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Nel corso della storia le crisi economiche sono cambiate radicalmente. Le crisi dell’età contemporanea, infatti, si configurano nella stragrande maggioranza dei casi come crisi di sovrapproduzione. La caratteristica principale di questo tipo di crisi economica è uno squilibrio tra domanda e offerta dal lato dell’offerta; in altre parole, si ha una crisi di sovrapproduzione quando si produce di più di quanto il mercato possa riuscire ad assorbire. La crisi del 1929[1], ad esempio, si è configurata come una crisi di sovrapproduzione. Anche un’altra grande crisi dell’età contemporanea, la cosiddetta lunga depressione che colpì il mondo occidentale tra il 1873 e gli anni Novanta del XIX secolo, ebbe tutte le caratteristiche della crisi di sovrapproduzione. Partita da un crollo dei mercati finanziari di Vienna, Berlino e New York, ebbe come causa principale il crollo dei prezzi dovuto a un’eccessiva produzione sia dei beni agricoli che di quelli industriali. Il crollo dei prezzi portò al fallimento di aziende, alla rovina dei contadini (soprattutto europei, che non potevano competere con il prezzo molto basso del grano statunitense) e a una maggiore disoccupazione[2].
Prima dell’industrializzazione, lungo tutto il Medioevo, ciò non avvenne mai. Anzi, la crisi economica tipica dell’età preindustriale era la carestia, che aveva caratteristiche opposte: non era l’eccesso di offerta ma la sua scarsezza a provocare la crisi.
Di carestie nel corso della storia ce ne furono diverse, alcune anche in tempi piuttosto recenti. Una particolarmente grave, tanto da meritarsi il nome di Grande carestia, fu quella che colpì l’intera Europa, e in particolar modo l’Europa nordoccidentale, isole britanniche comprese, tra il 1315 e il 1317, aprendo un periodo di crisi nel Vecchio Continente che sarebbe durato fino a ben oltre la metà del XIV secolo, anche a causa della grave epidemia di peste del 1348. Prima di entrare nel dettaglio della Grande carestia, occorre però dedicare un po’ di spazio alla definizione di cosa sia una carestia, e alle modalità con cui essa si manifesta.
Cos’è una carestia
La carestia è “la mancanza o grave scarsità di derrate alimentari, dovuta a cause naturali o a guerre, rivoluzioni, cicli economici”. Così almeno essa è definita nel Dizionario di Storia dell’enciclopedia Treccani. Nell’uso che ne ha fatto la storia economica, invece, la parola carestia è ambivalente, perché con essa si indicano due situazioni diverse. Per carestia, infatti, si sono intese sia la scarsità o la totale assenza di beni alimentari[3], sia le situazioni in cui il prezzo del cibo era molto alto[4]. Anzi, nelle fonti medievali è proprio la seconda accezione quella più presente, essendo usata la parola caristia per indicare i casi in cui il prezzo era carus[5].
Detto ciò, se è vero che la società preindustriale era molto legata alla variabilità delle condizioni della natura[6], una situazione di prezzi alti doveva avere anche delle cause umane, economiche o politiche che fossero[7]. Anzi, spesso la salita del costo di beni alimentari “si rivela[va] uno strumento utile per allungare la durata della presenza dei beni dell’alimentazione sul mercato”[8], impedendone l’esaurimento in una situazione di relativa scarsità. Certo, con il cibo che costava di più ci dovevano essere delle ripercussioni sulla società e sul resto dell’economia: da un lato, infatti, la fascia più povera della popolazione restava esclusa dal mercato, dall’altro la spesa in beni alimentari era destinata a occupare una quota più alta del reddito del resto delle persone, facendo calare la domanda degli altri beni ed estendendo la crisi agli altri settori dell’economia[9].
D’altra parte, non erano molti gli anticorpi che la società medievale poteva opporre a una carestia abbastanza grave. Dall’XI secolo in poi il commerciò subì un importante sviluppo[10]: in teoria se in una determinata zona il prezzo dei beni alimentari levitava a causa della loro scarsità, questi potevano essere importati[11]. Tale meccanismo, però, poteva entrare in funzione solo in caso di carestia locale e non generalizzata, come dimostrato in occasione della Grande carestia. Inoltre, anche la commercializzazione stessa dei beni seguiva i prezzi: si esportava cercando il profitto, con conseguente aumento della pressione sugli stessi prezzi[12]. L’altro grande problema, che rendeva la società medievale particolarmente soggetta al rischio di carestia era la poca variabilità del regime alimentare: circa l’80% del fabbisogno calorico della popolazione era coperto da prodotti cerealicoli[13], la cui scarsità faceva schizzare in alto il livello dei loro prezzi per l’assenza di beni sostitutivi in grado di intercettare la domanda[14].
