Il campionato italiano è ripreso in queste settimane. Poco più di un mese fa terminavano i mondiali in Russia, e tra non molto inizierà la fase di qualificazioni ad Euro 2020. È palese che il gioco del calcio occupa ormai un discreto spazio delle nostre vite, anche di chi non se ne interessa. Più d’un autore ha parlato del calcio come di una delle “religioni” della contemporaneità. Ma che tipo di “religione” sarebbe questa? È corretto definirla così? E – se sì – come si è sviluppata nei decenni fino a noi? E quali sono le prospettive future?

Ne abbiamo parlato con Pierluigi Allotti, autore di “Andare per stadi”. Il libro, pubblicato di recente dalla casa editrice “Il Mulino” e presentato anche all’Università La Sapienza di Roma, è un’interessante carrellata storico/geografica sui principali stadi italiani. Se infatti il calcio è una religione, una prospettiva di analisi è inevitabilmente quella del suo “tempio”. Il dott. Allotti – che tiene corsi sulla storia del giornalismo e della televisione, sempre alla Sapienza – ci ha concesso di discuterne a fine luglio in pieno centro di Roma, tra scorci caratteristici e in un clima di totale cordialità. La discussione è stata stimolante e i temi toccati diversi. Un ringraziamento ovviamente al dott. Allotti, oltre che per la grande disponibilità anche per il totale coinvolgimento nel nostro intento di approfondire.

Policlic: Dottor Allotti, cosa l’ha spinta a scrivere questo libro? L’idea di fondo che emerge dalla lettura è che il calcio sia una forma di manifestazione sociale. Lei cita a un certo punto una frase del sociologo Franco Ferrarotti, secondo cui attraverso il calcio si può “capire una società”. È così?

Allotti: Sì, anche. Ma prima di tutto direi che c’entrano gli interessi maturati sin dagli studi universitari. Quando ero studente universitario, negli anni ’90, seguivo le lezioni di storia contemporanea del prof. Emilio Gentile e si parlava di “religioni secolari”. Una volta domandai a Gentile se anche il calcio potesse considerarsi una religione secolare, e lui mi rispose di sì. E quindi era interessante studiare il “tempio” di questo tipo di religione “laica”. Del resto di esempi ne abbiamo vari. Il più recente è forse il ritiro di Francesco Totti, nel 2017. La cerimonia all’Olimpico è stata letteralmente un Osanna collettivo, con la gente che piangeva come se si trattasse di una divinità. Su “Repubblica” il giornalista Carlo Bonini ha sottolineato che Totti è considerato un simbolo della città. Ecco: da questi spunti mi è venuta l’idea del libro.

P: Il calcio come religione quindi. Ecco, quanto allora lo stadio può essere il “tempio” di questa religione? Lo è ancora oggi?

A: In passato lo era certamente. In Italia il calcio ha assunto la sua dimensione religiosa con la società di massa realizzatasi pienamente nel secondo dopoguerra. Nel libro io cito una frase di Pasolini che descrive il calcio come “ultima rappresentazione sacra” del suo tempo. Siamo nel 1970. Sono tempi di profondi cambiamenti. La stessa Chiesa Cattolica si accorge sin dai primi anni ’60 della crisi della religione tradizionale e del bisogno di fare i conti con la modernità, al punto che convoca un concilio. E poi, restando strettamente al calcio, negli anni ’70 esplode il fenomeno “ultras”, che toccherà il picco nel ventennio successivo. Allora sono tantissimi i giovani che passano la settimana ad aspettare trepidanti la partita successiva. In confronto oggi le cose sembrano cambiate. Forse ora sta avvenendo la “secolarizzazione” degli stadi. Il libro si chiude infatti con il nodo della “fuga dagli stadi” e l’affermarsi sempre maggiore alla televisione, grazie ai canali satellitari e alle pay tv.

