lui stesso trasse da Cicerone, il quale contribuì sia al pensiero sulla giustificazione nell’andare in guerra e il tipo di condotta da tenere in guerra. Alcuni storici guardano ancora più indietro, fino al pensiero greco o anche egiziano, o fino ad altre fonti ancora. In aggiunta, esistono, al di fuori delle tradizioni europee, anche varianti islamiche o forse anche cinesi.

Nel pensiero contemporaneo, credo il mondo accademico si divita tra tre approcci, grossomodo.

Uno è un approccio di tipo storico che è stato con noi un po’ di più rispetto agli altri. JT Johnson, per esempio, è uno dei principali fautori di questo approccio, che sottolinea il bisogno di guardare alla tradizione. Se vogliamo riflettere sulla guerra e sull’etica, dobiamo guardare alle fonti, agli argomenti e ai discorsi storici, attraverso i quali diverse generazioni hanno riflettuto su questi problemi. La tradizione stessa è dotata di una sorta di rilevanza concettuale e normativa; il fatto che questo sia il modo in cui si sia evoluta e abbia portato a questo punto è importante. Questo è un modo di affrontare il problema. Il lavoro di Johnson, per esempio, tende ad attingere da Agostino, Tommaso, Vitoria, Vattel e così via.  In termini di dibattiti etici riguardo ciò che gli attori dovrebbero fare oggi e i dibattiti riguardo le guerre contemporanee come quella in Ucraina, le altre due scuole di pensiero sono probabilmente più rilevanti. Una è chiamata a volte ‘ortodossa’ o ‘tradizionale’ – gli storici avrebbero qualcosa da ridire sul fatto che sia davvero tradizionale od ortorossa, ma è comunque spesso chiamata così –, l’altra è descritta a volte come ‘riduttivista’ o ‘revisionista’, e qualche volta si identifica esplicitamente con una filosofia politica cosmopolitica.

L’approccio tradizionale è identificato, a torto o a ragione, con Michael Walzer, che di recente ha scritto sul Washington Post riguardo la guerra in Ucraina. Il suo libro Guerre giuste e ingiuste è probabilmente il più famoso libro moderno di teoria della guerra giusta. Pubblicato nel 1977, è passato attraverso diverse edizioni, da allora. Generalmente, le due principali componenti nella visione di Walzer sono queste: primo, lui imposta un approccio alla guerra nel quale il caso paradigmatico della guerra giusta corrisponda alla difesa della nazione. Il tuo Stato è la migliore chance sulla quale tu possa contare perché i tuoi diritti umani siano rispettati e di poter interagire con gli altri in direzione di una autodeterminazione collettiva. Pensa che, in generale e con qualche eccezione, gli Stati dovrebbero essere lasciati a facilitare tali beni e tali valori e dovrebbero essere capaci di difendersi da coloro che provino a impedire loro di fare ciò. Walzer pensa che ogni Stato dovrebbe essere visto come parte di una società di Stati, una società internazionale governata da un numero ridotto di regole. La regola centrale, tra queste, è quella della non aggressione. Ci sono molti pochi luoghi nei quali l’intervento umanitario possa essere giustificato, ma ciò costituisce, con molta enfasi, l’eccezione, piuttosto che la regola. Questa è una parte della teoria. L’altra parte della teoria è quella che ha ricevuto la maggior parte dell’attenzione critica durante quest’ultima generazione. È incentrata su ciò che a volte viene definito l’uguaglianza morale dei combattenti, chiamata a volte ‘dottrina dell’eguaglianza morale’[5]. Si tratta dell’idea che quando pensiamo all’etica della condotta della guerra – il termine tecnico normalmente utilizzato è jus in bello – ogni soggetto che si trovi nello stesso ruolo abbia gli stessi diritti. I soldati dal lato A dispongono degli stessi diritti dei soldati del lato B. Dispongono anche degli stessi doveri e delle stesse responsabilità.

In breve, che tu stia combattendo dal lato dell’aggressore e dell’invasore o dal lato che si difende contro tale aggressione, disponi ugualmente del diritto di provare ad attaccare e uccidere i soldati dall’altra parte; allo stesso modo, non disponi del diritto di dirigere intenzialmente le forze verso i non-combattenti dall’altra parte, non importa quanto siano responsabili della situazione, non importa cosa tu pensi di loro o creda al loro riguardo. Sono immuni. Ma a entrambe le parti è permesso di portare avanti azioni che comporterebbero una certa dose di danno collaterale imprevedibile, fin tanto che esso non sia sproporzionato rispetto agli obiettivi dell’azione. Per individuare un caso odierno, anche se tu, da soldato, stessi combattendo dal lato russo e tu stessi invadendo l’Ucraina, quando utilizzi l’artiglieria, non sei moralmente nel torto, se la usi contro dei soldati ucraini, una volta che la guerra è scoppiata. Similmente, se tu puoi prevedere che ci sarà un rischio inevitabile per qualche civile nelle aree circostanti quale risultato di un attacco su questi soldati, fintanto che tale rischio non è sproporzionato per i tuoi obiettivi militari, anche questo ti sarebbe permesso. È la medicina amara che si deve ingoiare con la visione tradizionale od ortodossa della guera giusta. Fondamentalmente, anche il diritto internazionale segue questa linea e non saresti trattato da criminale di guerra semplicemente per la fazione con la quale hai cobattuto, anche se ciò causa dei danni collaterali, purché non eccessivi.

Questi sono i principali punti dell’approccio tradizionale.

Contro ciò, la visione cosmopolita, o la visione revisionista/riduttivista, sostiene che questa visione sia una visione estremamente controintuitiva della politica internazionale della guerra. I filosofi revisionisti sfiderebbero entrambi i componenti, pur con diversa forza.

Un caso come quello dell’Ucraina, che è una democrazia, sosterrebbero i cosmopoliti, avrebbe il diritto di difendersi da uno Stato che la sta invadendo ingiustamente e che minaccia sia le istituzioni democratiche che i diritti umani. Però ciò non significa necessariamente che il caso paradigmatico della guerra giusta sia la difesa nazionale. La logica della visione cosmopolita e di quella revisionista più in generale è dettata dagli individui e dai diritti individuali. Le guerre che cerchino di preservarli sono probabilmente quelle più degne di essere giustificate; quelle che perseguano altri obiettivi sono meno probabilmente giustificabili. Si tratta di una comprensione molto più individualizzata dello jus ad bellum, il diritto di andare in guerra, la giustificazione per la guerra. Che tu stia difendendo lo Stato o intervendo in uno Stato per salvare delle persone, ciò riguarda sempre gli individui e le loro vite.

Dall’altra parte, molti dibattiti, nell’ultima generazione di studiosi, sono stati incentrati sull’idea che la fonte del nostro pensiero riguardo la violenza giustificabile dovrebbe essere la più intuitiva e semplice posibile, e questo è il caso dell’autodifesa. Se qualcuno attacca ingiustamente un’altra persona e l’unico modo per la vittima innocente per difendersi sia quello di utilizzare la forza, allora sembra intuitivo che farlo debba essere giustificabile. L’etica della guerra dovrebbe essere compatibile con tale idea. Ciò porta molti filosofi a pensare che non possa essere vero che i soldati di entrambi i fronti di una guerra difensiva possano disporre degli stessi diritti. È stato fatto un grande sforzo per sviluppare tale idea, che l’etica sia moralmente asimmetrica, e che non vi sia alcuna uguaglianza morale tra soldati opposti in una guerra giusta.