La Grande carestia del 1315-17 presentò tutte queste caratteristiche: scarsezza di beni alimentari – a prezzi molto alti –, assenza di meccanismi in grado di limitarne la portata e, infine, incapacità da parte dei sovrani di intervenire in modo efficace.
Le cause della Grande carestia
Come visto, una carestia ha solitamente cause sia naturali che politiche ed economiche. La Grande carestia del 1315 non fa eccezione. La sua causa principale in questo caso è legata al clima, dal quale, nelle società preindustriali, dipendeva in larga parte l’agricoltura[15]. Dal IX secolo circa era iniziato in Europa un periodo particolarmente caldo, con temperature sopra la media, che consentì uno sviluppo dell’agricoltura anche in zone particolarmente difficili: l’Islanda era coltivata[16] e nella parte meridionale della Groenlandia cresceva l’erba, come dimostra lo stesso nome che Erik il Rosso scelse per quella terra: in danese, infatti, Groenlandia vuol dire proprio terra verde[17]. C’è di più: in Inghilterra si coltivava la vite, e in generale si riusciva a coltivare anche a un’altitudine maggiore ai 1000 metri sul livello del mare[18]. Alla fine del Duecento, questo periodo, detto dell’optimum climatico medievale, lasciò il posto alla cosiddetta piccola era glaciale. Le temperature cominciarono a scendere, i ghiacci riconquistarono terreno nel Nord Europa e sulle montagne[19], gli inverni si fecero più lunghi anche di due o tre mesi[20].
Non solo il freddo, però. Ad aggravare ulteriormente la situazione sopravvennero le piogge, che aumentarono molto soprattutto in Europa occidentale[21]. Nel secondo decennio del Trecento ci furono degli anni senza estate[22], in cui la pioggia cadeva di continuo, giorno dopo giorno, senza mai fermarsi dalla primavera sino all’autunno inoltrato[23]; nel 1315, secondo le cronache, la pioggia cominciò l’11 maggio e di fatto non si fermò più fino all’inverno, causando anche numerosissime alluvioni[24]. In una situazione del genere avere dei buoni raccolti era impossibile, non solo perché la troppa pioggia impediva alle colture di crescere e scopriva i semi dal terreno trascinandoli via, ma anche perché era complicato per i contadini lavorare i campi – ad esempio era praticamente impossibile usare l’aratro, dato il terreno fangoso[25] – e le rese dei cereali crollarono[26]. Anche le produzioni di sale[27] e di vino in Francia furono messe a dura prova dall’eccessiva piovosità di quegli anni[28].
Se il freddo e le piogge furono la causa principale della Grande carestia, a questa contribuirono anche altri fattori. L’Europa si presentava alla fine del Duecento avendo vissuto tre secoli di crescita continua, sia economica che demografica – si era passati dai più di 38 milioni di abitanti di inizio XI secolo[29] ai circa 73 milioni di inizio Trecento[30] – ma erano già evidenti dei “segnali di esaurimento”[31]. In particolare, si notava un sempre maggiore squilibrio tra il fabbisogno alimentare della popolazione in crescita e l’effettiva capacità produttiva della società medievale[32], ma anche uno squilibrio tra la popolazione urbana, che era aumentata, e quella rurale[33]. I terreni, inoltre, garantivano una resa sempre minore perché esausti, e il maggese non riusciva a ripristinare a sufficienza la produttività del suolo[34]. Infine, era impossibile allargare ulteriormente le coltivazioni. Se nei secoli precedenti lavori di bonifica e disboscamento avevano offerto all’agricoltura zone sino ad allora incolte[35], proprio di questi lavori, anche a causa dell’aumento delle piogge, se ne cominciava a pagare il prezzo, con il dilavamento delle superfici collinari e di montagna e l’aumento delle alluvioni[36]. Questi problemi davano i primi segnali a fine XIII secolo con carestie e crisi economiche ancora limitate territorialmente[37], ma prodromiche di quello che sarebbe avvenuto negli anni Dieci del Trecento.
