L’Italia non è in guerra

L’Italia non è in guerra

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Dall’inizio della pandemia scatenata dalla CO­VID-19, molto è stato scritto sull’effetto che il virus ha avuto sui media mondiali. L’Orga­nizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha parlato apertamente di infodemia, utilizzando il termine per descrivere le teorie del complotto e le cure “miraco­lose” diffuse in Cina dall’esplosione della crisi. Su StatNews, John Gregory ha spiegato come l’infode­mia abbia generato risultati assolutamente rilevanti, come l’engagement di 2.1 milioni di utenti generato dall’ipotesi che COVID-19 fosse un’arma biologica. Nello stesso periodo, gli americani Centers for Disease Control (CDC) contavano solo 175mila engagement. Il sito dell’OMS, solo 25mila.

Questa reazione dell’infosfera non risulta affatto anomala, considerando l’allineamento delle fonti di informazione sulla COVID. La galassia della disin­formazione non ha fatto altro che inserirsi nel mono­lite offerto da media e istituzioni. D’altra parte, però, è anche vero che l’epidemia opera il suo esercizio di pressione lungo numerose linee di faglia della so­cietà, alimentando le tensioni che la convivenza ten­deva a sopire.

Diverse sono le fonti dell’incertezza epidemica:

  • Liquidità: dove troverò il denaro per vivere?
  • Beni/servizi: dove troverò ciò di cui ho bisogno?
  • Normativa: cosa posso e non posso fare?

L’incertezza di questi tre fattori opera inoltre in una comunità frastagliata e permeata continuamente da almeno quattro linee di faglia:

  • Il nemico esterno: perché gli altri Stati non ci aiu­tano?
  • Il nemico interno: perché le altre persone non ri­spettano le regole?
  • Il nemico sé: sarò infetto/a?
  • Il nemico invisibile: il virus è intorno a me?

Sembra chiaro come le fonti di incertezza siano af­frontate con maggiore difficoltà, tanto sono profonde le prime tre linee di faglia; altrettanto fondato sembra il ragionamento che vuole l’ultima faglia – il nemico invisibile – come l’innesco delle prime tre. Se nemici e incertezze sono gli esplosivi dell’estraneazione so­ciale, il virus è dunque la carica che li fa esplodere.

Si entra qui in un mondo perfetto per ospitare meta­fore. Scrive Battistelli:

Di fronte a fenomeni che non si conoscono, o si conoscono soltanto in parte, questa razionalità li­mitata si sforza di colmare il divario tra ciò che si sa e ciò che si ignora attivando strumenti tecni­camente definiti “euristici”, cioè di avanscoperta … il più comune di essi è la metafora. Se devo re­lazionarmi a uno sconosciuto, per capire che tipo è chiedo un parere a un amico […]. La risposta dell’amico “quell’uomo è un lupo” […] è un ele­mento di giudizio. Fornisce un’approssimazione, imperfetta ma immediatamente disponibile, circa la natura di quell’uomo che non conosco.

I giornali divengono qui un elemento estremamente sensibile, perché sono creatori di metafore politiche proprie o portatori di quelle delle istituzioni. Non solo, però. Nella limitazione del diritto di circolare e riunir­si della cittadinanza, sono anche gli unici veri deten­tori del controllo democratico del territorio altrimen­ti liberamente esercitato dai cittadini. Se gli analisti possono delineare i fenomeni di larga scala, i cronisti possono battere città e paesi e riportare alla società eventi che sono altrimenti esclusi dall’occhio pubblico.

Lo stato di guerra

I giornali, di converso, sono stati per diverse settima­ne oggetto di una precisa metafora del virus, quella della guerra. Una metafora individuata da Daniele Cassandro nel linguaggio della “trincea negli ospe­dali, … fronte del virus, … economia di guerra”. Con lui concorda di nuovo Battistelli, trovando in questa metafora la più ovvia:

Pochi altri fenomeni come la guerra, infatti, inclu­dono significati […] evocati da un fenomeno grave come la pandemia generata dal Corona virus. Dal punto di vista sociologico la metafora bellica emer­geva già in riferimento a un’emergenza sanitaria che presenta impressionanti analogie con quella attuale: l’epidemia di Sars del 2003 (Galantino 2000). Era solo questione di tempo […].

