Verso il referendum sul taglio dei parlamentari: le ragioni del No

Verso il referendum sul taglio dei parlamentari: le ragioni del No

Il referendum confermativo per la riduzione del numero dei parlamentari è ormai alle porte. Il prossimo 20 e 21 settembre gli italiani potranno pronunciarsi sul passaggio da 630 a 400 deputati e da 315 a 200 senatori. Dopo aver analizzato l’iter parlamentare della proposta di legge soggetta al voto popolare, Policlic ha ritenuto opportuno rivolgere delle domande a due tra i maggiori protagonisti di questo dibattito, entrambi membri della Commissione Affari Costituzionali alla Camera: Stefano Ceccanti, deputato in quota PD favorevole al Sì, e Riccardo Magi, deputato di Radicali+Europa da sempre fermo sostenitore del No.

(Si veda QUI l’intervista all’onorevole Ceccanti)

Onorevole, partiamo da questioni puramente economiche. I sostenitori del Sì al referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari affermano che la riforma garantirà un risparmio cospicuo dei costi di funzionamento. È effettivamente così?

No. Il risparmio ammonta a 57 milioni l’anno, lo 0,007 per cento della nostra spesa pubblica. Pari a un euro all’anno per ogni cittadino: il prezzo di un caffè. E ritengo una fregatura per i cittadini accostare il tema del taglio del numero dei parlamentari all’esigenza di risparmio di risorse pubbliche; ci sono mille modi più efficaci per fare spending review senza tagliare la rappresentanza democratica.

L’eventuale riduzione migliorerà l’efficienza e aumenterà la velocità del funzionamento del Parlamento?

Assolutamente no, anche perché già oggi ci sono tutti gli strumenti per procedere rapidamente; anzi, il problema è semmai l’opposto, ovvero garantire al Parlamento tempi adeguati per l’esame di provvedimenti complessi. Persino la legge di bilancio viene discussa in pochi giorni senza che i parlamentari abbiano nemmeno il tempo di leggerla.

Paradossalmente la riduzione causerà un rallentamento dei lavori parlamentari. Soprattutto al Senato, per evitare il caos sarà necessario un profondo lavoro di riforma dei Regolamenti, ad esempio accorpando le 14 commissioni permanenti oggi esistenti; lavoro che peraltro non è neppure iniziato, né alla Camera né al Senato. La verità è che a parità di carico di lavoro, i parlamentari non potranno che svolgerlo in modo ancora più lento, o in modo più approssimativo.

Un altro tema è quello della quantità dei legislatori. È vero che in Italia tra Parlamento nazionale e Regioni abbiamo troppi legislatori?

Questo è un tema, su cui tuttavia la riforma non incide minimamente. Sarebbe stato allora utile pensare a una riforma del Senato in senso regionale, creando raccordo istituzionale a livello parlamentare; per quanto riguarda le istituzioni europee, la riduzione del numero di parlamentari renderà ancora più deboli i meccanismi di raccordo tra Parlamenti. Insomma, il rischio è rendere il Parlamento, la sede della sovranità popolare, già sfregiato dall’abuso della fiducia e della decretazione d’urgenza, ancora più irrilevante.

I sostenitori del Sì ritengono anche che la riforma possa fare da “apripista” ad altre riforme più organiche e quindi convenga per il momento accontentarsi di quello che si può fare. Cosa pensa di questa argomentazione?

Mi sembra un’argomentazione priva di qualsiasi fondamento logico. La realtà è che questa è una riforma costituzionale che è stata posta come condizione per un patto politico per la nascita dell’attuale governo, e al momento non ci sono neanche i minimi indizi su ulteriori riforme. Si tratta di buone intenzioni che vengono diffuse per sostenere il Sì, ma non c’è nulla di concreto, anzi, nulla di realistico.

La riforma potrebbe rompere il famoso “circolo vizioso del riformatore” o “paradosso della riforma costituzionale”, secondo il quale il sistema ha necessità di essere riformato ma non ha sufficiente capacità decisionale per riformarsi?

No. Al contrario, la riduzione del numero dei parlamentari renderà più difficile in futuro una riforma del bicameralismo paritario, sui cui limiti oramai tutte le forze politiche sono d’accordo. Una riforma di quel tipo implicherebbe sicuramente una rimodulazione del numero di eletti, che in futuro, se passasse questa riforma, sarebbe ancora più difficile da realizzare, se non a prezzo di sacrificare ancora maggiormente la rappresentanza politica e territoriale.

L’eventuale riduzione dei parlamentari che impatto avrà sulla rappresentanza?

Un impatto pesante, tanto che il PD sta legando la riforma costituzionale a quella elettorale in senso proporzionale raccontando che così si recupererebbe la perdita in termini di rappresentanza.

Le garanzie richieste dal Partito Democratico sono sufficienti per accettare la riforma? E soprattutto, secondo lei verranno rispettate?

No. Ritengo che i cosiddetti correttivi in realtà non correggano nulla, anzi. Da una parte si realizzerà un ritorno alle dinamiche tipiche dei sistemi proporzionali con le alleanze postelettorali, le maggioranze variabili e l’instabilità e la poca trasparenza delle scelte politiche nei confronti degli elettori. Gli altri correttivi accentuano il carattere paritario del nostro bicameralismo e vanno quindi in direzione opposta a quella di una valida riforma.

Sul fronte del No, qualcuno ritiene che la riforma si inserisca nel processo di affermazione di una concezione populistica e demagogica della politica…

Questo è senz’altro vero, non siamo di fronte a un provvedimento che abbia davvero una logica riformatrice; la logica è piuttosto quella demagogica di sbandierare un taglio dal sapore punitivo nei confronti della classe politica che in realtà danneggerà gli stessi cittadini. Ripeto, una fregatura.

Altri ancora ritengono che con la riforma verrà dato maggior potere ai vertici dei partiti…

Certo. Vi sarà un’accentuazione dei connotati oligarchici del nostro sistema politico istituzionale. Un effetto amplificato da una legge elettorale con liste bloccate – cioè con candidature blindate in modo ferreo dai capi partito – e dall’annosa mancanza di regolamentazione della vita interna dei partiti. Insomma, probabilmente i quattro capi dei principali partiti un mese prima delle elezioni potranno dirci esattamente chi siederà in Parlamento. Non mi pare che i cittadini ci guadagnino!

Concludiamo con una domanda che solo apparentemente non è legata al referendum. Lei è laureato in Scienze Storiche, materia di cui ci occupiamo diffusamente in Policlic. Quale importanza può avere lo studio e l’approfondimento della Storia, in particolare della Storia politica italiana, per esercitare al meglio una funzione pubblica?

Sicuramente la conoscenza della storia è uno strumento prezioso per sviluppare una maggiore consapevolezza, ad esempio di come in passato crisi economiche e sociali abbiano favorito l’instaurazione di regimi autoritari, che hanno messo a rischio i diritti e le libertà personali. Cogliere alcune spie quando si accendono, riconoscere certi fenomeni e i pericoli che recano con sé anche quando si manifestano a distanza di decenni – pensiamo al ritorno dei nazionalismi – è importante per chi riveste una funzione pubblica, per quanto ovviamente non basti a scongiurare che certe pagine nere della storia si ripetano. La storia ci insegna che, ogni volta che sono stati sminuiti e mortificati gli istituti parlamentari, a ciò non è seguita una evoluzione positiva o una successiva riforma, ma anzi si è andati verso regimi più autoritari.


Federico Paolini per www.policlic.it

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