Ad aggravare ulteriormente le conseguenze della Grande carestia furono le guerre. Nel periodo in esame l’Inghilterra era in guerra con la Scozia[38], mentre la Francia lo era con le Fiandre. Il passaggio degli eserciti e la necessità da parte dei sovrani di sostentarli aggravarono la situazione delle popolazioni, e quando arrivarono le epidemie, gli spostamenti degli eserciti furono un non trascurabile veicolo di diffusione degli agenti patogeni[39].
Ovviamente nel Medioevo in pochi – forse – avevano coscienza di tutto ciò. La maggior parte della popolazione si spiegava la carestia in due altri possibili modi: la posizione degli astri, o il castigo di Dio per punire la malvagità umana[40]. Non sembrava dunque un caso che nel 1314 fosse comparsa una cometa – annunciatrice di novità solitamente negative nella credenza popolare[41] – visto che nel 1315 cominciò una delle più gravi carestie della storia europea.
La Grande carestia
La Grande carestia è stata una delle tragedie più gravi che ha colpito l’Europa medievale, probabilmente la più grave tra la peste di Giustiniano del VI secolo e la peste nera del 1348[42], oltre che probabilmente la più grave crisi economica del Medioevo. La gravità è dimostrata anche dalla sua estensione territoriale: “from the Pyrenees to Slavic regions, from Scotland to Italy”[43] praticamente tutta l’Europa ha sofferto a causa dei cattivi raccolti tra il 1315 e il 1317, con pochissime eccezioni. Con il fallimento del raccolto del 1315 il prezzo del grano schizzò in alto, escludendo una larga parte della popolazione dal mercato, e dimostrando il fallimento del mercato stesso: se a inizio 1315 in Inghilterra il grano costava 8 scellini, nei due anni successivi si toccarono, in alcune regioni, punte di 20 o addirittura 40 scellini[44]. Oltre a quelli del grano, molto negativa fu la raccolta degli altri cereali, come orzo e avena, cui seguì un importante aumento dei loro prezzi[45]. Ma non finisce qui: a dimostrazione di quanto la carestia non riguardasse solo il settore della coltura dei cereali ma fosse una crisi economica a tutto tondo, uova e carne subirono aumenti di prezzo, così come il sale[46], la cui produzione, come detto, fu messa in seria difficoltà dalle forti piogge. I prezzi così alti, peraltro, fecero perdere la fiducia nelle transazioni economiche e gli scambi si concentrarono solo tra persone che si conoscevano e che nutrivano fiducia l’una nell’altra, contribuendo ad aggravare dunque la crisi[47].
Le cronache e le fonti ci descrivono gli anni in questione con scenari apocalittici: alcune descrivono le strade di Londra piene di corpi emaciati in fin di vita, letteralmente morti di fame[48]. La disperazione portava a mangiare cani, gatti, carcasse di animali, erba[49]; sono presenti anche storie di cannibalismo, di persone che mangiavano i corpi senza vita dei loro parenti e conoscenti, o di prigionieri che mangiavano i loro compagni di cella[50]. Sugli atti di cannibalismo, in realtà, non c’è accordo tra gli storici: alcuni li considerano come effettivamente avvenuti, altri hanno messo in dubbio la veridicità delle cronache, volutamente esagerate per dare l’idea della gravità della situazione[51] (ma anche confermando questa tesi, ci fa ben capire come la carestia sia stata vissuta dai contemporanei). La mancanza di grano, comunque, è ben testimoniata anche dal comportamento dei fornai di Parigi, che pur di sfornare pane, usavano per l’impasto qualsiasi cosa: alcuni furono sorpresi a impastare il pane con gli scarti del vino o con escrementi di animali e puniti con l’espulsione dal regno[52].
Come è facile intuire, per via dei prezzi alti del cibo, furono i più poveri i maggiormente colpiti dalla carestia[53], soprattutto nelle città[54]. Conseguenza diretta fu l’aumento della criminalità: si stima, in alcune zone dell’Inghilterra, anche del 200 per cento[55]. Soprattutto i furti crebbero in modo considerevole: si rubava principalmente cibo, ma anche vestiti o attrezzi, nel tentativo di rimediare qualcosa per sopravvivere[56].