Come si relaziona tale campo con la legge? Alcuni dei concetti e alcune delle idee al suo interno sono molto vicine al diritto internazionale. Lei ha menzionato lo jus in bello, lo jus ad bellum, questi sono termini utilizzati nel diritto internazionale. Come crede che si relazionino questi due campi?

Credo dipenda dalla scuola di pensiero che sosteniamo. Prendendo queste due scuole, ortodossa e revisionista, in breve, se si segue Walzer o si difendono teorie simili alla sua nel suoi postulati principali, come fanno molti filosofi, allora la teoria della guerra giusta e il diritto sono allineati piuttosto da vicino. La forma generale è simile. Walzer, ad esempio, fonda la propria idea di una società degli Stati con diritti contro l’aggressione e un diritto alla difesa nazionale sulla Carta delle Nazioni Unite, e sulla sua idea che almeno fino a quand la comunità internazionale decida come rispondere, ogni Stato che sia soggetto ad aggressione da un altro Stato abbia il diritto di difendersi. Walzer vede ciò come in armonia con il suo concetto di guerra giusta.

Allo stesso modo, lo jus in bello legale e internazionale non distingue, generalmente, tra soldati invasori (e dunque ingiusti) e i soldati che si difendono contro di essi. Una volta che sei un soldato, una volta che sia riconosciuto che tu sia un combattente, una volta che tu sia soggetto a una catena di comando e così via, la tua risponsabilità è di seguire i princìpi di discriminazione e proporzionalità nello scegliere cosa fare. Dunque c’è un grado di armonia a livello di jus in bello tra la visione ortodossa e la visione del diritto internazionale. Difensori recenti di questa visione includono Yitzhak Benbaji e Daniel Statman, che offrono un punto di vista contrattario[6] mirato a difendere l’idea walzeriana di uno jus in bello simmetrico (in altre parole, l’uguaglianza morale dei combattenti).

È diverso se ci si trova sul fronte revisionista. Se tu fossi un revisionista, la legge muoverebbe su di una linea retta e la teoria morale su di un’altra, in direzioni divergenti. Dunque, si verifica una tensione o una sorta di disarmonia tra legge e morale, almeno fino a un certo punto, e la domanda diviene quale seguire. La legge o la morale? C’è un paper brillante e noto di Jeff McMahan – uno dei principali revisionisti – chiamato The morality of war and the law of war, pubblicato nel 2008, nel quale sostiene che la morale in senso stretto permetterebbe cose ai just warrior che non permetterebbe agli unjust warrior. Permetterebbe addirittura delle cose che la legge non permette. Ipoteticamente, ci potrebbero essere circostanze in cui non sarebbe sbagliato attaccare i civili, qualora siano responsabili per la situazione che aveva dato vita al bisogno di una forza difensiva. Potrebbe essere giustificabile, moralmente, finanche fare del male a dei prigionieri di guerra. McMahan ritiene che tale situazione sarebbe insolita, ma che esistono casi, almeno a livello teorico e ipotetico, in cui questo potrebbe accadere. Similmente, esisterebbe una rottura radicale tra ciò che la legge e la morale permettono agli unjust combatant, le persone che combattono in una guerra di aggressione. Fondamentalmente, la legge non proibisce affatto loro di combattere. La morale, invece, lo proibisce.

Per quanto riguarda la tensione tra morale e legge, McMahan sostiene due cose. Una è che è probabilmente una buona idea lasciare la legge com’è, anche qualora non sia in armonia con la morale. A meno che non vi siano radicali cambiamenti nelle istituzioni internazionali, ci sono diverse ragioni molto buone perché la legge diverga dalla morale. Ciò discende dalla preoccupazione riguardo gli effetti che potrebbero derivare nel comportamento delle persone qualora cambiassimo la legge e lasciassimo che essa seguisse direttamente la morale. Se qualcuno si trovasse a combattere in una guerra che avesse ragione di ritenere ingiusta, ma sentisse di dover combattere comunque, e la legge non gli permettesse di attaccare il nemico, i combattenti sarebbero perseguiti allo stesso modo per aver attaccato soldati e civili. Allora potrebbe pensare: ‘qual è la differenza?’. Potrebbe scegliere di compiere qualsiasi azione che ritenga più probabile possa essere efficace e potrebbe scegliere di ignorare il principio di discriminazione. Similmente, se fosse spaventato dall’idea di essere perseguito anche se avesse combattuto discriminatamente, potrebbe combattere più a lungo ed essere più restio a capitolare, etc. Ci sono varie razioni prudenziali per lasciare che la legge diverga dalla morale.

L’altra cosa che McMahan sostiene è che ci sono ancora modi in cui la morale può guidarci, anche lasciando la legge così com’è. Se la morale dice che qualcosa potrebbe essere permissibile, ma la legge sostiene che sia proibito, potrebbe essere bene seguire la legge. Ma se la legge sostiene che qualcosa sia permesso e la morale dica il contrario, che è semplicemente sbagliato, dovremmo comunque seguire la morale. Dunque, se realizzassimo che la guerra nella quale stiamo combattendo non ciò che il governo ci ha detto – per esempio, a una ‘operazione militare speciale’ per ‘ragioni umanitarie’, finalizzata a sconfiggere i ‘nazisti’ nel paese che hai invaso – ma nei fatti si tratta di una guerra di aggressione internazionale, e se stessimo leggendo McMahan al fronte, la direzione che ci verrebbe suggerita sarebbe ‘dovresti semplicemente smettere di combattere’. La legge non ci vedrebbe necessariamente nel torto – o almeno come perseguibili – per il fatto di combattere discriminatamente. Ma la teoria morale della guerra giusta direbbe: ‘dovresti disertare o arrenderti; dovresti rifiutarti di combattere e obiettare contro la guerra portata avanti dal tuo fronte’.

Dunque, in un approccio troviamo una stretta convergenza tra legge e morale. Nell’altro, una divergenza. Poi ci sono vari filosofi che vogliono trarre da entrambi o vogliono catturare o continuare a beneficiare dalla ricca analisi che i revisionisti portano con sé, sostenendo al contempo come la legge sia dotata di qualche tipo di autorità indipendente. Adhil Ahmad Haque, per esempio, in un libro brillante, sostiene l’autorità della legge sui soldati, una cosa che ha molta più rilevanza, per esempio, che in McMahon.

Si tratta di un problema piuttosto complesso, privo di una soluzione definitiva, dopotutto. Il dilemma generale tra etica e legge deriva addirittura dall’antica Grecia.

C’è stata una lunga discussione riguardo il modo in cui dovremmo considerare l’ampio campo delle relazioni internazionali, se viviamo in un sistema dove gli Stati agiscono per il loro proprio interesse o se dovremmo intravedere una comunità che emerge, capace anche di rafforzare una concezione etica della guerra. Da che parte crede che dovremmo schierarci, in questo dibattito? Viviamo in un sistema anarchico dove ogni cosa accade a causa del potere o dovremmo fare affidamento sull’esistenza di una comunità internazionale?

