Verso il referendum sul taglio dei parlamentari: le ragioni del Sì

Verso il referendum sul taglio dei parlamentari: le ragioni del Sì

Il referendum confermativo per la riduzione del numero dei parlamentari è ormai alle porte. Il prossimo 20 e 21 settembre gli italiani potranno pronunciarsi sul passaggio da 630 a 400 deputati e da 315 a 200 senatori. Dopo aver analizzato l’iter parlamentare della proposta di legge soggetta al voto popolare, Policlic ha ritenuto opportuno rivolgere delle domande a due tra i maggiori protagonisti di questo dibattito, entrambi membri della Commissione Affari Costituzionali alla Camera: Stefano Ceccanti, deputato in quota PD favorevole al Sì, e Riccardo Magi, deputato di Radicali+Europa da sempre fermo sostenitore del No

(Si veda QUI l’intervista all’on. Magi)


Onorevole Ceccanti, ad oggi lei risulta uno dei più convinti sostenitori della riforma costituzionale sul taglio dei parlamentari. Potrebbe spiegare ai nostri lettori le ragioni del suo Sì?

Partirei da due criteri. Il primo è quello di capire se le ragioni che hanno portato a quella scelta nel 1963 sono ancora valide oppure no. Allora il Parlamento nazionale era l’unico livello effettivo di rappresentanza politica generale, sia per l’approvazione di leggi sia come cerniera tra cittadini e istituzioni. Si passava direttamente dalla piccola scala dei Comuni fino al Parlamento, senza niente sopra. Invece nel corso dei decenni abbiamo creato e rafforzato i Consigli regionali ed eletto il Parlamento europeo. La sussidiarietà si è espansa sia sotto sia sopra lo Stato nazionale. Possiamo pensare che essa debba solo creare istituzioni aggiuntive senza toccare quelle che ci sono? Non credo.

Il secondo è quello di capire cosa stanno facendo i Paesi europei che hanno una grandezza analoga alla nostra. La Francia ha 577 parlamentari eletti per dare la fiducia al Governo, ha visto crescere anch’essa le Regioni oltre che il ruolo dell’Unione Europea, e per questo sta pensando di scendere a 404. Il Regno Unito, che ha istituito i Parlamenti regionali in Scozia, Galles e Irlanda del Nord, elegge 650 deputati che danno la fiducia e vuole scendere a 600. In Germania, dove la popolazione è di un terzo maggiore della nostra, i seggi fissi dei parlamentari che danno la fiducia al Governo sono 598; per una serie di problemi legati alla legge elettorale, alla fine, sono arrivati di fatto a eleggerne 700 e vogliono mettere un tetto. In Spagna sono eletti e danno la fiducia in 350. Tutto considerato, quindi, una certa discesa da 945 a 600 rientra in una tendenza generale. Lo spiega molto bene il prof. Delle Donne della Scuola Sant’Anna in un bel volume curato dal professor Rossi per Pisa University Press. Personalmente credo che l’aggiornamento debba riguardare anche altro e che il cambiamento dei numeri sia solo un piccolo passo: però il successo del Sì può dare a tutti coraggio per percorrere altre tappe, altrimenti si bloccherebbe tutto.

Questa legge costituzionale è figlia di una nuova strategia politica proposta dagli esponenti del Movimento 5 Stelle: superare l’orizzonte delle “grandi riforme” in favore di iniziative legislative costituzionali distinte e autonome. In sintesi, si abbandona la proposta di una riforma costituzionale organica prediligendo interventi puntuali e limitati a singole tematiche. In qualità di docente di diritto costituzionale, come reputa questa svolta procedurale?

A dir la verità il cambiamento di metodo è stato imposto dall’esito del referendum del 2016. Il voto su una riforma organica si è rivelato purtroppo dannoso perché l’elettorato ha finito per votare pro o contro Renzi. A questo punto tutti siamo costretti a misurarci su una riforma a tappe, il che non significa non avere un disegno complessivo.

Leggendo i resoconti dei lavori della Commissione Affari Costituzionali della Camera, dove lei svolge il ruolo di capogruppo del PD, è possibile scorgere una sua preoccupazione in merito agli effetti collaterali negativi che tale riforma reca con sé. Come lei ha giustamente sottolineato più volte, questa riforma cagionerebbe un “effetto disrappresentativo” ai danni delle minoranze in Senato e favorirebbe uno squilibrio tra parlamentari e delegati regionali nel collegio incaricato di eleggere il Presidente della Repubblica. Ciò l’ha portata a schierarsi per il No in prima lettura, spingendola a tacciare l’allora maggioranza di governo (Lega-M5S) di populismo e demagogia. Cosa è cambiato con l’entrata del Partito Democratico nella maggioranza di Governo?

Non è esatto. Il No in prima lettura dipendeva dalla compresenza di altri due progetti: la fine del libero mandato parlamentare e un modello di referendum propositivo che lo contrapponeva al Parlamento. Gli altri, delegati regionali e collegi pluriregionali, sono inconvenienti a cui ora fa fronte il testo Fornaro che fa parte dell’accordo di maggioranza e che va in Aula il 25.

Nei resoconti stenografici della Camera (che riporto qui), però, non vi è nessun riferimento alla “fine del libero mandato” e “al modello di referendum propositivo” quali concause del No in prima lettura. C’è, tuttavia, un suo interessante intervento sulle difficoltà che una riforma parziale come quella degli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione reca con sé. Per chiarezza riporto un breve estratto:

Non c’è alcuna consapevolezza dei riflessi dei numeri che si adottano: ve l’abbiamo spiegato più volte cosa significa avere un Senato eletto a base regionale con 200 persone, quali soglie implicite si determinano, quali effetti si determinano sui Regolamenti parlamentari, sui numeri della composizione dei gruppi, della composizione delle Commissioni. Non vi è interessato questo, perché c’è solo lo spot elettorale da fare! Oltre a non esserci solennità, non c’è neanche concordia, quella che dovrebbe esserci in materia costituzionale.