La gravità della Grande carestia non fu mitigata da quello che oggi sarebbe chiamato welfare state. Tutti i sovrani dei Paesi colpiti si comportarono più o meno allo stesso modo, ma l’efficacia dei loro provvedimenti fu quasi nulla. In questo senso è stata paradigmatica l’azione di Edoardo II, re d’Inghilterra. Egli prese una serie di provvedimenti del tutto inefficaci. Un calmiere sui prezzi dei beni alimentari del 1315 – solo in parte dovuto alla carestia, perché tentava di porre rimedio anche a un’inflazione di lunga data dovuta probabilmente a un’eccessiva circolazione di moneta[57] – venne ritirato già a inizio 1316 perché ai prezzi fissati, molto più bassi rispetto a quelli di mercato, nessun produttore di prodotti agricoli era disposto a vendere[58]. Nel 1316 Edoardo II tentò anche la via della moral suasion: inviò una lettera a tutti i vescovi del Regno in cui affermava che era molto il grano nei magazzini dei produttori che non veniva venduto in attesa di un ulteriore rialzo dei prezzi, e dunque esortava i vescovi a usare tutte le risorse a loro disposizione per fare in modo che questo grano potesse essere immesso nel mercato. L’iniziativa non sortì effetti pratici rilevanti[59].
Le uniche iniziative del re inglese che ebbero probabilmente dei limitati effetti positivi furono il divieto di esportazione dei beni alimentari[60], gli incentivi ad aumentare le importazioni di tali beni e l’incoraggiamento al commercio interno, nella speranza (in fin dei conti vana) che le zone meno colpite dalla carestia potessero rifornire almeno in parte le regioni più in difficoltà[61]. In tutto ciò Edoardo II continuò la guerra con la Scozia, non solo sottraendo importanti quantità di cibo alla popolazione per consentire il rifornimento dell’esercito[62], ma anche mantenendo una tassazione particolarmente elevata per finanziare il conflitto[63]. Di fatto, la maggior parte dei sovrani europei adottò gli stessi provvedimenti che prese Edoardo II[64], inadatti a contrastare una crisi economica così grave.
Il bilancio della Grande carestia fu pesante. Si stima che in Inghilterra sia morta di fame o di malattia tra il 10 e il 15 per cento della popolazione[65]. Nelle Fiandre ci sono testimonianze di fosse comuni, di gente morente per strada ad Anversa, regione in cui pare che addirittura un terzo della popolazione possa essere morto per motivi collegati alla carestia – anche se dubbi sono stati sollevati sull’affidabilità di queste stime[66]. L’Italia fu meno colpita rispetto alle regioni d’oltralpe. Sicuramente si hanno testimonianze di raccolti andati male nel Centro-Nord, e pare che in questo periodo la Romagna[67] subì una pestilenza; ma il Sud Italia si salvò, tant’è che le cronache di Giovanni Villani e dell’Anonimo Romano segnalavano l’arrivo a Firenze e a Roma di grano proveniente dai porti del Sud della penisola[68], i cui mercanti ottennero, in questo contesto, degli ottimi dividendi, traendo guadagno dalla crisi generale[69].
Nel 1317 l’Europa iniziò l’uscita dalla carestia. Il raccolto di quell’anno, infatti, pur essendo meno abbondante del normale, fu migliore rispetto a quelli dei due anni immediatamente precedenti, offrendo un po’ di respiro e facendo segnare una leggera riduzione dei prezzi dei beni agricoli. Il raccolto del 1318 fu invece abbondante: i prezzi scesero ulteriormente, consentendo a chi era rimasto escluso dal mercato di potervi rientrare[70]. La Grande carestia nel 1318 poteva dirsi conclusa; la crisi europea, invece, doveva ancora mostrare il suo volto più drammatico.
La crisi continua
Finita la Grande carestia, fino al 1347 l’Europa non visse più crisi generali che coinvolsero tutto il continente. A livello locale, però, ci furono situazioni di crisi un po’ ovunque. La più grave colpì l’Inghilterra dal 1319, quando l’economia e la popolazione inglesi ancora non si erano riprese del tutto dalla Grande carestia. La causa della crisi fu una pestilenza bovina particolarmente pesante e giunta in Inghilterra dal continente europeo, colpito dal 1315 – con conseguenze però non paragonabili a quelle che ebbe nelle isole britanniche – e probabilmente proveniente dalla Mongolia[71]. In Inghilterra la pestilenza trovò una popolazione bovina indebolita dalla carestia, dalle piogge e dal freddo degli anni precedenti, provocando danni ingentissimi[72]. Si stima che il 62 per cento dell’intera popolazione bovina di Inghilterra e Galles morì durante la pestilenza; in particolare, i numeri parlano della morte dell’80 per cento delle mucche, del 54 per cento dei buoi e del 60 per cento dei bovini più giovani[73]. Una pestilenza di questa portata non poteva non avere conseguenze gravi sull’economia britannica. Il settore caseario fu spazzato via, venendo a mancare il latte[74], la cui produzione tornò ai livelli precedenti alla pestilenza solo nel 1332[75].