Ma non solo: anche la carenza delle infrastrutture ci mette del suo, visto che gran parte degli stadi italiani sono vecchi. E poi pare che anche la partita di calcio si stia trasformando in una “spettacolarizzazione” come i match di basket o di football americano. Pare che anche gli stadi stiano trasformandosi in luoghi dove ad esempio vedere la partita consumando gli hot dog. In questo caso il calcio perderebbe quel senso di partecipazione che aveva un tempo. E cambia anche la tipologia del tifoso, come già avvenuto in passato. Cent’anni fa il tifoso medio era il “borghese”. Poi la figura è divenuta sempre più “popolare”, tanto che lo storico marxista Eric J. Hobsbawm ha definito il calcio come la “religione laica del proletariato” in Gran Bretagna. Chissà come sarà il tifoso del domani.

P: A proposito del calcio come “fenomeno di massa” in Italia, lei lo delinea sin dal periodo tra le due guerre mondiali per essere precisi

A: Certamente. Nel libro riporto un aneddoto curioso, preso dal carteggio tra lo storico antifascista Gaetano Salvemini e il suo discepolo Ernesto Rossi. In una lettera a Salvemini (allora espatriato all’estero), Rossi “lamenta” che il calcio assorbiva sempre più gli interessi di molte persone. Perfino il suo padrone di casa era contagiato da questa febbre, al punto che pur essendo stato iscritto al partito socialista e pur tenendo il quadro di Matteotti in camera – dice sempre Rossi – parlargli di politica era opera inutile. La lettera è del 1927. Più in generale basti pensare che negli anni ’30 – in pieno regime fascista – si pensa a costruire nuovi stadi da centomila o anche più spettatori.

P: Ecco, anche questo salta subito all’occhio del lettore: l’intreccio tra calcio e storia del paese. Per gli ultimi cent’anni di storia italiana lei ha ogni volta uno stadio e un aneddoto più o meno noti da ricordare. E non solo nel tempo, ma anche nello spazio (da nord a sud). Così per l’epoca della belle époque troviamo – per esempio – i primi stadi di Torino. Per quella fascista i vecchi stadi di Roma. Per gli anni sessanta il San Siro di Herrera e Rocco. Per gli ottanta il San Paolo di Napoli e il Bentegodi di Verona. E così via. Del resto la collana editoriale ha un nome indicativo: “Ritrovare l’Italia”.

A: Esatto. L’idea dell’editore con questa collana è proprio quella di raccontare il paese attraverso simboli geografici o anche culturali. Io ho seguito quella degli stadi. E ho inserito poco più di una quindicina di tappe, lungo contemporaneamente lo spazio e il tempo. A dire il vero avrei potuto metterne di più, ma i limiti editoriali non mi consentivano di allargarmi troppo. E così è venuto un libro scorrevole. Per quanto riguarda l’excursus storico mi sono prefissato di accennare anche all’evoluzione delle tecniche di gioco. Anche queste “raccontano” in qualche modo una società.

L’Italia infatti negli anni ’30 vince due mondiali con uno stile di gioco – quello di Vittorio Pozzo – pragmatico, basato cioè perlopiù sull’evitare di subire il gol. Non era però ancora il calcio “catenacciaro” (definizione di Brera), che si sarebbe imposto nel dopoguerra e che è stato da più parti deprecato all’estero. Anche in tempi recenti. Ricordo ancora i titoli de “El Pais” durante i Mondiali poi vinti nel 2006, dove si criticava la nazionale italiana capace solo di giocare il catenaccio. Al che mi viene da commentare che bisogna vedere catenaccio e catenaccio: giacché se il catenaccio è giocato da Totti o Del Piero, è difficile criticarlo troppo.

P: In effetti…
E poi c’è un’altra “chiusura del cerchio”: quella della “evoluzione” degli stadi, anche guardando al discorso “proprietà”. Lei parte da Torino negli anni dieci del Novecento e finisce sempre a Torino negli anni dieci del Duemila, attraversando una fase dove dal predominio (a un certo punto) del capitale pubblico si passa alla prospettiva del privato. Lo spartiacque è forse rappresentato dai mondiali di “Italia 90”. Fu allora infatti che vennero costruiti gli ultimi stadi pubblici. 