Di guerra parlano politici come Zaia, Toti e Gallera, Salvini, Crimi, Meloni e Casini, ma anche gli impren­ditori Preziosa e Pasini e il direttore dell’Istituto Su­periore di Sanità (ISS) Walter Ricciardi. Ne parlano scienziati come Burioni, ma anche la politica interna­zionale, da Draghi a Tajani, da Boris Johnson a Em­manuel Macron.

La terminologia militare era in fondo già endemi­ca nel mondo clinico (spesso utilizzata per malattie come il cancro). Il suo scopo è la mobilitazione sia di medici, pazienti, famiglie, sia di cittadini e ammini­stratori. Questo potere solidaristico, però, si scontra pesantemente con i suoi effetti collaterali, in primis, quello di legare strettamente il destino del paziente alle sue “virtù di guerriero”, invece che alla qualità delle cure. Inoltre, la metafora della guerra, dopan­do la reazione psicologica al virus, ne diminuisce la lucidità. La metafora ci dice chi è il nemico, riconnet­tendoci tramite gli esempi di eroismo al fronte e alla storia nazionale, ma ci porta a non valutare i costi e i risultati. In una guerra

niente è considerato eccessivo, nessun sacrificio troppo grande. Ogni sfumatura perde di significa­to e tutto diventa bianco o nero […]. Persino nel­la quotidianità delle nostre nuove vite non è più ammesso sgarrare: ogni cittadino deve seguire le nuove regole con disciplina marziale.

Risulta innegabile, dunque, quanto affermato da Matteo Pascoletti: “la guerra è uno stato di eccezio­nalità che incide sul tessuto democratico”. Questo è un punto chiave che giova ripetere: mantenere alta la pressione sulla tenuta degli istituti democratici, di fronte alla parziale sospensione di diritti centrali nella nostra Costituzione, non è solo necessario, ma sarà uno degli elementi fondanti dell’Italia post-co­ronavirus. Il rischio, dall’altra parte, è quella che è stata definita “isteresi sociale e politica”, una defor­mazione scatenata dalle tensioni causate dal virus e non più riassorbita. La mancanza di flessibilità nel ritorno alla normalità, viene da pensare, deriverà da quanto saremo capaci di riconoscere il coronavirus come un problema safety, derivato da fattori natu­rali solo parzialmente influenzati dall’uomo, e non security, un effetto della volontà di qualcuno. Quello epidemico è infatti un pericolo, non una minaccia.

Information overload e il nemico alle por­te

L’isteresi di cui si accennava si mescola con quanto spiegato in un recente studio di Harvard proprio relativo al coronavirus in Italia. Lo studio parla di information overload, spiegando l’inutilità di ulteriori informazioni nel modificare i comportamenti di cit­tadini già coscienti delle norme da seguire. Infatti, la COVID è stata l’unica tematica capace, negli ultimi trent’anni, di monopolizzare giornali, telegiornali, radio e social network. Risulta molto difficile, dun­que, valutarne gli effetti in termini psicologici, navi­gando “in acque sconosciute”. La percepibile ansia collettiva arriva in seguito alla volontà di negare il cambiamento già in corso.

Da questa situazione di tensione, l’ansia sfoga dove riesce a trovare terreno fertile. Non è casuale, dun­que, che in prima battuta essa abbia seguito la con­solidata via del “nemico straniero” o della “Big Phar­ma”. Sappiamo della lotta ideologica portata avanti dal governo americano nel voler ridefinire il virus come “virus cinese” o “virus di Wuhan”. Non diversa l’ipotesi molto ripresa in Italia che voleva la COVID come arma biologica o la paura russa – non totalmen­te infondata – in occasione della presenza militare di Mosca in Italia. Storicamente, l’epidemia è sempre un morbo che proviene da altrove. Non sorprende dun­que che si cerchi l’untore anche internamente.

L’untore è in fondo un disertore dell’epidemia e, dun­que, mentre si serrano i ranghi, la guerra alla COVID ha già puntato a forme di nemico interno. È tramite questi veicoli di contagio che sulla malattia si invoca lo stigma: “come un marchio d’infamia, il contagio svela e castiga la trasgressione, l’indecenza, l’immo­ralità”. Se il nemico è invisibile, bisogna individuarlo e renderlo riconoscibile. Dunque, se non posso trova­re il virus, posso trovare gli untori, e per individuar­li facilmente devo trovare indicatori inequivocabili: vestiario da runner e buste della spesa troppo vuote (o troppo piene). Entrare in conflitto necessità di stru­menti di certezza. Quindi gli indicatori rispondono alla necessità di rendere riconoscibile il male. Inol­tre viene minimizzato il rischio che il moralizzatore, dichiarando in pubblico un individuo come untore, finisca per sbagliare bersaglio, danneggiandosi.