Anche la produzione di carne bovina crollò[76] e fu sostituita dalla carne suina, non essendo i maiali colpiti dalla pestilenza. A livello alimentare, la sostituzione della carne bovina con la carne suina fu una panacea limitata: la disponibilità di maiali diminuì a causa dell’eccessivo consumo, che portò alcune aree a registrare una perdita del 95 per cento dei maiali[77]. La pestilenza bovina ebbe conseguenze negative anche sull’agricoltura, per la scarsità di animali da traino per l’aratura dei campi, anche se in parecchie aree problemi di questo tipo non sembrano aver limitato troppo la produzione di prodotti agricoli[78].
Per quanto riguarda l’Italia – che, come detto, fu colpita in misura minore dalla Grande carestia – subì una serie di carestie locali tra il 1318 e la metà del secolo ma di portata limitata e alle quali si poteva rimediare con le importazioni di cibo. La più grave di queste sembra essere stata quella del 1329, che colpì Roma, Firenze e altre regioni italiane[79], ma fu una di molte altre – tutte a livello locale – registrate dalle cronache del tempo: nel 1322 furono colpite principalmente Lucca, Pisa e Pistoia, altre ce ne furono nel 1333, nel 1338-40 e nel 1345-46[80].
Il Trecento fu anche un secolo di crisi bancarie, che colpirono in modo particolare l’Italia. Nel 1343 fallirono tre grandi banchi fiorentini, quelli tenuti dalle potenti famiglie dei Bardi, degli Acciaiuoli e del Peruzzi[81], ma anche i banchi degli Scali, dei Bonaccorsi e dei Corsini[82]. Questi banchi si erano esposti con prestiti ad alto rischio a sovrani europei (si concessero quelli che oggi sarebbero chiamati mutui subprime[83]). Questi sovrani, e in particolar modo Edoardo III d’Inghilterra impegnato nella Guerra dei Cent’anni contro la Francia, si rivelarono insolventi alimentando, come spesso avviene in questi casi, una situazione di panico: i risparmiatori chiesero indietro i loro depositi e i banchi, non potendo fare fronte a tutte le richieste, dovettero dichiarare fallimento[84].
La crisi bancaria ebbe delle conseguenze anche negli altri settori dell’economia: varie piccole e medie imprese artigianali e mercantili furono travolte dai fallimenti dei banchi fiorentini, determinando una diffusa disoccupazione[85]. Anche dal punto di vista monetario il Trecento fu un secolo caratterizzato dall’instabilità, moltiplicatore delle crisi economiche in essere. In particolare, le monete, soprattutto quelle d’oro, subirono una svalutazione che impattò negativamente sul volume dei traffici internazionali, causando il fallimento di alcune compagnie mercantili[86]. Spesso la svalutazione era dovuta all’azione dei sovrani sulla moneta, che intervenivano su di essa per trovare nuove risorse ma causando danni all’economia reale e “provocando continui movimenti inflazionistici”[87].
“Ma l’Apocalisse non venne con la fame”[88]: la peste nera
La crisi del Trecento ebbe il suo culmine, particolarmente tragico, alla metà del secolo. Nel 1347, in ottobre, a Messina furono registrati i primi casi di peste[89] che, dopo alcuni mesi di incubazione, dispiegò i suoi effetti più devastanti dalla primavera del 1348[90]. In Europa il bacillo della peste arrivò dall’Asia passando dalla Crimea. Sembra infatti che furono le armate mongole del khan Djanibek a portarsi dietro la peste durante l’assedio di Caffa, colonia genovese in Crimea; tant’è che il condottiero, nel tentativo disperato di prendere la città mentre i suoi soldati erano decimati dalla pestilenza, ordinò di gettare i cadaveri dei morti di peste al di là delle mura, usandoli come una sorta di arma batteriologica ante litteram[91]. Da Caffa i mercanti portarono la peste in Europa[92]. L’epidemia di peste, per una popolazione che oramai da decenni era alle prese con crisi di più tipo, fu devastante. Si stima che un terzo della popolazione europea perse la vita tra il 1348 e il 1349[93], mentre le aree più colpite furono la Francia meridionale e l’Italia[94]. Per un’idea di come si comportava la “mortifera pestilenza”[95] lasciamo la parola a Giovanni Boccaccio:
nascevano nel cominciamento d’essa a’ maschi e alle femine parimente o nella anguinaia o sotto le ditella certe enfiature, delle quali alcune crescevano come una comunal mela, altre come uno uovo, e alcune più e alcun’ altre meno, le quali i volgari nominavan gavoccioli. E dalle due parti del corpo predette infra brieve spazio cominciò il già detto gavocciolo mortifero indifferentemente in ogni parte di quello a nascere e a venire: e da questo appresso s’incominciò la qualità della predetta infermità a permutare in macchie nere o livide, le quali nelle braccia e per le cosce e in ciascuna altra parte del corpo apparivano a molti, a cui grandi e rade e a cui minute e spesse. E come il gavocciolo primieramente era stato e ancora era certissimo indizio di futura morte, così erano queste a ciascuno a cui venieno. A cura delle quali infermità né consiglio di medico né virtù di medicina alcuna pareva che valesse o facesse profitto: […] non solamente pochi ne guarivano, anzi quasi tutti infra ‘l terzo giorno dalla apparizione de’ sopra detti segni, chi più tosto e chi meno e i più senza alcuna febbre o altro accidente, morivano.[96]
Ovviamente l’epidemia di peste causò danni ingenti anche alla situazione economica europea: la domanda di beni agricoli calò, con conseguente crollo dei prezzi; nello stesso tempo la forza lavoro scarseggiava sempre più, e non furono poche le imprese produttive, anche artigianali, a dover chiudere i battenti[97]. Paradossalmente, però, la peste pose le basi per la successiva ripresa economica europea. In particolare, l’avanzata di boschi e paludi, causata dalla diminuzione della popolazione e dal conseguente arretramento dei coltivi, contribuì ad aumentare le rese unitarie dei cereali e a ripristinare l’equilibrio idrogeologico che, come abbiamo visto all’inizio, era divenuto un problema[98]. Inoltre, la minore disponibilità di forza lavoro diede alla parte più povera della popolazione un maggiore potere contrattuale che portò a un aumento dei salari[99].
Spesso gli storici si sono chiesti se ci fossero dei collegamenti tra le crisi precedenti alla peste – in particolare la grande carestia – e la peste stessa; se, quindi, quelle crisi avessero reso più fragile la popolazione, rendendo l’epidemia di peste più devastante di quanto sarebbe stata normalmente. Sicuramente il bacillo della peste si trovò davanti persone già debilitate e provate, il cui corpo non era pronto ad affrontare una malattia violenta come quella[100], ma il rapporto di causalità non è così lineare. Anzitutto la mortalità della peste è stata più o meno uniforme in tutta Europa e ha mietuto vittime anche in zone dove la Grande carestia era stata meno grave, su tutte l’Italia[101]. DeWitte e Slavin – rispettivamente un’antropologa e uno storico medievale – studiarono gli scheletri presenti in un cimitero di Londra, cercando, tra i morti di peste, quelli che presentassero segni di fragilità dovuti a malnutrizione. La correlazione tra carestia e peste non è sembrata essere forte, ma gli stessi autori dello studio hanno ammesso che il numero di scheletri studiati era limitato e che dunque non potesse rappresentare un campione statisticamente significativo[102].
Conclusioni
La crisi del XIV secolo, probabilmente la più grave dell’età medievale, ben esemplifica la tipologia di crisi con cui aveva a che fare la società preindustriale. Al centro c’era infatti la dipendenza dell’uomo dalla natura. La crescita economica e demografica dei secoli precedenti fu caratterizzata da temperature alte e favorevoli all’agricoltura mentre, come visto, la crisi del Trecento fu causata da un abbassamento della temperatura e un peggioramento delle condizioni metereologiche. Gli errori umani, poi, aggravarono la situazione, e l‘assenza di alcun tipo di welfare state impedì di mitigare gli effetti della crisi rendendola meno pesante per la popolazione. Il sostegno del potere pubblico mancò anche di fronte all’epidemia di peste nera, durante la quale non si poté far conto sulla medicina, totalmente incapace di affrontare la minaccia.
In questo senso, le differenze rispetto alla situazione attuale sono lampanti. Nella pandemia di oggi, ad esempio, la scienza è riuscita a mettere a punto un vaccino a tempo di record. Inoltre, mentre nel Medioevo si era profondamente condizionati dal clima e dalla sua variabilità, l’innovazione tecnologica e le nuove tecniche di produzione consentono oggi di svincolare i processi di produzione alimentare dalle condizioni ambientali. Infine, se pochi erano gli strumenti a disposizione dei governi per affrontare le crisi economiche, queste, pur essendo oggi di natura completamente differente, possono essere – al di là dell’efficacia dei singoli provvedimenti – gestite, attenuate e controllate, tramite strumenti che nel Trecento erano impensabili.