A: È vero che “Italia 90” è stata lo spartiacque. E lo è stato anche a proposito dello spopolamento degli stadi. Lo ha ricordato anche Matteo Marani (ottimo giornalista sportivo di Sky Sport 24) alla presentazione del mio libro a Bologna, a giugno. I mondiali del 1990 furono l’ultima competizione prima del boom delle partite viste sullo schermo. Le prime pay tv si affermano negli anni immediatamente successivi. Mentre nelle menti degli organizzatori della competizione c’era ancora l’idea di convogliare gli spettatori sul vivo del match. Sempre alla presentazione del mio libro c’era anche Nicola Sbetti, che ha scritto una storia della Coppa del Mondo.

Spulciando negli archivi della FIFA ha ritrovato i fascicoli della candidatura dell’Italia (avanzata nel 1984, e vinta sull’Unione Sovietica), e risulta che nel progetto iniziale – notoriamente rimasto non realizzato su molte cose – c’era addirittura l’idea di costruire a Roma un nuovo stadio da oltre 100.000 posti, da erigere al posto del Flaminio. In pratica la stessa cosa che avevano pensato i dirigenti sportivi ai tempi del fascismo, più di mezzo secolo prima. Oggi questo approccio è completamente superato. Ovviamente molti preferiscono assai più vedere la partita comodamente da casa, seduti sul divano. E questo mi fa ancor più pensare alla differenza col passato, quando recarsi allo stadio per la partita della domenica ti portava via una giornata. Era quasi una via Crucis, che anch’io ho provato direttamente.

P: Anche di questo si legge nel libro.

A: Sì, riporto alcuni stralci di cronache del 1979 a proposito dell’Olimpico. Ma anche per quella che è stata la mia esperienza, andare all’Olimpico negli anni ’80 significava davvero partire alle otto di mattina e tornare alle otto di sera. Era comunque tutt’altra atmosfera. All’epoca negli stadi entrava quasi di tutto. La gente si portava dietro la pasta per il pranzo. E non c’erano i controlli odierni. Da una parte oggi è anche meglio, visto che la violenza negli stadi esplose proprio allora. Il capitolo sull’Olimpico è dedicato infatti alla insensata morte di Paparella (il tifoso della Lazio ucciso da un razzo sparato dalla curva dei tifosi romanisti).

Tornando al discorso pubblico/privato, l’esempio di Italia 90 è ancora indicativo. A Torino allora fu costruito il Delle Alpi, che soffriva di un problema non da poco: la pista olimpica che allontanava gli spalti dal rettangolo di gioco, rendendo sempre meno visibile il match. In alcuni punti si vedeva poco o nulla. Il nuovo stadio della Juventus invece – costruito nel 2011 – è stato fatto su misura. Detto questo però il discorso non è tanto che il pubblico è cattivo e il privato è buono. È in generale un problema di qualità delle strutture in Italia. E anche dei tempi di costruzione. Abbiamo seguito tutti la vicenda del futuro stadio della Roma. Un qualcosa che io pensavo portasse già a breve alla posa della prima pietra e che invece chissà quando vedremo. Mentre – per fare un confronto – sempre a Torino per edificare il Comunale un secolo fa ci misero 180 giorni.

P: Restiamo ancora sul discorso “proprietà”. Perché va detto che oltre alla Juventus anche altre due squadre italiane hanno al momento la proprietà dello stadio: l’Udinese e il Frosinone. Solo che i risultati pare non siano radicalmente diversi da prima. Anche restando solo all’Udinese che è stabilmente in serie A da anni. Ecco: la proprietà è davvero il “grimaldello” del successo?