Il risultato è quello spaventoso della ulteriore defla­grazione di un tessuto sociale già costretto alla sepa­razione dei corpi. Si perde la consapevolezza degli obiettivi comuni, per dare campo alla delazione di massa. I cittadini possono così scaricare tra di loro le paure e la rabbia dell’isolamento, causando fo­colai di violenza e certamente alimentando l’umi­liazione pubblica che accompagna l’epidemia. La lotta per il controllo paritario da parte dei cittadini può così agire dove non arriva l’ospedalizzazione, già di per sé strumento classico di massimo con­trollo dei corpi e oggi frontiera della lotta alla CO­VID. Mentre alcuni cittadini ottengono i distintivi degli untori, altri il passaporto di malati. Un esem­pio di studio è quello offerto da Lodovico Poletto in un articolo che non potrebbe far peggio nel rap­presentare l’Italia già eccitata all’idea di un gover­no militare: “Ecco questa è la Torino a due velocità: rigorosa e sfrontata nel trasgredire. Attenta e mene­freghista”. Bisognerebbe aiutare le persone a capire, invece di umiliarle come stiamo spesso facendo. Ma piace troppo l’idea di vedere gli altri manganellati.

La tenuta istituzionale, le politiche di Go­verno e le Regioni

Visto quanto detto, il Governo deve muoversi in uno scenario estremamente delicato. Innanzitutto, sap­piamo che il Governo deve agire all’interno dell’ordi­namento, tenendo conto del diritto vigente. Ma come rispondere, quando l’eccezione ha fatto saltare ogni regola?

Sappiamo oggi, da dichiarazioni del Governo, che l’excursus normativo nasce nel Nord Italia, con la dichiarazione dell’emergenza nazionale il 31 genna­io, qualche settimana dopo il primo caso identificato a Codogno. Le prime misure nazionali prendono il via con il DPCM 1 marzo 2020. Le dichiarazioni alla stampa sono però ancora estemporanee, in alcuni casi “di volata”, segno della difficoltà del momento, ma anche di problematiche emerse più tardi. È il caso del DPCM 4 marzo 2020, il decreto con il quale ini­ziano le prime vere norme di distanziamento sociale. La situazione però accelera, ed ecco che l’8 marzo le zone rosse sono estese a livello regionale. È in questo frangente che si inceppa il meccanismo tra emanazio­ne dei decreti e comunicati stampa. Un testo di bozza viene passato ai giornali e quindi Conte è costretto a spiegare: parla di due zone, una con misure restrit­tive più rigorose dell’altra. La “zona rossa”, di fatto, non esiste più.

Qui la comunicazione politica è studiata nei detta­gli, introducendo alcuni elementi politici chiave del­la gestione di questa emergenza. Conte sottolinea la volontà del governo di agire in maniera trasparente, chiedendo ai cittadini di avere fiducia, sottolineando al contempo che alcune libertà non è più possibile permettercele. Da parte sua, il Governo afferma le proprie prerogative: “lavoriamo con tutte le cogni­zioni scientifiche che ci forniscono i nostri esperti […] e da lì noi maturiamo la base per assumere le deci­sioni. Ci assumiamo tutta la responsabilità politica di queste decisioni”. Potrà sembrare una dichiarazione di poco conto, ma è un’indicazione precisa del ruolo del potere politico all’interno di una democrazia: es­sere supportato da evidenze tecniche e scientifiche, ma mantenere su di sé la responsabilità e il diritto di prendere decisioni.

Nel frattempo, però, il danno è già fatto. A Milano si è consumata la storica “fuga dalla Stazione Centrale”. Soprattutto, il contagio non è ormai solo regionale: con il DPCM 9 marzo 2020, le misure ormai testate al Nord vengono estese in tutta l’Italia. L’urgenza è an­ch’essa nella comunicazione del Governo: tempo non ce n’è, dobbiamo rinunciare tutti a qualcosa, perché se non lo faremo, non ce la faremo. Nasce #ioresto­acasa. L’Italia – anche qui le parole sono essenziali – è “zona protetta”. Per la prima volta, Conte usa un termine bellico: i medici sono in trincea.