Per ciò che conta, il mio pensiero al riguardo è che i teorici della guerra giusta abbiano a volte fatto affidamento in maniera passiva, tacita su di un modello implicito di ordine mondiale, mentre riflettevano su ciò che possa essere permesso in guerra. Molto brutalmente, si tratta dell’idea che una larga porzione del mondo sarà governata da norme liberali a che sia probabile che verrà sostenuta da una potenza militare occidentale più o meno dominante. Ma credo che le presupposizioni che vengono adottate circa la natura della politica internazionale e circa gli equilibri di potere tra diversi tipo di Stato abbiano un’alta probabilità di influenzare ciò che si ritiene moralmente giustificabile in guerra. Come tali presupposizioni funzionino dipende dalla prospettiva dalla quale si prova a elaborare un’etica della guerra.

Una prospettiva al riguardo potrebbe essere quella di una visione imparziale che guardi alla guerra come una pratica all’interno dell’ordine globale, e a quali conseguenze potrebbero generarsi, a partire da una specifica teoria dell’etica della guerra, nel creare dei precedenti, nel modo in cui si determinano futuri comportamenti, da certe istituzioni e da uno specifico equilibrio di potere, etc. E poi, l’altra prospettiva è unilaterale. Essa dice: ‘okay, se io fossi il presidente di uno Stato democratico, in qualsiasi tipo di guerra, cosa mi sarebbe permesso, qualora fossi sotto attacco o dovessi ritrovarmi a preoccuparmi che persone in un altro Stato siano soggette ad atrocità?’. Il tipo di teoria che si ottiene lavorando solo o principalmente con sguardo unilaterale è piuttosto differente dalla teoria che emergerebbe lavorando da un punto di vista globale e imparziale. In parte, questo è dovuto al fatto che le cose che potresti permettere nella prospettiva unilaterale di una democrazia sarebbero cose che non vorresti necessariamente vedere generalizzate per ogni Stato che sostenesse ‘io disponevo di una giusta causa’. La preoccupazione è che una teoria che sia molto permissiva verso gli Stati con una vera giusta causa per combattere creerebbero delle opportunità per potenze più sinistre. Non è molto chiaro quale parte sacrificare quando si è in tensione tra queste due cose – ciò che uno Stato con una giusta causa potrebbe vedere come permesso, guardando alle cose in maniera unilaterale, e il modo in cui la pratica della guerra più in generale potrebbe configurarsi, se elaborassimo tali parametri etici da un punto di vista globale.

Abbiamo parlato dei soldati in guerra. Volevo chiederle qualcosa di più riguardo i soldati e i civili. Qual è la differenza nel colpire gli uni o gli altri? Specialmente perché ci sono alcune categorie che sono realmente nel mezzo. Abbiamo menzionato i regimi non-democratici, dove spesso le persone sono coscritte con la forza, non hanno una vera scelta. Ci sono poi gruppi terroristici palestinesi che dicono: ‘colpiamo i civili israeliani perché sono tutti coscritti’. Inoltre, ci sono soldati che non sono coinvolti attivamente nel conflitto, non sono al fronte, ma nelle retrovie. Come affrontiamo tale distinzione?

È immensamente complicato. E credo che il movimento revisionista della teoria della guerra giusta abbia aiutato nel mostrare esattamente quanto complicato sia ciò, almeno fino a un certo punto. Ma potrebbe essere anche più complicato di quanto riconosciuto dal revisionismo. Un modo di affrontare la questione è quello di considerare due facciate di essa, o due modi di provare a rispondere a tali domande; uno è un modo naturale o naturalistico, l’altro è convenzionalista. E credo che ci sia forse una sorta di terzo elemento intermedio, nel mezzo.

Ciò che intendo per modo naturalistico è il pensiero che forse non si tratti di chiedersi chi sia un combattente e chi meno, ma di chiedersi chi sia responsabile per il danno. Questa è la questione cui i revisionisti tentano di dare risposta. Che tu sia un combattente o no potrebbe influenzare il fatto che tu sia responsabile per il danno – spesso lo fa –, ma non è l’unico fattore che conti. In principio, a volte sono proprio i non combattenti che sono responsabili per il danno; e spesso sono i combattenti che non lo sono. Perché tutto dipende alla fine da qualcosa di simile a una responsabilità morale per il misfatto, o la responsabilità morale per l’ingiustizia. Se ciò che rende giusto farti del male è il fatto che tu stia facendo qualcosa di sbagliato o abbia commissionato qualcosa di sbagliato, allora qualche volta i civili potranno essere soggetti a un danno difensivo, un danno necessario per difendersi contro i misfatti che hanno commissionato. E qualche volta i combattenti non sono responsabili – spesso perché stanno combattendo contro un’ingiustizia, invece di contribuirvi.

E se, come suggerisci, qualche volta i soldati sono coscritti per combattere in delle guerre ingiuste e sono costretti a farlo, viene mentito loro, sono soggetti a propaganda, non sanno davvero ciò in cui sono coinvolti, sono costretti da forza maggiore, ecc., allora, il grado di responsabilità morale che detengono per queste malefatte è ridotto considerevolmente. Hanno delle scusanti per ciò che sta accadendo. Al contrario, forse qualche volta i civili non hanno scusanti, perché sono liberi di agire come ritengono. Queste sono possibilità ipotetiche, ma mostrano come se si cerca uno standard obiettivo, o uno standard naturale, per determinare chi sia e chi non sia un obiettivo appropriato per la violenza, ciò potrebbe non essere interamente determinato dal decidere chi sia un combattente e chi no. Molta dell’analisi revisionista ha spinto in questa direzione, provando a pensare quali siano le condizioni per la responsabilità o l’immunità.

Ci possono essere vari problemi nel seguire quella strada. Uno è che se seguissimo un’analisi oggettiva puramente morale di chi sia moralmente responsabile o no, nella nostra guerra giusta, potremmo anche considerare che l’altra parte starà pensando allo stesso modo di star combattendo una guerra giusta. E che loro intraprenderebbero la stessa strada, seguendo una sorta di versione fasulla della stessa regola. Così inizieremmo a uccidere i loro civili e loro inizierebbero a uccidere i nostri civili, e poi finiremmo in qualcosa di simile a una guerra totale.

E la guerra non può essere interrotta. Perché ognuno ha ragione!

Ognuno ha ragione. L’idea, credo, con la quale è associato Cicerone (e Arthur Ripstein ha mostrato come i kantiani avessero una visione simile) è che in qualsiasi modo tu combatta, non dovrebbe essere tale da escludere le possibilità di una pace. Non dovrebbe avvelenare il terreno sul quale dovresti essere capace, più avanti, di costruire la pace. E le guerre che abbandonano la discriminazione fra combattenti e non-combattenti hanno un’alta probabilità di farlo.

Questa è una direzione, l’analisi revisionista fondata sulla responsabilità morale per le minacce ingiuste. Se non fai così, devo fare in modo diverso. E potrebbe consistere nel seguire qualche sorta di regola empirica che puoi accordare con il tuo avversario e che sarà applicata al momento di decidere chi sia un obiettivo legittimo o meno. La convenzione in base alla quale potresti accordarti sarebbe la seguente: ‘nonostante qualcuno dei miei civili potrebbe essere visto come responsabile per alcuni aspetti del conflitto e penso lo stesso di alcuni dei tuoi civili, ci accorderemo, come fatto convenzionale, per trattarli come immuni. E nonostante io sappia che i tuoi soldati siano coscritti, e dunque potrebbero non sapere davvero ciò che stanno facendo, tu mi permetti (non tratterai come un crimine) di attaccarli, fintanto che a te è permesso di attaccare i miei’. Qualcosa del genere. Questo è un modo di comprendere come la legge funzioni, è più o meno un codice convenzionale di battaglia, piuttosto simile a un insieme di regole di un gioco.