A: Grimaldello no. Però nel calcio di oggi statisticamente forse conta. Mi spiego con un esempio. Nell’ultima edizione della Champions League la Roma è stata tra le semifinaliste, e dal 2009 risulta essere l’unica priva dello stadio di proprietà. Cioè: questo vuol dire che in quasi dieci anni tra le prime quattro della Champions c’erano solo squadre proprietarie di stadi. Per dire che forse la proprietà incide. Anche come introiti. L’Udinese ha poi ovviamente un volume di introiti minore, ma penso che i risultati siano comunque migliori rispetto a quando c’era lo stadio Friuli.

P: Facciamo un attimo un passo indietro: lei ha toccato prima il tasto della “spettacolarizzazione” del calcio, sul modello degli sport americani. Ecco, pensa quindi che il calcio diventerà un entertainment?

A: Potrebbe. Qui devo restare ancora sul discorso della proprietà degli stadi. Torniamo allo stadio della Roma: se si farà, sarà realizzato anche questo su misura, con posti limitati cioè. E il costo dei biglietti salirà. Quindi il pubblico verrà selezionato, e le fasce più popolari tenderanno a non frequentare più. Penso sia questa la linea di questi nuovi proprietari americani, come Pallotta. Cosa del resto comprensibile, visto che in questo caso ci mette lui i soldi.

P: Tornando invece agli introiti, cosa pensa di quello che viene descritto come l’affare del secolo, ossia l’acquisto di Cristiano Ronaldo da parte della Juventus che, secondo uno studio, pare potrà fruttare 100.000.000 di euro di introiti da ascrivere nel proprio bilancio societario annuale?

A: Che sia l’affare del secolo lo si vedrà dai risultati sportivi. Non solo dal profitto. I risultati sportivi non possono essere secondari. Ho letto di recente un articolo sempre riguardante Pallotta. Si diceva che da quando è presidente della Roma ha guadagnato molto senza vincere ancora nulla. Su Cristiano Ronaldo vedremo quindi. Per ora sembra più l’operazione mediatica, per rivitalizzare i tifosi. Per la Juventus infatti non è più tanto questione di uno scudetto in più. Al limite la prospettiva sarebbe per la Champions. Ma su tutto per ora io ci vedo più che altro un ritorno di immagine, per la vendita di magliette e gadget. Poi, l’effetto dirompente potrebbe essere anche sui tempi lunghi, visto che l’acquisto di Ronaldo potrebbe innescare altri grandi colpi di mercato da parte di altre squadre. In questo caso si potrebbe tendere verso la situazione degli anni ’80, quando da noi venivano a giocare quasi tutti i maggiori campioni e talenti dell’epoca (Maradona, Platini, Falcão, ecc.) e l’Italia era in pratica il baricentro del calcio mondiale. Se accadesse, questo potrebbe essere l’incentivo a costruire nuovi stadi. 

P: Un’altra curiosità, restando sull’attualità: che ne pensa di quello che si è detto agli ultimi mondiali, dopo la vittoria della Francia sulla Croazia? Che da più parti cioè ci siano state letture tipo “la nazionale multietnica contro quella bianca”. E quindi torna prepotente il problema dell’integrazione anche nel calcio. Anche in Italia, nonostante da noi manchi una tradizione come quella che hanno i francesi e i belgi specie dalle ex colonie. 

A: L’esempio più lampante è il recente caso di Özil che, da giocatore tedesco di origini turche, si è fatto fotografare con Erdogan, generando polemiche. Gli si è fatto notare di aver trascurato il problema dei diritti civili in Turchia. Qui il mio commento è che non si può forse pretendere da un calciatore che faccia l’intellettuale. Che abbia sbagliato o no. Allo stesso modo di quando si critica Balotelli per le sue uscite sul razzismo. In generale le polemiche sull’integrazione sono roba già vista. Specie a proposito della Francia.

Già sul finire degli anni ’30 Paolo Monelli criticava i francesi e la loro integrazione dalle colonie africane con argomenti analoghi a quelli che leggiamo ancora oggi. Per cui direi che è una polemica vecchia. Guardiamo avanti. Contando però che l’integrazione sembra essere un processo di lunga durata. Sempre il caso di Özil insegna. E quindi è da prendere con le pinze anche l’eventuale corsa ad eventualmente “nazionalizzare” i nuovi italiani, in questo caso per avere anche degli atleti.