Le limitazioni alla libertà personale sono così arrivate in tutto il Paese. Manca però l’economia. E infatti l’11 marzo viene emanato un nuovo decreto, con lo scopo di sospendere le attività di vendita al dettaglio e di ristorazione. Di nuovo, Conte interviene con una di­chiarazione: non servono corse agli alimenti. Usa di nuovo un termine bellico, parlando di “battaglia con­tro la pandemia”, ma sottolinea: i risultati non si pos­sono vedere già da subito, quindi dobbiamo evitare “corse verso il baratro”, aumentando necessariamen­te le misure. È un altro passaggio importante, per­ché mirato a stabilizzare: un’epidemia non si risolve brutalizzando i diritti e uccidendo il Paese assieme al virus.

Il Paese, però, se non morto, inizia ad annaspare. Ar­riva così il decreto “Cura Italia”, la prima iniezione di liquidità nel sistema economico. Emergono tuttavia altri elementi. Con DL 17 marzo 2020, il commissario straordinario all’emergenza è autorizzato alla requi­sizione in uso di immobili, mentre l’esercito è auto­rizzato all’arruolamento eccezionale volontario di un anno, e le strutture di sanità militare sono potenziate. Nei giorni seguenti, con DPCM 22 Marzo 2020, ven­gono chiuse le attività produttive non essenziali, in quello che Conte definisce un rallentamento del mo­tore produttivo del Paese. È una misura estremamen­te rilevante, perché colpisce in maniera ancora più capillare l’economia italiana. L’emergenza sanitaria, ammette Conte, si sta trasformando in emergenza economica, ma “non abbiamo alternative”.

Emergono in questi giorni tre altri attori: prefetture, Parlamento e sindaci. I prefetti, rispondendo diretta­mente al Governo, sono chiamati a vigilare sull’effet­tiva ottemperanza delle attività produttive. Il Parla­mento, d’altra parte, è coinvolto con informativa alle Camere, realizzando un primo dialogo, pur limitato.

Il Presidente del Consiglio rivendica qui la mancanza di una disciplina per la trattazione di crisi tanto pro­fonde, spiegando l’uso del DPCM come strumento garante della collaborazione con Regioni, associazio­ni di categoria e sindacati. Conte indica di voler in­viare immediatamente i futuri provvedimenti ai pre­sidenti delle Camere e riferire al Parlamento ogni due settimane. Infine, dato che la situazione economica rischia di esplodere, il 29 marzo ai sindaci viene con­cessa liquidità per 400 milioni, per provvedere con buoni spesa, mentre 4,3 miliardi vengono immessi sul fondo di solidarietà comunale.

È così che si chiude l’excursus, sulla linea economica. Mentre Conte estende le misure parlando di nuovo di “nemico invisibile”, con il DL 6 aprile 2020 il Go­verno offre garanzia di stato su 200 miliardi concessi dalla Cassa Depositi e Prestiti; intanto ulteriori misu­re vengono dichiarate per la continuità aziendale e vengono sospesi IVA, ritenute e contributi.

Nell’excursus, però, si apre un problema: le Regioni?

Queste, infatti, non sono state ferme, dando vita a una massiccia produzione di misure e chiarimenti. Le Regioni rimangono in gran parte esecutrici delle normative disposte dal Governo, ma se quelle del Nord, per motivi di urgenza, seguono la stessa fal­sariga, si notano già difformità con la diffusione del virus nel Centro-Sud. Se si scende al livello comu­nale, l’enorme complessità normativa risulta ancora più evidente. Al di là di questo, però, la complessità lascia spazio anche ad altro. L’apertura concessa alle Regioni sull’imposizione di misure ancora più re­strittive, seppur sotto il coordinamento del Governo, non apre solo a quello che è stato definito il “caos mascherine”, ma anche a pressioni affinché la gestio­ne della salute pubblica e dell’ordine pubblico venga presa in mano dalle Regioni, in particolare quelle a statuto speciale. Tra i vari scogli di questa navigazio­ne, dovremo far attenzione non solo ai colonnelli, ma anche agli sceriffi.