La mancanza di concordia è una frase che viene alla fine, dopo aver segnalato, qualche pezzo prima, la forzatura sulle inammissibilità. Si riferisce implicitamente ma chiaramente a quello. Degli altri due progetti ne abbiamo parlato in altre sedute, ero relatore di minoranza sul referendum propositivo, può trovare le sedute relative a quello. Io, quando in una seduta si parla di un provvedimento, sono contrario a citarne anche altri in quella sede. In ogni seduta si parla di quel tema. Inoltre nell’accordo di maggioranza è previsto, dopo l’entrata in vigore della riforma, il lavoro di completamento regolamentare di cui lì si parla.

Di certo il contratto di Governo sul quale si regge l’attuale maggioranza ha offerto delle garanzie al suo partito (si veda qui l’articolo 10). Ritiene che il M5S possa essere un partner affidabile con il quale avviare una stagione di riforme? Allo stesso tempo, non teme che l’esperienza del Conte II possa terminare anzitempo, consegnando così ai cittadini una riforma parziale e a tratti dannosa per il nostro assetto istituzionale?

È evidente che un anno fa col Governo Conte II ci siamo assunti un rischio. Ma a distanza di un anno, sui fondamentali, in particolare sul rapporto con l’Unione europea, mi sembra che la maggioranza abbia funzionato, soprattutto se invece avessimo lasciato il campo alle forze sovraniste. Ci sono poi tante questioni irrisolte e difficoltà che non ignoro, ma il bilancio vero deve partire dai fondamentali.

Ciò che spesso passa in secondo piano, inoltre, è il conflitto sui procedimenti parlamentari che ha infiammato il dibattito durante le prime tre letture del progetto di legge costituzionale. Lei ha saggiamente difeso il diritto di emendare il testo della riforma costituzionale, nonché la necessità di ampliare il perimetro dell’intervento legislativo. La Presidenza della Commissione (a guida Movimento 5 Stelle nella persona di Giuseppe Brescia) ha però ritenuto tutti gli emendamenti non ammissibili. Non sono quindi mancate anche da parte sua accuse di atteggiamenti “eversivi” e antidemocratici, salvo poi votare in favore del testo di legge in ultima lettura. Per ciò che riguarda i correttivi alla legge in questione proposti dal PD (su tutti, l’allineamento dell’elettorato attivo e passivo per Camera e Senato e riduzione dei delegati regionali nella veste di grandi elettori) sente di poter rassicurare i cittadini circa un atteggiamento più democratico dei partner di governo?

La grave decisione sull’inammissibilità si deve in realtà anzitutto alla presidente Casellati al Senato. Contro di essa avevamo anche pensato a un possibile ricorso alla Corte. I cosiddetti correttivi di cui parla sono una parte degli emendamenti ritenuti in precedenza inammissibili. Quindi essi hanno consentito il voto diverso nell’ultima lettura perché si sono aggiunti determinando un nuovo contesto, oltre al fatto che siano stati espunti il mandato imperativo e quella forma di referendum propositivo.

In riferimento alla “grave decisione sull’inammissibilità”, lei attribuisce la principale responsabilità alla presidente Casellati. Tuttavia, leggendo le trascrizioni dei suoi interventi (o rivedendo i video pubblicati sul sito della Camera) appare chiaro come i suoi richiami ai regolamenti avvenissero nei confronti del presidente Fico e del presidente Brescia (per quest’ultimo principalmente in Commissione). Questo estratto è delucidativo:

La Corte costituzionale, nell’ordinanza n. 17 del 2019, ha detto che il potere di emendamento dei parlamentari deriva direttamente dalla Costituzione; i Regolamenti sono chiamati a specificarlo, ma deriva dalla Costituzione. […] Per di più, il nostro Regolamento della Camera, interpretando in modo intransigente la Costituzione, ci dice che “debbono essere dichiarati ammissibili tutti gli emendamenti che non hanno frasi sconvenienti o argomenti affatto estranei all’oggetto della discussione”. […] Ora, veramente, il procedimento di revisione costituzionale è in assoluto il procedimento più importante, perché lascia tracce durevoli nell’ordinamento. Di fronte a questo, tagliare le possibilità di discussione, di votazione, rappresenta veramente un gravissimo [fatto].

Noi eravamo alla Camera e quindi polemizzavamo con chi l’aveva deciso alla Camera. Ma Brescia e Fico lo avevano deciso uniformandosi alla decisione precedente della presidente Casellati al Senato. In seduta io critico chi è lì e chi decide lì, ma la responsabilità della Casellati è maggiore perché aveva iniziato lei. Giustamente nei suoi confronti avevano protestato i senatori nell’Aula del Senato. A ciascuno il suo.

Cosa risponde a chi sostiene che lei abbia effettuato una giravolta acrobatica in ambito politico? O a chi, all’interno del suo stesso partito, si schiera apertamente per il No alla riforma lamentando un appiattimento del PD sulle posizioni del M5S?

I testi si valutano nel contesto: io penso che quando votammo Sì nell’ultima decisiva lettura, nel PD fummo tutti favorevoli, ciò accadde non per una ragione solo politicistica, per far decollare il Governo, ma anche perché il contesto era radicalmente cambiato. Ai sostenitori del No io dico solo una cosa: la loro eventuale prevalenza comporterebbe il blocco di ogni reale speranza di cambiamento costituzionale.

William De Carlo per Policlic.it

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