Emanuele Del Ferraro per www.policlic.it
Riferimenti bibliografici
[1] Per un approfondimento sulla Crisi del ’29 si vedano i tre articoli di Luca Di San Carlo, Sulla ciclicità del capitalismo: gli Stati Uniti si avviano alla crisi, Sulla ciclicità del capitalismo. 1929: cronaca di un disastro annunciato e Sulla ciclicità del capitalismo. Uscire dalla crisi: controllo dei prezzi e riforme bancarie in Policlic.it.
[2] E. De Simone, Storia economica: Dalla rivoluzione industriale alla rivoluzione informatica, Franco Angeli, Milano 2014, p. 86.
[3] L. Palermo, Scarsità di risorse e storia economica: il dibattito sulla carestia, in Popolazione e storia, XIII (2012), n. 1, p. 51.
[4] Ivi, p. 52.
[5] Ibidem.
[6] P. Slavin, The Great Bovine Pestilence and its economic and environmental consequences in England and Wales, 1318-50, in The Economic History Review, LXV (2012), n. 4, p. 1239..
Sul legame tra società e natura si veda S. Curulli, Sistemi edilizi: antichi e nuovi equilibri tra confort e consumo. Analisi dell’evoluzione dei sistemi edilizi, in un confronto tra le esigenze del passato e gli sprechi contemporanei, in Policlic n. 7.
[7] L. Palermo, op. cit., p. 58.
[8] Ivi, p. 59.
[9] Ivi, p. 69.
[10] L. Rombai, Geografia storica dell’Italia: Ambienti, territori, paesaggi, Le Monnier, Milano 2008, p. 186.
[11] L. Palermo, op. cit., p. 71.
[12] Ivi, p. 72.
[13] S. DeWitte e P. Slavin, Between Famine and Death: England on the Eve of the Black Death – Evidence from Paleoepidemiology and Manorial Accounts, in The Journal of Interdisciplinary History, XLIV (2013), n. 1, p. 51.
[14] L. Palermo, op. cit., p. 72.
[15] R. Dondarini, La crisi del XIV secolo, in O. Capitani (a cura di), Bologna nel Medioevo, Bononia University Press, Bologna 2007, p. 868.
[16] F. Goldberg, Climate change in the recent past. Selected Climate Events from Historical Records, Frontier Centre for Public Policy, Winnipeg 2007, p. 1.
[17] Ivi, p. 2.
[18] T. S. Razer-Strusa, Studies of the Venerable Bede, the Great Famine of 1315-1322, and libraries in prisoner of war camps, North Dakota State University of Agriculture and Applied Science, North Dakota 2017, pp. 29-30.
[19] Ivi, p. 30.
[20] Ivi, p. 31.
[21] A. Vadas, Documentary evidence on weather conditions and a possible crisis in 1315-1317: case study from the Carpathian basin, in Journal of Environmental Geography, II (2009), n. 3-4, p. 23.
[22] Ibidem.
[23] W. C. Jordan, The Great Famine: 1315-1322 revisited, in S. Bruce, Ecologies and Economies in Medieval and Early Modern Europe: Studies in Environmental History for Richard C. Hoffmann, Brill, Leiden 2010, p. 49.
[24] H. S. Lucas, The Great European Famine of 1315, 1316, and 1317, in Speculum, V (1930) n. 4, p. 346.
[25] W. C. Jordan, op. cit., p. 50.
[26] Ivi, pp. 50-51.
[27] Ivi, p. 51.
[28] A. Vadas, op. cit., p. 24.
[29] T. S. Raezer-Strusa, op. cit., p. 30.
[30] A. Brancati, T. Pagliarani, Il nuovo dialogo con la storia: Dalla crisi del Trecento alla metà del Seicento, La Nuova Italia, Milano 2007, p. 38.
[31] A. Cortonesi, Il medioevo: Profilo di un millennio, Carocci, Roma 2008, p. 253.
[32] A. Brancati, T. Pagliarani, op. cit., p. 44.
[33] A. Cortonesi, op. cit., p. 254.
[34] Ibidem.
[35] L. Rombai, op. cit., p. 185.
[36] A. Cortonesi, op. cit., p. 254.
[37] W. C. Jordan, op. cit., p. 48.