P: Passiamo ad altro: una considerazione sull’evoluzione del calcio scommesse, che lei sfiora sempre nel libro quando parla dello scandalo scommesse del 1980 e la famosa retata allo stadio di Pescara. È un qualcosa che può avvicinare anche i non appassionati al calcio? Oppure no?

A: Dipende. Un tempo penso di sì. Negli anni ’50 venne fuori il Totocalcio, la cui prospettiva di vincita attirò ovviamente molte persone. Però la dimensione sportiva pareva prevalere. Ogni domenica si aspettava la trasmissione “90° minuto”, dove leggere i risultati della schedina e vedersi le sintesi. Era un’attesa quasi “romantica” viene da dire. Oggi invece si scommette su tutto, passando dal calcio al Superenalotto, alle corse dei cavalli, ecc. E sulle partite di pallone si scommette sul numero di gol, sul risultato intermedio, e via andare. Ormai ci si concentra solo su come arrivare a vincere, e la dimensione sportiva è sempre più residuale. E diventa una vera e propria droga.

P: Questo ci riporta al recente decreto del governo, e la recente stretta sul gioco d’azzardo e la pubblicità alle società di scommesse. Un suo parere?

A: È un argomento difficile. In linea teorica posso anche essere d’accordo. Però non nascondo che ci si potrebbe vedere una certa ipocrisia. Faccio l’esempio classico: sappiamo tutti che lo Stato ha il monopolio del tabacco e al contempo per legge impone che sulle confezioni di sigarette ci sia scritto che il fumo nuoce gravemente alla salute. In pratica lo Stato disincentiva ufficialmente il fumo, guadagnandoci però per chi vuole consumare lo stesso il prodotto. E al contempo spende soldi nel settore sanitario per curare malattie che derivano dal consumo di sigarette. Non lo so. Forse ci vuole una certa gradualità prima di azzerare un settore.

P: Dottor Allotti, siamo in chiusura. Una domanda ovvia a questo punto, oltre a ringraziarla: di che parlerà il prossimo libro?

A: Sto lavorando a varie cose. A più breve termine c’è una storia del Corriere della Sera, scritta a quattro mani con un collega. Ne riparleremo a pubblicazione avvenuta magari.

Luigi Fattorini per Policlic.it


Nota a margine: mentre eravamo in procinto di pubblicare il testo dell’intervista col dott. Allotti, il 20 agosto è stato diffuso dai media un comunicato firmato dall’Usigrai (il sindacato dei giornalisti Rai) e dal CdR di Rai Sport. Il comunicato lamenta la pressoché totale assenza della TV pubblica dal campionato di calcio a beneficio di quelle a pagamento. E chiede che si inverta la rotta. Lo rileviamo perché è palese a tutti quanto la cosa si incastra con gli argomenti toccati col dott. Allotti. Come il tassello di un mosaico. Per chi vuole, riportiamo qui anche il testo del comunicato, che è ancor più indicativo:

“Vedere il calcio in tv ormai è un privilegio per pochi. Per i pochi che possono pagare costosi abbonamenti. Come avete notato, sabato e domenica è cominciato il campionato di serie A, ma poco o nulla si è potuto vedere sulle tv non a pagamento. Ormai gli interessi dei signori dei diritti tv e quelli dei club di calcio stanno negando il calcio in tv al grande pubblico. I giornalisti della Rai chiedono alle istituzioni un intervento nell’interesse dei cittadini: gli affari non possono vincere sempre e su tutto. Noi lo denunciamo da tempo e continuiamo a batterci nel silenzio assordante della politica e di chi dovrebbe agire a tutela di tutti i telespettatori. Al nuovo vertice della Rai chiediamo di far sentire la propria voce e di tornare ad essere protagonista nel settore: siamo il Servizio Pubblico, lo sport deve essere di tutti, per tutti”.