Voglio però arrivare al terzo pensiero che stavo suggerendo, a metà tra la visione relativa a una responsabilità oggettiva naturale e l’approccio convenzionale. Il terzo pensiero riguarda la dimensione politica del problema. Assumiamo di essere d’accordo: ‘i tuoi soldati sono responsabili, i miei sono responsabili, nessuno dei nostri non combattenti sono responsabili’. Dunque, siamo d’accordo su un fatto che è in linea con il diritto internazionale. Ma dobbiamo riconoscere che chi sia o no un soldato (un combattente) non sia di per sé un fatto naturale, oggettivo: dobbiamo deciderlo. La mia società potrebbe averlo già fatto. Ma anche in quel caso, dobbiamo deciderlo ai fini di questa guerra, quali cittadini richiamare alla leva. In ogni conflitto c’è una decisione politica riguardo quanta della tua popolazione esporre, in combattimento, ai pericoli della guerra.

E dunque, con ciò, vi è un’altra domanda su quanto lontano posizionare i soldati dai civili. Per esempio, c’era un report di Amnesty che criticava l’Ucraina, recentemente, per aver condotto operazioni militari troppo vicino alle aree civili.  Ma c’è, in relazione a questo problema, una decisione morale e politica che lo Stato deve prendere. È una decisione che potrebbe prendere per deliberazione, fino a un certo punto, e attraverso procedure consensuali: è necessario decidere esattamente a quanto rischio la nostra popolazione è disposta a esporsi. Deve decidere, ad esempio, quanto precisamente differenziare tra i propri civili e combattenti, quanto rischio imporre sui propri combattenti, e, di conseguenza, quanto rimuoverne dai civili. Credo, in un certo grado, che ci sia un livello di agency di cui le comunità dispongono nel decidere come esporsi alla guerra. Una parte di questo deriva dalla domanda su quanto una causa sia importante per noi. Quanto disastroso sarebbe perdere, quanto benefico vincere, e a quanto rischio siamo personalmente disposti a esporci per assicurarci la vittoria?.

Si tratta anche di una questione democratica. Perché se continui con la guerra senza che le persone la vogliano, stai certamente andando incontro a un disastro, ma anche a una decisione non democratica.

C’è un problema morale lì, oltre a uno strategico, credo. Guardando a quanto ci viene riportato sull’Ucraina, sembra che l’Ucraina abbia beneficiato, in un certo grado, sia moralmente che strategicamente, di un supporto diffuso, un supporto democratico per la guerra. Al contrario, la Russia sta soffrendo, moralmente e strategicamente, a causa di un approccio più coercitivo verso i propri soldati. C’è un grado di supporto in termini di opinione pubblica generale, verso Putin, ma i report dell’intelligence suggeriscono che i soldati russi non siano al cento per cento allineati con la loro guerra, cosa che il comando russo richiede loro. Questo potrebbe essere dovuto al fatto che in molti casi non sanno per cosa stiano combattendo o sono stati ingannati circa le vere ragioni per cui sono lì. Ciò importa, eticamente, perché puoi giustificare il fatto di prendere decisioni strategiche che espongono alcuni dei tuoi cittadini a rischi, se questi cittadini hanno acconsentito a ciò. È più difficile farlo, però, se non hanno acconsentito. Qualche volta è impossibile farlo.

Lei ha scritto un paper molto affascinante sul ‘terrorista della bomba che ticchetta’, l’idea che dobbiamo compiere decisioni immediate, che spesso non risulta vera. E i terroristi sono attori davvero peculiari, perché conducono azioni violente, ma non sono soldati, non si muovono all’interno di un esercito. Sono da qualche parte nel mezzo, come cittadini politicamente attivati, in qualche modo. Come possiamo tenerne conto, quali obiettivi?

Dipende. Per rifletterci, dobbiamo pensare a ciò che intendiamo per terrorista. Di chi stiamo parlando? Il mio sentire è che il miglior quadro di ciò che dovremmo intendere con la parola ‘terrorista’ sarebbe focalizzato principalmente sui mezzi, piuttosto che sugli scopi. È il metodo, la tattica, è il tipo di violenza utilizzata, sono gli obiettivi, il modo di utilizzare quella violenza per raggiungere i tuoi scopi. Se questo è il modo giusto per concettualizzare il terrorismo, allora non dovremmo dare per scontato che il terrorista sarà sempre un cittadino che si sia semplicemente attivato politicamente. Qualche volta saranno i cittadini a compiere questi gesti, ma a volta saranno dei soldati in uniforme, comandati da dei governi. È possibile che i casi più importanti siano avvenuti durante la Seconda guerra mondiale e siano stati portati avanti dai bombardieri alleati in Germania e in Giappone. Ciò di cui stiamo parlando è l’attacco deliberato sui civili, sui non combattenti, molti dei quali, in qualsiasi analisi, devono essere visti come innocenti e immuni, finalizzato a fare leva, psicologicamente e politicamente, che possa influenzare il processo decisionale di un altro agente politico. Le due bombe atomiche furono direttamente, strategicamente finalizzate a influenzare il processo decisionale dell’alto comando giapponese.

Dunque, nell’analisi di cosa significhi ‘terrorismo’, non stiamo parlando solo la Rote Armee Fraktion, Hamas o Irgun, etc., parliamo anche dello Stato. E con ciò, rispondendo alla domanda su come dovremmo rispondere, la risposta varia in base al contesto, all’attore, agli scopi per i quali la violenza viene usata. Per esempio: nel 1941, qualora ci fosse un bombardiere alleato in volo sopra una città tedesca, diretto verso i civili, penseremmo che sarebbe meglio che quell’aereo venisse distrutto? Riterremmo moralmente giusto per la Luftwaffe o per l’artiglieria al suolo abbattere quell’aereo? Pensiamo che sarebbe una buona cosa? Non dirò quale sia la risposta, è una domanda complessa. Dei civili morirebbero, qualora potesse lanciare le sue bombe, ma in caso non lo facesse, magari ci sarebbero maggiori chance che la Germania riesca a invadere con successo la Gran Bretagna. Anche ciò porterebbe conseguenze terribili. Dunque, una domanda davvero difficile. Ed è una domanda che ci riporta all’etica dei conflitti, allo jus ad bellum, allo jus in bello, al rapporto tra legge e morale, e alle domande se sia moralmente giustificabile violare il diritto internazionale in circostanze estreme. Michael Walzer, uno dei filosofi più drammaticamente interessanti a tal riguardo, aveva questa sua idea dell’‘emergenza suprema’, capace di scusare misure come quella, in alcune circostanze.