Le politiche emergenziali

Le difficoltà governative nell’affrontare l’emergenza sono spiegate bene da Raffaele Alberto Ventura: “la Costituzione non è in grado di regolamentare con precisione il ricorso alla decretazione d’urgenza: non può definire le condizioni di straordinarietà perché non può prevederle”. È, in fondo, ciò che distingue la normale amministrazione dalla gestione delle cri­si: il saltare degli schemi preposti al normale fun­zionamento di un sistema, in favore di una gestione estemporanea, creativa, ma imprecisa. L’Italia è poi culturalmente abituata alla trasformazione di tutto in emergenza; ma è proprio questo ad aver eroso le risorse infrastrutturali, finanziarie, etiche e politiche affinché l’arrivo della “vera emergenza” non finisse per spazzare via ogni cosa. In mancanza di solide barriere contro la marea, lo tsunami ha inondato la terraferma.

Non sorprende che, in uno scenario normativo e strutturale già deficitario, siano intervenute prima una comprensibile iperproduzione normativa, poi una pericolosa corsa a punizioni più severe. Lo stes­so governo ha incrementato le sanzioni da 400 a 3000 euro, creando lo scenario perfetto per il fallimento di ogni prevenzione: punire più duramente, perché si ha la sensazione di perdere il controllo. Non a caso, proprio nella volontà di controllo è convogliata l’invocazione del modello cinese, nonostante questo sia incasellato in una struttura istituzionale lesiva dei diritti. Il modello più vicino alla “via europea alla pri­vacy” è incardinato sulla potenza computazionale di Google e Apple, che però non manca di presentare un conto. L’autoritarismo, spiega Joseph Cannataci, nasce spesso per far fronte a una minaccia.

Sistemi fuori controllo

È così che si manifesta l’isteresi, nella generazione del rischio zero: “la generazione del Vietato Vietare e della guerra al patriarcato si consegna con zelo mi­litare ai professionisti del divieto […] pronta a sacrifi­care ogni pensiero critico alla promessa (impossibile) dell’eliminazione del rischio”. Con precise conse­guenze. I sistemi possono caratterizzarsi come auto­stabilizzanti o instabili: si stabilizzano se portano alla concatenazione di eventi che si mitigano a vicenda.

Una scarsa comprensione della nostra necessità di convivere con il rischio, bilanciando diritti e libertà, non fa altro che creare un sistema profondamente in­stabile, modellabile come segue:

  • I cittadini chiedono misure più restrittive;
  • Aumenta la sicurezza percepita, diminuisce la li­bertà;
  • Le misure non portano a una diminuzione sostan­ziale del contagio;
  • Diminuisce la sicurezza percepita e aumenta il di­sagio economico;
  • I cittadini chiedono misure più restrittive.

È così che ci ritroviamo senza una fase di collegamento tra l’entusiasmo dei balconi e la via di diminuzione delle restrizioni. Dove dovrebbe persistere una co­municazione volta a rendere la quarantena più vivi­bile, si crea invece un vuoto dove l’effetto depressivo dell’isolamento si trasforma in una pericolosa oscil­lazione tra violenza autoinflitta e conflitto sociale. Piombiamo in uno stato che molto somiglia all’auto­lesionismo sanguinario degli animali in cattività.

“Mandate l’esercito”

Se il conflitto sociale è imbevuto nella narrativa del­la guerra, non è troppo strano che molti cittadini abbiano richiesto l’intervento dell’esercito, finendo per allineare l’intera vita del Paese sulla scelta tra vita e libertà. È l’emergenza di una cultura totalitaria diffusa, anche se non equamente tra destra e sinistra, come sostenuto da Flavia Perina. Da questo punto di vista, il Governo si è mosso in maniera eccellente, of­frendo garanzie contro un pericolo reale e terribile. Conte stesso ha delineato perfettamente la differenza tra ordine pubblico e difesa militare:

Quindi assolutamente ben venga anche l’aiuto dell’esercito, però i cittadini non devono pensare che la tenuta dell’ordine pubblico debba essere solo ed esclusivamente affidata a un’immagine di mili­tarizzazione dei centri abitati.

Permane però l’infatuazione per l’autoritarismo, an­cor più oggi che servono misure rapide ed efficaci. Termometro ne può essere l’ennesima dichiarazione fuori luogo dell’ex comandante Alfa.

In un post, si spingeva alle ovvie conseguenze dello stato di guerra: “i decreti non servono più a nulla”, “chiudete tutto, lasciando aperti i servizi essenziali per la sopravvivenza… Schierate l’esercito, istituite il coprifuoco, chiudete i confini, i porti, sigillate il no­stro paese”.