[38] C. O. Grada, Fame e Capitale Umano in Inghilterra prima della Rivoluzione Industriale, School of Economics, University College Dublin 2014, p. 10.
[39] A. Cortonesi, op. cit., p. 257.
[40] L. Palermo, Carestie e cronisti nel Trecento: Roma e Firenze nel racconto dell’Anonimo e di Giovanni Villani, in Archivio storico italiano, CXLII (1984) n. 3, pp. 344 e 349.
[41] Ivi, p. 350.
[42] J. C. Russell, Effects of Pestilence and Plague, 1315-1385, in Comparative Studies in Society and History, VIII (1966) n. 4, p. 466.
[43] “Dai Pirenei alle regioni slave, dalla Scozia all’Italia” in H. S. Lucas, op. cit., p. 354.
[44] B. Sharp, Royal paternalism and the moral economy in the reign of Edward II: the response to the Great Famine, in The Economic History Review, LXVI (2013), n. 2, p. 628.
[45] Ibidem.
[46] W. C. Jordan, op. cit., p. 54.
[47] T. S. Raezer-Strusa, op. cit., pp. 43-44.
[48] H. S. Lucas, op. cit., p. 356.
[49] T. S. Raezer-Strusa, op. cit., p. 34.
[50] Ivi, pp. 34-35.
[51] Ivi, p. 35.
[52] H. S. Lucas, op. cit., p. 360.
[53] S. DeWitte e P. Slavin, op. cit., p. 48.
[54] T. S. Raezer-Strusa, op. cit., p. 50.
[55] B. Sharp, op. cit., p. 629.
[56] Ibidem.
[57] Ivi, p. 633.
[58] Ivi, p. 634.
[59] Ivi, p. 635.
[60] Ivi, p. 638.
[61] Ivi, pp. 639-40.
[62] Ivi, pp. 640-42.
[63] T. S. Raezer-Strusa, op. cit., p. 36.
[64] B. Sharp, op. cit., p. 644.
[65] Ivi, p. 629.
[66] H. S. Lucas, op. cit., p. 366.
[67] Ivi, p. 373.
[68] L. Palermo, Carestie e cronisti nel Trecento, cit., p. 356.
[69] H. S. Lucas, op. cit., p. 373.
[70] S. DeWitte e P. Slavin, op. cit., p. 48.
[71] P. Slavin, op. cit., p. 1240.
[72] Ivi, p. 1246.
[73] S. DeWitte, P. Slavin, op. cit., p. 49.
[74] P. Slavin, op. cit., p. 1255.
[75] S. DeWitte, P. Slavin, op. cit., p. 38.
[76] P. Slavin, op. cit., p. 1255.
[77] T. S. Raezer-Strusa, op. cit., p. 33.
[78] P. Slavin, op. cit., pp. 1255-1257.
[79] L. Palermo, Carestie e cronisti nel Trecento, cit., p. 351.
[80] Ivi, pp. 356-57.
[81] A. Musarra, A peste, fame et bello libera nos, Domine. Precarietà e ansie religiose nell’Italia del Trecento (con un’appendice genovese), in A. Del Ponte (a cura di), Centrum Latinitatis Europae, Atti dei Convegni internazionali, CLE, Genova 2016, p. 3.
[82] A. Brancati, T. Pagliarani, op. cit., p. 45.
[83] A. Musarra, op. cit., p. 3.
[84] A. Brancati, T. Pagliarani, op. cit., p. 45.
[85] A. Musarra, op. cit., p. 3.
[86] Ivi, p. 2.
[87] G. Patriarca, Oresme e l’etica monetaria nella crisi del XIV secolo, in Procesos de mercado: Revista europea de economía política, VI (2009), n. 2, p. 151.
[88] A. Cortonesi, op. cit., p. 255.
[89] Ibidem.
[90] A. Musarra, op. cit., p. 3.
[91] Ibidem.
[92] A. Brancati, T. Pagliarani, op. cit., p. 38.
[93] A. Cortonesi, op. cit., p. 256.
[94] Ibidem.
[95] G. Boccaccio, Decameron, Rizzoli, Milano 2013, p. 164.
[96] Ivi, pp. 165-67.
[97] A. Brancati, T. Pagliarani, op. cit., p. 45.
[98] A. Cortonesi, op. cit., p. 259.
[99] A. Brancati, T. Pagliarani, op. cit., p. 48.
[100] A. Cortonesi, op. cit., p. 256.
[101] W. C. Jordan, op. cit., p. 59.
[102] S. DeWitte e P. Slavin, op. cit., p. 44.