Tornando ai cittadini attivati, credo sia molto più probabile che dei cittadini coinvolti in attività terroristiche, in senso stretto, si pongano in posizioni dalle quali sono passibili di un uso della forza contro di loro, allo scopo di difendere dei civili innocenti. Anche questo tipo di casi solleva domande difficili e dovrebbe essere approcciato con cautela. In una situazione ipotetica in cui il terrorista sia in un van e stia guidando verso un centro commerciale, con una cintura esplosiva allacciata, potremmo utilizzare un attacco via drone per fermarlo? Sembra piuttosto semplice. Come suggerito nel mio articolo – che tu hai gentilmente menzionato – sembra semplice, emotivamente e moralmente, quando rispondiamo all’ipotesi del terrorista con la bomba che ticchetta, dire che per salvare duecento persone innocenti dovremmo usare la forza necessaria contro il terrorista che li tiene ostaggi e che conosce la locazione della bomba. Possiamo sentirci spinti da quella storia. Ma sono solo storie, e sono storie molto curate, ma fittizie, tese a creare quella risposta. Dunque, credo che dovremmo essere molto attenti con loro. Credo che l’ipotesi del terrorista con la bomba che ticchetta, in tutte le sue forme, sia profondamente sospetta. Ha valore euristico in filosofia, ma poco o nessun valore nell’etica pratica. Il terrorismo comunque è una pratica che include azioni che sono moralmente complesse e, spesso, moralmente odiose.

Lei ha menzionato non solo la complessità, ma la natura intricata del pensiero etico, quando ci si presti davvero a trattare questi problemi in profondità. Pensando ad alcuni di questi esercizi in qui lei presenta dei dilemmi etici, per esempio, la prima cosa che mi viene in mente è la teoria dei giochi, in cui più sono gli attori, più le cose diventano drammaticamente complesse. Come affrontiamo questa complessità? Dovremmo solo cercare di intuire in maniera il più possibile precisa ciò che accade e agire di conseguenza, perché dobbiamo, oppure dovremmo arrivare a pensare che le cose siano più complesse di quanto possiamo capire o di come possiamo schematizzarle?

È molto interessante. Un modo di rispondere potrebbe consistere nel tornare all’inizio della nostra discussione, verso quelle idee scettiche, dove pensiamo che una guida morale all’azione o un giudizio morale siano irrilevanti. Forse c’è una terza versione di quel pensiero, la quale consiste nell’idea che le tipologie di contesto nelle quali potremmo voler avere una guida morale sono così complesse che delle istruzioni significative sarebbero impossibili: la morale non ti potrebbe dire cosa fare, nessun codice etico ti direbbe cosa fare, perché ci saranno troppe persone, con troppi scopi diversi che interagiscono tra loro in maniera imprevedibile. Dunque, per esempio, non puoi immaginare quanto responsabile moralmente sia un coscritto; in quale modo potresti mai portare avanti un giudizio al riguardo? Devi pensare agli scopi che stai perseguendo, ai mezzi che potrebbero essere adottati, e forse è tutto semplicemente troppo difficile, troppo complicato.

Al che, suppongo, la risposta del filosofo – e nei fatti anche del legislatore – potrebbe essere: ‘ecco perché abbiamo le leggi e le convenzioni. Proviamo a districare la complessità, in un modo pratico, attraverso l’adozione di regole. Dalla disperazione di pensare che sia tutto troppo complicato, forse possiamo semplificare in un modo convenzionale. Credo che ciò che vorrei dire riguardi due altre cose, però, che forse non sono discusse altrettanto spesso. Una ottiene più attenzione, l’altra di meno.

Una è che ciò di cui stiamo parlando è soprattutto una teoria dell’azione politica. Se torniamo agli scritti di Hannah Arendt sull’azione, lei giustamente enfatizza la rischiosità ineludibile dell’azione. Una volta che ti decidi ad agire, l’azione avrà ramificazioni e conseguenze che non avrai potuto anticipare. E ci saranno ignoti noti e ignoti ignoti – come detto da Rumsfeld[7]. Dunque, le cose sono complesse, possiamo solo sperare, come direbbe la Arendt, di capire almeno le conseguenze più immediate di ciò che ci apprestiamo a fare. Ciò è particolarmente vero quando iniziamo a fare uso della violenza, un elemento così instabile, volatile. Suppongo ciò significhi che dovremmo essere piuttosto sicuri di voler davvero agire, se decidiamo di farlo, ma si deve anche riconoscere che ci sarà un rischio, ci sarà incertezza, e dobbiamo cercare di esercitare giudizio in relazione a ciò.

Forse il punto è, quindi, quello di reintrodurre uno scetticismo più moderato, che ritiene che abbiamo bisogno di una guida nelle nostre azioni, che davvero abbiamo bisogno di pensare all’etica e alla morale, che davvero abbiamo bisogno di pensare alla legge, ma che non dovremmo aspettarci che queste cose ci dicano esattamente cosa fare, come un algoritmo. Ci saranno sempre dei rimasugli, degli imponderabili, tutta una serie di cose che andranno male, e che non ci aspettavamo. Occasionalmente, potrebbe addirittura succedere che qualcosa vada bene, anche se non ce lo aspettavamo, ma più spesso si tratterà di cose che vanno male in maniera imprevista.

Anche l’altro pensiero arriva da Arendt. Anche se queste riflessioni e queste cornici non ci dicono esattamente cosa fare o addirittura non ci dicono esattamente come giudicare gli altri, ci permettono almeno un grado di pensosità nella nostra risposta a una situazione. Di provare a riflettere sulle conseguenze di ciò che stiamo considerando di fare, di provare a empatizzare con – e forse di riflettere bene riguardo – i fini e i mezzi con i quali le altre persone stanno cercando di lavorare in quelle circostanze. Questo è uno dei pensieri che Arendt ha avuto in uno dei suoi libri più controversi, La banalità del male, il pensiero che l’origine, la spiegazione del male di Eichmann fosse il fatto che lui fosse completamente privo di pensiero[8]. Viene definito come un uomo che stava solo progettando i mezzi per portare a compimento degli obiettivi, che non avesse davvero riflettuto adeguatamente su di essi. Non stava davvero considerando la prospettiva degli altri, stava solo sviluppando e applicando strumenti senza pensarci, senza rifletterci.

Io credo che non vogliamo che l’etica ci tenti di fare di niente di simile. Non vogliamo che l’etica diventi una sorta di strumento che ci guidi, senza pensare, verso certe cose, come una lista di cose da fare che ci porta inesorabilmente a delle conclusioni, in maniera burocratica. Se la teoria etica ha un valore, soprattutto, è di permetterci, come cittadini, come attori coinvolti o come osservatori, di pensare più precisamente possibile, più empaticamente possibile, più umanamente possibile riguardo le varie possibilità. Ma dovremmo riconoscere che, facendo ciò, non arriveremo a raggiungere una determinata conclusione, il più delle volte, e che rimarrà sempre spazio per un pensiero coscienzioso e un giudizio attento.

Forse, ripensando alla crisi Covid, penso che ci manchi la speranza. E non si può davvero passare per un pensiero etico, se non si dispone di una speranza. C’è questa idea, quando si parla di nazisti, che il pensiero nazista fosse nichilista. Non sono totalmente d’accordo, o almeno dovremmo capire cosa intendiamo per ‘nichilismo’. Ma non ci può davvero essere spazio per l’etica, se non c’è speranza, se davvero si pensa che non si possa giocare alcun ruolo, che non ci sia spazio per un cambiamento. Crede che ci sia una relazione tra etica e speranza, da qualche punto di vista?