Il post, che ha ricevuto 11mila mi piace, è stato ripre­so da schiere di giornali. Che il tono fosse vagamente eversivo non sembra però una semplice considera­zione dell’autore. A rispondere è stato infatti proprio il Ministro della Difesa Guerini:

[Sono parole] gravissime e inaudite e che condan­no con tutta forza, pur se pronunciate da chi è in congedo da anni. Le Forze Armate sono presidio a servizio del Paese e delle sue istituzioni demo­cratiche.

Sono parole che rappresentano un’inquietudine dif­fusa, ma è importante che le più alte cariche gover­native rigettino tale narrativa, perché attori chiave di eventuali tentativi golpisti.

L’esercito è solo un effetto placebo? Forse, ma di fatto è già nelle strade di città come Bari, Milano, Palermo, Roma e Torino, nonché in Regioni come la Campania e la Sicilia. Se non si vuole parlare di placebo, sicura­mente si dovrebbe capire quanto pericolosa sia una narrazione come quella offerta, di nuovo, da Polet­to: “se al Valentino c’è gente che corre in maglietta e cuffiette […] È zona off limits. Anzi, sarebbe, perché a mezzogiorno ci sono gli incoscienti, gli imprudenti che si allenano lo stesso […] Perché ormai questa è una guerra, e la sola sicurezza che puoi avere è resta­re in casa”. Da qui alle richieste istituzionali di “se­gnalazione dell’untore”, il passo è breve, arrivando a vette distopiche come la promessa del sindaco di Messina di droni che possano utilizzare la sua voce per intimare ai passanti di stare a casa. I media non si sono fatti lasciare indietro, seguendo i sindaci alla ri­cerca degli untori, perché potessero essere sottoposti in diretta al tribunale dell’opinione pubblica.

Le zone d’ombra

Nel frattempo, oltre a osservare con molta attenzione le dinamiche descritte, sarà il caso di tenere l’atten­zione alta sulle zone d’ombra, cioè quelle aree socia­li dove il modello italiano ha finora sfogato i propri fallimenti. Ogni sistema politico, anche democratico, giova di ambienti dove l’irrisolvibile enigma della convivenza umana possa accatastare i propri sacri­ficati. Questi sacrificati, però, hanno e avranno dirit­to di sentirsi ascoltati, specialmente adesso, perché sono gli ultimi degli inclusi nella catena di protezio­ne o, peggio, sono i primi degli esclusi. E dobbiamo rendere loro conto. Sono in molti a operare su quelle che il ministro Peppe Provenzano definisce “linee di faglia”.

Il gruppo più massiccio è sicuramente quello dei la­voratori in nero. Sappiamo che sarebbe difficile per uno stato agire per supportare chi di fatto lavora in maniera irregolare. Sappiamo però anche che la per­dita di ogni forma di sussistenza non bada alle leggi, che dalla fame dobbiamo togliere chiunque e che chi ha fame non guarda in faccia a nessuno. L’impatto, tanto sulla dignità di una Repubblica che punisca con la fame, quanto sul mero ordine pubblico, può essere devastante. È tutto fuorché casuale che le forze dell’ordine monitorino attentamente i supermercati.

Il problema è poi che il lavoro nero colpisce molte fasce di persone, a volte le più fragili, come i senza­tetto, ma anche figure come badanti e babysitter. A volte, colpisce ancora più a fondo nelle contraddi­zioni del sistema Italia, rischiando di compromette­re uno degli elementi chiave per la tenuta civile di questi mesi: l’approvvigionamento di cibo. Ricor­diamo la questione dei braccianti sfruttati? Forse no, ma ricorderemo certamente la più recente tendenza del Governo a garantire la presenza di cibo nei su­permercati. Se provassimo a combinare le due cose, otterremmo, da una parte, che neanche la paura del padrone sovrasta la paura della morte, dall’altra, che il padrone è padrone perché ti scarica appena non gli sei più conveniente. Viene da sé che la tenuta del settore primario dovrebbe essere osservata con gran­dissima attenzione. Sia perché dovremmo chiederci chi si sta prendendo cura degli sfruttati dei campi, sia perché se il presidente di Confagricoltura Massimi­liano Giansanti si trova a spiegare che “il coronavirus rischia anche di mettere in crisi il settore agricolo per mancanza di manodopera”, allora dovremmo avere tutti molta paura.