Mi fa pensare a qualcosa che ho letto durante l’estate, forse dice qualcosa al riguardo (nonostante creda che la tua domanda sia più grande della risposta che ti sto per dare. Credo che probabilmente sia vero, devo pensarci con più attenzione, che la riflessione etica si appoggia su di un certo grado di speranza). Stavo leggendo l’ultimo romanzo di Vasilij Grossman, il romanziere ucraino – credo che l’avremmo descritto, fino a poco fa, come un romanziere sovietico o russo, ma è precisamente dell’Ucraina. Il romanzo è intitolato Tutto scorre. Il suo protagonista, Ivan, finisce in prigione. È sottoposto a interrogatorio dalla polizia segreta e condivide la sua cella, una notte, con qualcuno che descrive come la persona più brillante e terrificante che abbia mai incontrato. Ciò che l’uomo gli presenta, la cosa che lo terrorizza di più, è questa idea che ci sia una quantità fissa di violenza, che non varia mai. E se c’è meno violenza qui, ce ne sarà di più lì. E sostiene che questa violenza sia semplicemente continua, inesorabile e perpetua. È simile a una fisica materialista e riduttiva della violenza.

L’eroe di Grossman trova questo pensiero il più terrificante, perché minaccia di derubarlo della speranza con la quale il romanzo si conclude. Nonostante il fatto che questo povero ragazzo ritorni, dopo trent’anni nei campi, alle città e al villaggio dov’è cresciuto, questi non assomigliano più ai posti nei quali sono vissuti, ma trova una speranza, perché pensa che per quanto si possa schiacciare la libertà umana – e per quanto si possa infliggere violenza sulle persone per un periodo di tempo – questa ha una tendenza a ritornare su di nuovo. Non puoi veramente estinguerla perché è una possibilità umana e continua a tornare.

E penso, implicitamente, che, in dialogo con questa visione pessimistica, la visione speranzosa sia che la violenza può essere diminuita, e può essere diminuita in maniera sostenuta. Violenza e libertà, in Grossman, sono antinomiche: più la prima è presente, meno ce n’è dell’altra. Ciò a cui questo pensiero permette di dare sollievo è un credo che dà sostegno alla teoria della guerra giusta o a qualsiasi tipo di etica della guerra: il pensiero che si possa diminuire la violenza, nel tempo. O che se non la si possa diminuire, almeno che si possa prevenire il suo aumento. Se si credesse che sia una costante, se si creda che la violenza finisca per diminuire qui, in una guerra difensiva, solo per spuntare lì, allora, almeno da un punto di vista globale, non vi sarebbe alcuna giustificazione morale per la violenza, no davvero. La tua violenza non cambierebbe nulla.

Come una sorta di opposizione alla visione pessimistica di Grossman, possiamo usare questo termine che Sheldon Wolin ha utilizzato, nel tentativo di caratterizzare – e in un certo senso difendere – la filosofia politica di Machiavelli: il termine è ‘economia della violenza’. Si tratta dell’idea che il principe debba conoscere se, quando e in che quantità utilizzare la violenza, al fine di garantire che la quantità di violenza esperita da tutti diminuisca nel tempo. Se non utilizzasse la violenza, ogni tanto, altre persone lo farebbero, si sentirebbero incoraggiate nel farlo, e la utilizzerebbero sempre di più, dando vita a conflitti, signori della guerra, oppressione, e così via. La responsabilità del principe è quella di utilizzare un quantitativo di violenza giudizioso, quasi chirurgico, nel breve periodo, così da garantire che vi sia meno violenza sul lungo.

Credo che ciò incapsuli ciò cui una gran parte del pensiero contemporaneo sulla guerra giusta sia devoto, l’idea che un’applicazione della violenza giudiziosa, discriminata e proporzionale ora, in Ucraina, o in Siria o dovunque possa essere, possa essere necessario allo scopo di garantire che la violenza non aumenti nel tempo e che addirittura diminuisca. Se non si credesse che ciò sia vero, perché mai aggiungere violenza? Perché compiere tu stesso ulteriore violenza?

Dunque, in un senso crudo, pratico, materiale e strategico, l’etica della guerra giusta è devota a qualche speranza, una speranza che si possa diminuire la violenza nel tempo. Ma l’obiettivo davvero peculiare dei teorici della guerra giusta è che i mezzi per ridurre la violenza nel tempo siano quelli di incrementare la violenza ora.

Spesso parliamo delle scelte morali compiute dai leader, o dall’esercito, o dagli uomini e dalle donne al potere. Ciononostante, la maggior parte delle persone coinvolte nel conflitto o che ne sono testimoni, oggi, e cercano di elaborare un proprio giudizio morale sulla guerra, non ha potere. Siamo persone comuni, fondamentalmente. In cosa ci aiuta il pensiero etico, come attori esterni, dal suo punto di vista?

Suppongo che coloro che non sono coinvolti nel conflitto non dovrebbero mai dimenticare davvero che se ne potrebbero ritrovare in uno. Non dovrebbero questo per scontato il fatto di godere di uno stato di pace e sicurezza. Credo che dobbiamo riconoscere ed essere profondamente consapevoli delle cose che ci proteggono dalla violenza. E queste includono cose come il fatto di avere – o di sperare di avere – una democrazia, il fatto di avere delle libertà che ci prevengono dall’essere oggetto di dominazione da parte di altre persone. La distanza tra quelli di noi che vivono lontani dalla guerra e gli ucraini non è definita interamente dalla presenza di un vicino violento e aggressivo. È definita anche dall’esistenza di istituzioni che prevengono quel tipo di violenza all’interno dello Stato. Non dovremmo vedere la filosofia politica e le sue preoccupazioni circa le fondamenta della democrazia, della libertà e dell’uguaglianza come radicalmente distinti dal pensiero sull’etica della guerra. Perché entrambi riguardano in maniera cruciale la questione riguardo ciò che riteniamo di valore, riguardo il peso che diamo a certi valori. Nel caso della guerra, si tratta della domanda, cruda ma inevitabile, su quanto valgano i valori come la libertà, la dignità e il pluralismo: valgono abbastanza da morire per loro – ancora più difficile – valgono abbastanza da uccidere? Vale la pena di combattere per essi? La moralità di tutto questo è molto difficile, è qui che l’etica entra in gioco.

Per coloro che non sono coinvolti nel conflitto, c’è un reminder che questi valori non esistono solamente sugli scritti nei testi politici o nello scriverli sui muri di scuola, o nell’eseguire l’azione di votare periodicamente. Queste istituzioni che gli ucraini sono costretti a difendere possono essere anche usurpate e distrutte da altri fattori che vengono da dentro. Timothy Snyder è molto bravo in questo. Ha scritto della relazione tra questa recente aggressione internazionale da parte della Russia e l’atrofia e il deterioramento delle istituzioni politiche, della partecipazione civica o del dibattito pubblico nel paese.

Inoltre, il conflitto ucraino è un grande reminder, perché quando vediamo gli ucraini, vediamo persone che sono spesso come noi. Quest’idea ci aiuta a connetterci, in qualche modo.

Lo fa. Uno Stato del quale non sei particolarmente cosciente, che non era nei pensieri di qualcuno, potrebbe arrivare a essere nei tuoi pensieri, se c’è una guerra. Non è molto consolatorio, ma almeno c’è questa sorta di espansione di coscienza ed empatia negli altri Stati. È una buona cosa, il fatto che riconosciamo la nostra connessione, forse, con questi Stati. Ma ovviamente, nel caso ucraino, ci sono state molte controversie, nelle prime settimane, con alcune proposizioni da parte di politici e di altri, che suggerivano come gli europei sentano in profondità questo caso solo perché vedono sotto attacco delle persone con le quali possono identificarsi. Ciò implica che le persone non si identificavano con altri paesi colpiti da conflitti, come la Siria. Ma dovremmo certamente identificarci con le persone che soffrono in entrambi i contesti.

Può essere una leva, però. Il fatto di vedere loro come simili ci può aiutare a vedere gli altri, forse.

Se, in qualsiasi senso, la guerra si sta avvicinando agli Stati europei, in qualche modo potrebbe essere un sintomo del fallimento nell’identificarci con alcuni Stati, di riconoscerne le sofferenze e l’importanza politica. Stati percepiti, in certo senso, come più remoti dall’Europa. Credo che il fallimento dell’azione occidentale in Siria abbia probabilmente avuto un grande ruolo nell’incoraggiare Putin e possa avere qualcosa a che fare con ciò che stiamo vedendo ora in Ucraina. Se c’è una maggiore empatia nell’Occidente, ora, con verso gli Ucraini, rispetto alla Siria, è un sintomo di qualcosa che forse ha contribuito a quella situazione.

È molto difficile per un attore esterno vedere attraverso i dilemmi che vivono. Una cosa che mi veniva in mente, rileggendo i suoi materiali, era la teoria riguardante le ragionevoli possibilità di successo, l’idea ciò che sia necessario poter predire il proprio successo per rischiare di combattere, e il relativo dilemma. Si tratta veramente di un dilemma drammatico, mentre per noi è una sorta di decisione che immaginiamo di fare, ma che non sta veramente a noi fare, a volte. Sembra così, almeno. Diciamo: ‘bene, dovrebbero star combattendo per la loro libertà’, ma non siamo noi ad avere il fucile puntato contro.

Il problema delle condizioni di successo e della futilità sono stato un elemento veramente massiccio nella riflessione sulla guerra in Ucraina, in febbraio e almeno per un paio di settimane. Ha sollevato un dilemma, nella teoria della guerra giusta, che è stato con noi per un po’ di tempo. Da una parte, l’intuizione che combattere una guerra che non abbia chance di successo sia certamente una cosa terribile, perché le persone morirebbero senza uno scopo raggiungibile, quindi, sembra che ci debba essere una chance di successo, prima di combattere. Molte persone pensarono che gli ucraini semplicemente non avessero quella possibilità. Ma, dall’altra parte, c’è il principio di appeasement, come lo definisce Michael Walzer. Si tratta di un pensiero profondamente odioso, l’idea che chiunque sia attaccato da uno Stato veramente potente sia moralmente obbligato a non opporre resistenza, perché sarebbe futile. Dona capacità morale agli Stati veramente potenti e depriva quelli più deboli e piccoli di diritti. Ciò sembra inaccettabile.

Per arrivare al tuo punto riguardo il fatto di prendere decisioni per altri, è uno di quei casi in cui credo il consenso in Ucraina fosse estremamente importante. Il fatto che ci fosse un supporto diffuso e una volontà di ingaggiarsi nella resistenza è stato un forte segnale. Ma, di nuovo, si tratta di uno di quei casi in cui l’incertezza arriva, è necessario giudizio e ci sono rischi. E si tratta di uno dei casi molto rari in cui il rischio è che le cose vadano meglio di quanto pensato. Perché, sorprendendo molti, i russi hanno incasinato l’avanzata verso l’Ucraina così tanto che si sono ritirati presto. Finora, almeno, il conflitto non è andato come tutti prevedevano.

Abbiamo parlato del passato e del presente, ma volevo porle alcune domande finali riguardo il futuro. Intanto, abbiamo parlato dello sviluppo dello studio etico della guerra. Volevo sapere dove pensa che tale studio sia diretto.

Forse dovremmo parlare di tre argomenti, qui. Uno è quello dei conflitti irregolari. Il secondo riguarda ciò che chiamiamo ‘la forza senza la guerra’[9]. Il terzo riguarda la guerra cibernetica e questa sorta di diversificazione negli strumenti coercitivi e distruttivi.

Una cosa di cui molte persone che scrivono di guerra, generalmente e dal punto di vista dell’etica, hanno tendenzialmente fatto negli ultimi venti, trent’anni è che il vecchio paradigma della guerra tra Stati si è deteriorato e che c’è spazio per vedere più guerre irregolari, asimmetriche.

Perciò, l’etica di guerra non dovrebbe essere costruita sul conflitto tradizionale che potremmo aver visto nel XVIII secolo, con l’esercito vestito di rosso che combatte contro l’esercito vestito di blu, e dove tutti possono vedere tutti. Non sono totalmente certo di quanto ciò sia vero. Si tratta di una visione in qualche modo cieca riguardo l’aspetto che il conflitto aveva prima, se si immagina che fosse sempre così ben regolato e formale. Ovviamente, le guerre asimmetriche contro le popolazioni coloniali erano molto diffuse. Ciononostante, c’è stato molto lavoro nei decenni passati – dove prima non ve n’era – sui conflitti asimmetrici e su di un coinvolgimento da parte di attori non statali che potrebbe essere giustificato. Questa è un’area.

Una seconda area costituisce il rovescio della medaglia della prima e ci riporta a quanto detto prima sul terrorismo. C’è una domanda riguardo come dovremmo pensare riguardo pratiche come l’uso dei droni e di simili tecnologie, quando funzionali alle uccisioni mirate[10]. Una risposta potrebbe essere quella di condannarlo, rigettarlo e dimenticarlo, eticamente parlando. Ma come per molte forme di violenza, c’è più che il sospetto che occasionalmente vi potrebbe essere una giustificazione per il suo impiego, che vi potrebbero essere circostanze in cui gli Stati potrebbero dover usare dei mezzi limitati di violenza, per gli scopi che vanno oltre la normale attività di polizia all’interno dello Stato. C’è un libro davvero bello, pubblicato l’anno scorso da Daniel Brunstetter su quest’idea di forza senza la guerra. È un termine che Walzer ha introdotto per primo per riflettere riguardo ciò che era successo in Iraq prima dell’invasione del 2003. Usava questa frase per riferirsi alle misure armate che possono avere effetti molto benefici nel proteggere i diritti umani, ma che non arrivano a un livello tale da coinvolgerci in una guerra vera e propria. Ma non si tratta, chiaramente, di semplici attività di polizia. Sono fuori dal proprio Stato e includono l’uso di mezzi da guerra e di missili, forse anche forze speciali, e così via.

Questa è un’altra area. Non ero necessariamente persuaso, prima di leggerlo, del fatto che avessimo bisogno di un diverso quadro di riferimento per cose come la forza senza la guerra, ma di fatto credo che Brunstetter argomenti bene la propria posizione. Ci sono questi casi limite in cui gli Stati potrebbero essere costretti a usare la forza, ma è pericoloso tentare di assimilarli nelle norme di polizia che governano l’attività delle forze dell’ordine sul fronte domestico. Perché non vuoi che la polizia faccia queste cose nel dare la caccia ai criminali ordinari. Dall’altra parte, è pericoloso anche vedere questo come un’escalation inevitabile verso la guerra.