La preoccupazione, infine, non può non escludere chi oggi è particolarmente esposto agli effetti fisici e psi­cologici del virus. Zone d’ombra esistono nell’ormai nota bolla delle case di riposo, una vera e propria li­nea di faglia a se stante, dove la delicatezza della cura degli anziani si è scontrata frontalmente con la loro particolare fragilità di fronte al virus e con il rischio che operino da innesco per focolai più estesi. Sono esposti poi psicologicamente i pazienti psichiatrici, più vulnerabili alle ricadute del virus. Un mix dei due rischi, infine, va riconosciuto a questioni difficili e delicate come le priorità di difendere i senzatetto e i carcerati, i primi perché abbandonati alla strada, i secondi perché sepolti in focolai pronti a esplodere.

Solo capaci di resistere

Molto si è detto sul fatto che le società contempora­nee non siano capaci di resistere all’idea della morte. Se fame e morte non hanno politica né partito, ma solo azione e violenza, questo è forse ancor più certo in collettività in cui il potere è valutato in base alla sua efficacia nel garantirci l’immortalità.

Ognuno trarrà da questo virus la propria riflessio­ne, ma gioverebbe dare risposta alla domanda posta dalla professoressa Nadia Urbinati: “Dobbiamo per caso attendere il vaccino prima di uscire di casa? E dobbiamo sentirci in colpa per la resilienza di questo virus o subire reprimende da parte di chi ci governa per sollevare questi dubbi?”. Dobbiamo, in sintesi, esclusivamente subire?

Forse no. Però dobbiamo chiedere, nel nostro picco­lo, che le misure siano necessarie, non semplicemente utili. Le politiche richiedono pianificazione, comuni­cazione, risorse, sacrifici. La massima repressione e il massimo sforzo non possono e non devono essere il metro di giudizio di qualsiasi risposta alla COVID. Di certo dovremo cambiare, ma possiamo provare a scegliere come ricostruire i frammenti della nostra esistenza. Questi “non sono tempi normali”.

Possiamo certamente fare nostro il concetto medico della cura in ogni gesto, così come possiamo ripen­sare almeno una parte delle nostre vite attuali verso un paradigma solidaristico. Sicuramente, possiamo vedere la COVID come un’enorme prova di cittadi­nanza, rifiutando qualsiasi semplificazione del rap­porto tra libertà e salute. Potremmo, sicuramente, ri­trovare umiltà nel nostro rapporto con la natura, che comunque resta più potente di qualsiasi sovrastrut­tura economica o politica. Forse l’unica cosa in cui Renzi abbia visto giusto, prima di dichiarare guerra al Governo, è l’idea che “noi dobbiamo convivere con il COVID”. Le conseguenze dureranno anni. Peggio: l’attuale ciclo potrebbe ripetersi anche dopo la fine delle misure. La scelta, allora, sarà se ognuno di noi vorrà attaccarsi al proprio pezzettino di stato di ec­cezione, sperando di poterlo tenere per sé quando la crisi sarà passata, oppure se decideremo di agire da cittadini, cioè da esseri umani qualunque, ma consa­pevoli che “se davvero di emergenza si tratta, ognu­no dovrebbe poter avere il necessario”.

In questo, l’epidemia è una potente tempesta: esercita una forza invisibile, un magnetismo globale di rias­sesto e rigerarchizzazione delle priorità, generando nuovi bisogni e desideri. Tale riassestamento deriva i propri criteri di analisi dalla biologia, ma anche da pratiche sociali, normative, etiche individuali e col­lettive. La solidarietà non ne è l’unico e inevitabile risultato, ma neanche lo è lo spirito di sopravvivenza a scapito degli altri. Le società umane, in una forma o nell’altra, hanno continuato a vivere in forma di co­munità, società e civiltà negli ultimi diecimila anni. Questo non cambierà. Quello che cambierà, in meglio o in peggio, saranno le nostre piccole, banali e po­tentissime scelte individuali, quanto le nostre picco­le, banali e potentissime scelte collettive. Come esseri umani non abbiamo il potere di creare, ma certamen­te di scegliere come trasformare le immense risorse a nostra disposizione. È la sottile linea tra subire il coronavirus e scegliere di tenere saldo il testimone per chi verrà dopo. Abbiamo il potere di resistere. E lo faremo.

Francesco Finucci per Policlic.it

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