Infine, la terza area, immagino, ci riporta alla Russia, ma anche verso altri Stati e attori non-statali, e si tratta di nuovo qualcosa di simile a una zona limite tra pace e guerra. Apparentemente, gli attacchi cibernetici spesso hanno un aspetto molto diverso da l’uso della forza militare ‘cinetica’. Ma se uno Stato sta montando un attacco cibernetico contro infrastrutture nella sanità, o contro il governo, o contro i principali giornali, etc., forse buttarli giù con un attacco DDOS o simili, questi attacchi possono avere un aspetto bellico. Per esempio, a volte colpiscono direttamente le cose di cui abbiamo bisogno per rimanere vivi. Se butti giù un ospedale, questo potrebbe portare a delle morti. Se butti giù il controllo del traffico aereo in una specifica area, ci potrebbero essere degli incidenti. Ci sono stati casi effettivi di contaminanti rilasciati nell’acqua potabile negli USA, attraverso un attacco cibernetico. Questo tipo di cose scivolano verso qualcosa che assomiglia a ciò che chiamiamo ‘violenza cinetica’, piuttosto che ‘violenza cibernetica’. Ma anche se distruggessi ogni cosa sul tuo computer per mezzo di un attacco cibernetico, senza farti fisicamente del male, ti danneggerei molto. Il risultato sarebbe molto simile a quello di aver fuoco l’ufficio di qualcuno, cinquant’anni fa. Distruggere i dati è molto simile alla violenza fisica. Questo introduce un grado di complessità, credo.

In un certo modo, sembra più complesso quando avviene durante una guerra. Come quando i russi e altri fanno un uso diffuso di attacchi cibernetici sugli apparati difensivi degli avversari, mentre li attaccano fisicamente. Questo complica la guerra, perché ora abbiamo sia attacchi da guerra cinetica, sia azioni da guerra cibernetica. Ma le cose sono ancora più complicate quando si utilizza la guerra cibernetica, ma senza usare aeroplani. Come si risponde a questo? Dovremmo trattarlo come violenza o no? Come guerra o no? E ci sono altri aspetti correlati, quali le interferenze nelle elezioni, nei referendum (nella Brexit, nell’elezione di Trump, per esempio), attraverso i social media, attraverso i bot, etc. Queste sono dannose, direttamente, per la cultura politica, per le istituzioni politiche, in un modo che non è totalmente diverso dagli effetti che avrebbe l’invasione di un paese e il rovesciamento delle sue istituzioni. Non è lo stesso che invadere il paese, ma di fatto stai rovesciandone le istituzioni, o le stai deteriorando.

Un atto non violento, ma ostile.

Sì, esattamente. Ho scritto un pezzo, nel 2018, in una rivista chiamata “Philosophy & Technology”, nel quale sostenevo che molti di questi attacchi di fatto sono violenti, non solo simili a violenza. Alcuni attacchi cibernetici coincidono con ciò che definisco violenza. È solo che sono condotti con mezzi diversi o contro obiettivi diversi. Ma molti di questi casi, come hai detto, rientrare nella categoria di ‘violenza’, tuttavia saranno ostili. Dunque, è molto più difficile capire come categorizzarli. E credo che ciò significhi che il limite tra ostilità e inimicizia è divenuto più confuso, in molti modi. O almeno sembra così. Forse sto mancando di riconoscere i precedenti storici di interferenze elettorali di altro tipo, ma sembra che la gamma di strumenti disponibili per gli Stati che vogliano cambiare l’ordine internazionale si sia espansa considerevolmente.

Dunque, credo che queste siano tre aree sulle quali riflettere. In realtà, credo ne esista una quarta. Molti studiosi di etica si stanno interessando all’intelligenza artificiale, per esempio, quando è impiegata nei cosiddetti ‘robot killer’ e veicoli senza pilota che prendono le proprie decisioni.

Un’ultima domanda. Abbiamo parlato del futuro dello studio etico della guerra. Ma c’è anche un altro futuro, per così dire, nella vita reale. C’era un articolo molto interessante di Giacometti riguardo le ‘tribù del collasso’, in cui sosteneva che ci stiamo dirigendo verso un futuro che potrebbe facilmente andare in una direzione fatta di individui isolati, che si preparano per ciò che sta arrivando col cambiamento climatico, ma non sono capaci di costruire comunità, come sarebbe necessario. Credi, in questo senso, che una nuova centralità dell’etica – o addirittura una nuova etica – sia possibile o desiderabile, in un certo senso?

Sì. Quando insegno usando questi materiali e uso delle definizioni, nelle mie slide, di diversi anni fa, sono sempre più incline a pensare che, visto il punto in cui siamo, definire come violenza solo cose che riguardano gli umani, in qualche modo sembra andare nella direzione sbagliata. Le definizioni della violenza sono molto antropocentriche nel loro focus morale, nelle loro preoccupazioni morali. Perché dovrebbe essere focalizzata solo sugli umani, e non altri animali? Poi, certamente, la nostra sfera di attenzione dovrebbe espandersi ed espandersi, una volta che iniziamo a pensare al cambiamento climatico e all’ambiente. C’è un libro brillante intitolato Naming violence, di Mathias Thaler, che consiglio certamente, che considera questo problema. Utilizza l’idea del ‘cambiamento di aspetto’[11], per afferrare il modo in cui possiamo imparare a vedere le cose in una nuova maniera, sfidando gli assunti interni al modo in cui utilizziamo il termine ‘violenza’. Le involontarie ma prevedibili conseguenze delle azioni su larga scala, come il cambiamento climatico, hanno una importanza morale che va ben oltre molto di ciò che identifichiamo come violenza. Ciononostante, le trattiamo come se non lo fossero. Dunque, ha ragione, credo, nello sfidarci al riguardo. E ha appena pubblicato un nuovo libro, No other planet. Riguarda proprio la possibilità di reimmaginare le cose.

Intervista a cura di Francesco Finucci


[1] “Just war” (NdT).

[2] “Fog of war” (NdT).

[3] Qui lasciato in inglese, in assenza di un termine italiano appropriato (NdT).

[4] “Action guidance” (NdT).

[5] “Doctrine of moral equality” (NdT).

[6] In assenza di un termine appropriato, si è utilizzato “contrattario”, quale opposto di “contrattualista”. V. voce Contractarianism, in Stanford Encyclopedia of Philosophy, link: https://plato.stanford.edu/entries/contractarianism/ [ultima consultazione 19/09/2022].

[7] Si tratta del famoso discorso sui “known unknowns” e sugli “unknown unknowns” (NdT).

[8] “Thoughtless”. Qui si è preferito scrivere “privo di pensiero”, invece di “senza pensiero”, per rimando all’idea che la mente diventi una sorta di scatola vuota, inanimata, e non semplicemente a una “leggerezza d’animo” e a una malriposta serenità (NdT).

[9] “Force short of war” (NdT).

[10] “Targeted killing” (NdT).

[11] “Aspect change” (NdT).

 

 

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Michela Mercuri insegna Geopolitica del Medio Oriente all’Università Niccolò Cusano. Ha insegnato Storia contemporanea dei paesi mediterranei all’Università di Macerata dal 2006 al 2019, e in vari master. È inoltre ricercatrice dell’Osservatorio sul fondamentalismo e...